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Ilva, a che punto siamo?

23/11/2015

I commissari preposti alla gestione sembrano disorientati, la Confindustria chiede a gran voce il ritorno del potere di comando nelle mani dei soliti noti, e il governo non appare avere una strategia chiara sul che fare

Attualmente l’area di Taranto appare un vero inferno dal punto di vista economico ed occupazionale. Registriamo intanto la situazione dell’Ilva, che occupa ancora oggi direttamente circa 12.000 persone, mentre molte altre lavorano nell’indotto. Ma diverse altre importanti realtà si trovano in rilevante difficoltà. Così vanno ricordate le ricorrenti pene dell’Arsenale, mentre si paventa anche il trasferimento dell’impianto altrove. Segnaliamo poi la raffineria del gruppo Eni, che, tra l’altro, presenta qualche problema di inquinamento, nonché il cementificio, legato in qualche modo all’Ilva ed anch’esso in difficoltà; la mitilicoltura, a sua volta, è in crisi sia per il caldo eccessivo di questa estate che per i danni prodotti dall’inquinamento dell’area. Per finire, ricordiamo soltanto la situazione di un call center locale che occupa attualmente circa 3.000 persone e che non ha certamente delle prospettive entusiasmanti davanti a se.

Così la città appare l’emblema stesso e la punta avanzata insieme della crisi nazionale e di quella meridionale, tra gravi inerzie del governo, sostanziale ritirata dal gioco degli imprenditori privati, confusione nella pubblica opinione locale, alimentata anche dai media nazionali e locali.

Il mercato della siderurgia e la situazione attuale dell’Ilva

E torniamo all’Ilva. Intanto la situazione attuale del mercato siderurgico non appare molto brillante. Nel corso degli ultimi decenni la produzione di acciaio ha continuato a crescere nel mondo per la forte dinamica dei paesi emergenti, e in particolare della Cina, che oggi concentra da sola circa la metà dell’output mondiale, mentre quello dei paesi ricchi stagna da tempo. Ma nel 2015 anche il paese asiatico rallenta, mentre si rivela in tutta la sua estensione il fenomeno della sopracapacità produttiva, che in Europa tende ad essere superato con molte chiusure di impianti e licenziamenti. Il settore è caratterizzato inoltre da forti processi di globalizzazione, da attività di concentrazione molto spinte, processi di integrazione a monte verso il settore delle miniere, chiusura e ristrutturazione di impianti. Nel nostro continente crescono fortemente le importazioni russe e cinesi, mentre sono in difficoltà le esportazioni. La sensibilità ai problemi ambientali ha portato nell’ultimo periodo ad un rinnovamento degli impianti in senso ecologico, particolarmente in Europa dove, tra l’altro, i tedeschi hanno saputo cavalcare meglio degli altri gli eventi.

Intanto la situazione dell’impianto di Taranto non cessa di deteriorarsi. Quest’anno si produrranno forse 4,8 milioni di tonnellate, contro una capacità produttiva di 9-10 milioni. La gestione perde attualmente circa 50 milioni di euro al mese, in relazione sia alle difficoltà del mercato (in particolare quello estero sta crollando) che ai lavori di ristrutturazione in atto. Mentre i commissari preposti alla gestione sembrano sostanzialmente disorientati, la Confindustria chiede a gran voce il ritorno del potere di comando nelle mani di chi se ne intende, sperando così di mettere in circolo i vari Marcegaglia, Arvedi e perfino i Riva. Il governo irresponsabilmente rimanda il risanamento dell’impianto e non appare avere una strategia chiara sul che fare, mentre non esiste un qualche piano industriale. Intanto l’indotto è in ginocchio e più di 200 imprese si trovano in stato di sofferenza, mentre l’azienda si va spegnendo lentamente.

Le tre soluzioni

In questi mesi si prospettano almeno tre diverse soluzioni ai problemi dell’impianto; tutte pongono rilevanti questioni.

1)la chiusura dell’impianto

Una parte dell’opinione pubblica locale, anche comprensibilmente esasperata dalla persistenza del grave problema dell’inquinamento, sembra essere a favore della chiusura. Si pensa che l’impianto non possa essere ristrutturato sino ad annullare i rischi ambientali e che comunque si tratta di un complesso vecchio, non competitivo. Si immagina poi che al suo posto si possano varare delle iniziative alternative che creino occupazione a livelli tali da riempire i vuoti lasciati dall’Ilva. Si parla così, tra l’altro, di sviluppare il porto e di puntare sull’acquacoltura e sul turismo.

Ma pensare che, nell’attuale stato di disorganizzazione delle istituzioni pubbliche, in presenza inoltre di una crisi economica nazionale di lunga durata, si riesca in pochi anni a trovare una nuova occupazione a Taranto per almeno 20.000 persone, rasenta l’irragionevolezza. Si pensi come controprova alla situazione di Bagnoli, dove, dopo la chiusura dell’impianto siderurgico locale che occupava circa 7000 lavoratori, la situazione si è rivelata di degrado assoluto.

Inoltre le iniziative sostitutive proposte appaiono sostanzialmente chimeriche. L’occasione del porto ci sembra sostanzialmente passata ormai da qualche anno. La possibilità per Taranto di qualificarsi come uno dei principali terminali dei traffici marittimi con l’Asia è tramontata per la sostanziale inerzia delle autorità pubbliche e i traffici hanno preso ormai inesorabilmente altre vie. Per quanto riguarda l’itticoltura la produzione italiana appare in larga parte fuori mercato rispetto alla concorrenza di altri paesi. Infine, nel comparto del turismo manca qualsiasi volontà e capacità da parte del settore pubblico e di quello privato di fare un adeguato sforzo in direzione di una crescita qualificata del settore. Gli alberghi cittadini sono vuoti. Alla fine, tra l’altro, non si capisce perché gli impianti siderurgici tedeschi possano essere competitivi e puliti e quelli italiani no.

2)la tecnologia del preridotto (1)

Intanto si va affacciando una nuova ipotesi, quella cosiddetta del preridotto, la cui idea sembra purtroppo serpeggiare nei palazzi del potere a livello centrale e locale.

La tecnologia del preridotto non utilizza nel processo produttivo l’agglomerato di minerali, al contrario che nel vecchio impianto, mentre il coke prodotto nelle cokerie viene sostituito dal gas; apparentemente si dovrebbero così mettere fuori gioco due dei fattori più inquinanti del processo produttivo tradizionale.

Ma bisogna intanto considerare che il punto di pareggio dell’impianto di Taranto, visti anche gli elevati costi fissi, si situa intorno agli 8-9 milioni di tonnellate annue, cifra che appare anche vicina alla capacità produttiva massima dell’impianto.

Allora se una parte rilevante della produzione fosse fatta con la tecnologia del preridotto –questa appare l’ipotesi in ballo-, l’impianto tradizionale andrebbe sicuramente in perdita; d’altro canto, bisogna considerare che le installazioni dello stesso preridotto sono in genere di dimensioni piccole, dell’ordine di qualche centinaia di migliaia di tonnellate e che quasi tutte sono collocate nei paesi emergenti. Esse hanno poi la necessità tecnico-economica di essere posizionate in aree ad alta intensità energetica. Per altro verso, non risulta che nel mondo esistano impianti a ciclo integrale, come quello di Taranto, che impieghino più del 4% del preridotto sul totale della produzione. Questo senza considerare che le grandi centrali elettriche dell’impianto Ilva sono alimentate con i gas di cokeria e di altoforno.

3)l’utilizzo della tecnologia tradizionale

Non resterebbe a questo punto che il riavvio a pieno regime dell’impianto a tecnologia tradizionale, soluzione cui va la nostra preferenza. Certo, non mancano le difficoltà anche per questa strada. Da più parti si mette intanto in rilievo come anche portando avanti le attuali prescrizioni dell’analisi di impatto ambientale (Aia), ci si ritroverebbe con un impianto ancora in una certa misura inquinante; se questa ipotesi fosse vera, essa non dovrebbe però spingere a chiuderlo, ma a pretendere l’applicazione di norme ancora più rigorose di quelle previste nell’Aia.

Non è chiaro come il governo intenda in ogni modo procedere con il progetto di risanamento. Sul piano societario probabilmente si pensa intanto all’avvio di una nuova società (Newco) a controllo pubblico (con anche dei privati?), senza il carico dei debiti pregressi e delle partite giudiziarie; la nuova impresa dovrebbe risanare in qualche modo l’impianto (sino a che punto, come ed entro quanto tempo?) per poi cederlo ai privati.

Questa soluzione, come quelle alternative già prima ricordate, richiederebbe molte risorse finanziarie e un potere di mercato adeguato. Tra l’altro, gli 1,2 miliardi reperiti all’estero dalla magistratura non sono ancora tornati in Italia, mentre si sussurra che sempre la magistratura sarebbe sulle tracce di altri soldi. Mah, chissà e chissà quando. Ma per un risanamento effettivo del complesso e per finanziare la sua ripresa l’impianto avrebbe bisogno di una cifra che si può forse stimare come vicina ai 5 miliardi.

Nel paese non sono disponibili risorse adeguate di tipo finanziario e di mercato per gestire in un ambiente sempre più complesso la partita. Sarebbe quindi opportuna, da una parte, una forte partecipazione pubblica per presidiare gli interessi nazionali, dall’altra, l’arrivo di un grande partner estero. Se ci fosse poi anche un socio privato italiano che possegga però risorse e mercati, cosa di cui comunque dubitiamo, ben venga.

In assenza di un intervento molto tempestivo ed adeguato, le speranze per Taranto scemerebbero molto presto.

 


(1)nella stesura di tale paragrafo abbiamo utilizzato delle informazioni reperite in alcuni scritti del prof. Riccardo Colombo e dall’ing. Biagio De Marzo

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