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“Quantitative easing”, perchè all'Europa non serve

01/12/2014

L’Europa soffre di un problema di domanda: iniettare altra liquidità nelle banche non serve a niente se non c’è qualcuno disposto a prendere quei soldi in prestito.

Richard Koo, capo economista del Nomura Research Institute, è considerato uno dei più eminenti economisti al mondo. Il 22 novembre ha partecipato alla tavola rotonda organizzata a Firenze da Eunews e Oneuro, “How Can We Govern Europe?”, per presentare in anteprima europea il suo nuovo libro, The Escape from Balance Sheet Recession and the QE Trap. Abbiamo colto l’occasione per fargli qualche domanda su uno dei temi più caldi del momento, soprattutto alla luce delle recenti dichiarazione di Mario Draghi: il quantitative easing.

Negli Usa il programma di quantitative easing della Federal Reserve, con cui la banca centrale americana ha immesso nell’economia svariate migliaia di miliardi di dollari, volge al termine. Che giudizio dà dell’operato della Fed, e più in generale delle politiche di quantitative easing?

Oggi tutti parlano di quantitative easing e di politiche monetarie, anche in Europa, ma l’impatto di queste politiche sull’economia è enormemente sopravvalutato. Se guardiamo agli Stati Uniti, vediamo che l’elemento cruciale per la ripresa economica non è stata la politica monetaria. È stata la politica fiscale, ovvero la spesa pubblica. Gli Stati Uniti hanno capito una cosa fondamentale: che in seguito alla crisi le economie di tutti i paesi avanzati sono entrate in quella che io chiamo balance sheet recession, “recessione dei saldi di bilancio”: un fenomeno che si verifica in seguito allo scoppio di una bolla speculativa, quando il settore privato, avendo accumulato una grande quantità di debiti nel periodo antecedente alla crisi, si ritrova impossibilitato a ripagare una buona parte di quei debiti e comincia a tagliare le spese e a risparmiare, come è logico che sia. Ma questo provoca ovviamente un crollo della domanda.

Questo è esattamente quello è successo in seguito allo scoppio della crisi dei subprime, sia negli Usa che in Europa. Ora, se c’è una legge in economia è che quando un settore – in questo caso quello privato – risparmia e si rifiuta di investire, levando liquidità all’economia, qualcun altro deve spendere per evitare che l’economia cada in recessione. E quel “qualcun altro” è ovviamente lo stato. Gli Stati Uniti questo l’hanno capito molto bene: e infatti subito dopo la crisi il governo Usa ha fatto ricorso, e in maniera piuttosto massiccia, alla spesa pubblica in deficit. Ossia alla politica fiscale. È questo che ha permesso la ripresa economica e non, come molti pensano, la politica monetaria della Fed, ossia il quantitative easing.

I dati infatti dimostrano che il quantitative easing ha avuto un impatto quasi nullo sull’economia reale: nonostante l’enorme iniezione di liquidità da parte della banca centrale, infatti, il credito delle banche al settore privato ha avuto un incremento molto modesto, nonostante i tassi fossero vicino allo zero. E questo per una mancanza di domanda da parte del settore privato. In questo senso possiamo dire che il quantitative easing è servito a poco, a parte far ripartire la speculazione sui mercati finanziari. Per uscire dalle recessioni c’è dunque bisogno di politiche fiscali espansive.

L’Eurozona, come sappiamo, ha seguito una strada molto diversa…

L’Europa ha fatto l’esatto opposto degli Stati Uniti. E questo perché non ha compreso la natura della balance sheet recession che stava attraversando. In un momento in cui il settore privato era impegnato a ridurre i propri debiti, non solo gli stati dell’Eurozona non hanno aumentato i loro deficit, come avrebbero dovuto, ma li hanno addirittura ridotti! Questo è precisamente quello che non si deve fare in una balance sheet recession: se il settore privato e quello pubblico cercano di ridurre i loro debiti allo stesso tempo, il risultato è inevitabilmente una recessione, come abbiamo visto.

Mario Draghi ha recentemente dichiarato che la Bce è pronta a ricorrere anch’essa al quantitative easing. Pensa che potrebbe aiutare a risollevare le sorti dell’economia europea?

Per i motivi che ho spiegato, una politica di quantitative easing nell’Eurozona servirebbe a poco. L’Europa soffre di un problema di domanda: iniettare altra liquidità nelle banche non serve a niente se non c’è qualcuno disposto a prendere quei soldi in prestito. E il settore privato sta dimostrando chiaramente di non avere nessuna intenzione di indebitarsi, nonostante i tassi siano vicini allo zero. Come ho detto prima, in questi casi è lo stato che deve farsi carico di rilanciare la domanda per mezzo della spesa in deficit.

Dati i vincoli istituzionali dell’Eurozona, quale sarebbe secondo lei il modo migliore per realizzare tale obiettivo?

Il primo passo è prendere atto che i vincoli attuali – Trattato di Maastricht e Fiscal Compact – sono del tutto insostenibili e vanno radicalmente riformati, perché così come sono non permettono agli stati di rispondere in maniera efficace a una balance sheet recession come quella che sta attraversando l’Eurozona. Stabilire un limite arbitrario del 3% al rapporto deficit/Pil che possono avere gli stati membri non ha alcun senso, perché il deficit ottimale di uno stato dipende dal tasso risparmio del settore privato. Prendi un paese come l’Italia, il cui settore privato registra un surplus del 6% circa. In questi casi limitare il deficit al 3% – o addirittura ridurlo ulteriormente, come prevede il Fiscal Compact – vuol dire privare l’economia di un 3% del Pil ogni anno, o peggio. Il risultato è inevitabilmente la recessione e la disoccupazione di massa. Quello che l’Eurozona dovrebbe fare è incaricare subito una commissione di esperti di valutare quali sono quei paesi che sono in balance sheet recession e permettere ai paesi in questione di far salire il loro livello di deficit pubblico ai livelli necessari. Nel caso dell’Italia il deficit dovrebbe essere almeno il doppio di quello attuale, per eguagliare il surplus del settore privato, che è del 6% circa.

Questo non avrebbe alcun costo per paesi come la Germania perché in l’Italia (ma lo stesso vale anche per altri paesi della periferia come la Spagna) la liquidità attualmente inutilizzata del settore privato sarebbe più che sufficiente a finanziare l’incremento del deficit. Il settore privato coglierebbe al volo la possibilità di poter parcheggiare i propri risparmi in titoli di stato, che rappresentano un investimento sicuro e dal rendimento garantito. E comunque possono essere studiati dei meccanismi per fare in modo che i risparmi di un paese vengano convogliati verso i titoli di stato di quel paese. Questo permetterebbe all’economia di tornare a crescere e al settore privato di riparare i propri bilanci. A quel punto è possibile ridurre gradualmente i deficit e riparare il bilancio dello stato. Ma è un passaggio che viene in un secondo momento. Invertire l’ordine delle due cose è un errore clamoroso.

 

Intervista pubblicata sul sito eunews.it

 

 

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