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Ttip, a rischio gli acquisti ecologici e sociali
Con il trattato transatlantico di libero scambio tra Usa e Ue gli standard qualitativi e di sicurezza rischiano di essere bollati ed eliminati come inutili barriere commerciali
Il principale strumento per la conversione ecologica è considerato, in Italia e in Europa, l’inserimento di criteri ambientali e sociali negli appalti pubblici di beni, servizi e opere, ovvero il Green Public Procurement.
Gli acquisti verdi della pubblica amministrazione, nella definizione della Commissione europea, sono “un processo mediante cui le pubbliche amministrazioni cercano di ottenere beni, servizi e opere con un impatto ambientale ridotto per l’intero ciclo di vita rispetto a beni, servizi e opere con la stessa funzione primaria ma oggetto di una procedura di appalto diversa.”
Una buona esperienza, in cui le scelte economiche pubbliche si mettono al servizio di un modo di essere società più consapevole e proattiva rispetto al pianeta, alle sue possibilità ma anche ai suoi limiti strutturali. In questi giorni, però, a Bruxelles, sta facendo passi avanti un nuovo trattato di liberalizzazione commerciale che vede protagonisti i due più grandi mercati interni globali, quello europeo e quello statunitense, che in nome di un previsto 0,05% di aumento del Pil europeo in 10 anni rischia di azzerare i presupposti stessi del Green Public Procurement: cioè l’esistenza di specifici standard qualitativi e di sicurezza dei prodotti che rischiano di essere bollati ed eliminati come inutili barriere commerciali. Il TTIP, o Trattato Transatlantico di liberalizzazione del commercio e degli investimenti, lanciato nel luglio scorso dal Commissario al Commercio Barroso e dal presidente Obama in persona, ha come obiettivo l’eliminazione delle poche barriere tariffarie ancora in pedi tra Usa e Ue – essenzialmente imposte su alcuni prodotti agroalimentari, di meccanica e chimici – ma soprattutto vorrebbe istituire un organismo congiunto che, nel breve-medio periodo, dovrebbe livellare tutti gli standard e i requisiti di qualità, sicurezza, territorialità che oggi regolano non solo l’immissione sul mercato dei prodotti e dei servizi, ma anche pratiche virtuose di amministrazione e appalti pubblici.
Ogni giorno le amministrazioni pubbliche italiane, centrali e locali, compiono, attraverso l’acquisto di beni e servizi, vere e proprie scelte di politica industriale, che sottendono uno specifico modello di sviluppo. È una cifra rilevante, pari a 383 milioni, che annualmente ammonta a circa 135 miliardi di euro, dovuti per il 69% alla sanità, per il 25,3% ai Comuni, per il 21,3% all’amministrazione centrale, e per l’8,6% a Regioni e Province. Quando le istituzioni comprano beni e servizi o realizzano opere, ne acquistano anche la loro storia ecologica e sociale, lungo tutte le catene di fornitura.
Adottare criteri di sostenibilità negli appalti pubblici, riqualificando in senso ambientale e sociale la spesa, significa promuovere nuove tecnologie ambientali, processi produttivi che riducono l’uso delle materie prime non rinnovabili e le emissioni di gas a effetto serra, filiere produttive “a ciclo chiuso” che minimizzano la produzione di scarti, trasporti più brevi e meno inquinanti, imballaggi più leggeri e riciclabili, beni e servizi che impiegano materie provenienti da attività di recupero e riciclo, imprese che rispettino il lavoro e tutelino i diritti umani e sociali, quali l’opportunità di occupazione, il lavoro dignitoso, i diritti sindacali, l’inclusione sociale, la pari opportunità, l’accessibilità, la considerazione di aspetti legati al commercio etico e una più ampia conformità con la responsabilità sociale di impresa.
Le specifiche tecniche di un servizio di ristorazione possono ad esempio portare all’acquisto di cibi freschi, stagionali, locali, biologici o provenienti da terre liberate dalle mafie e dall’agricoltura sociale oppure si può richiedere solo acqua da acquedotto pubblico o l’impiego di bevande sfuse e senza imballaggi; si può chiedere un arredo che utilizzi solo legno proveniente da foreste certificate o che non emetta formaldeide oltre determinati limiti; si possono realizzare strade che impieghino un prodotto da riciclo come i pneumatici fuori uso oppure promuovere un’edilizia sostenibile che impieghi materie locali e fonti energetiche rinnovabili, riduca i consumi energetici e il tasso di impermeabilizzazione del suolo o promuova il riuso delle acque.
Si tratta di una politica nata dieci anni fa, che oggi stanno adottando decine di amministrazioni come la Regione Sardegna, Liguria e ora il Lazio o Province come quella di Torino e Roma, resa possibile dall’attuale normativa sugli appalti pubblici e dal Piano d’Azione Nazionale sul Gpp (approvato nel 2008 e rivisto nel 2013), che prevede l’adozione di Criteri Ambientali Minimi in capitolati pubblici relativi a undici categorie di prodotto (arredi, edilizia con strade, costruzioni e ristrutturazioni di edifici, gestione dei rifiuti, servizi urbani e al territorio, servizi energetici, elettronica, prodotti tessili e calzature, cancelleria, ristorazione, gestione degli edifici, trasporti).
Le amministrazioni, tramite il Gpp, possono realizzare una politica industriale “dal basso” che facilita la conversione ecologica e sociale dell’economia, la creazione di nuove competenze, professioni e lavori verdi e la promozione di innovazioni tecnologiche, organizzative, sociali per un economia a bassa intensità di carbonio.
Ma tutto questo sarà ancora possibile con il futuro Trattato Transatlantico Usa-Ue? Sarà ancora possibile alle nostre amministrazioni promuovere la qualità ambientale e sociale delle produzioni, tutelare il lavoro dignitoso e applicare in prima persona una politica attiva di prevenzione dei danni ambientali e sociali? La risposta, al momento, è “no”. Innanzitutto non è dato sapere nei dettagli quale sia l’orientamento delle due parti coinvolte nella trattativa, perché il testo legale in discussione è classificato come segreto commerciale e dunque noto ai soli negoziatori. Ma dalle prime anticipazioni, e dalle conferme che ne abbiamo ricevuto nel confronto con i tecnici della Commissione in occasione del quarto ciclo negoziale del Ttip che si è tenuto a Bruxelles dal 10 al 14 marzo, gli Stati uniti vogliono a tutti i costi che si crei a seguito del Ttip questo Consiglio bilaterale sui regolamenti che armonizzi, ma soprattutto sorvegli, che nessun criterio di qualità o di sicurezza non ampiamente provato limiti il diritto ad esportare delle grandi imprese. Per la legge Usa, ad esempio, la presenza di ormoni dannosi, di residui chimici o di pesticidi, ma anche l’impiego di Ogm per l’alimentazione umana, animale, i prodotti di largo consumo non sono considerati ostacoli alla commerciabilità dei prodotti, come in Europa.
Un’impresa alimentare Usa, ad esempio, se il Ttip entrasse in vigore, potrebbe fare causa ad un Comune o ad una struttura italiane che, ad esempio, la escludessero da un appalto per una scuola o un ospedale per la presenza di ormoni, chimica o Ogm nella sua offerta di catering o forniture. Senza contare che mentre per gli Usa quella degli appalti non è materia federale, e che dunque non tutti gli Stati appartenenti agli Usa in realtà hanno aperto i loro appalti a livello nazionale, e tantomeno internazionale risultando in effetti impermeabile alle imprese europee, in Europa tutti gli Stati dell’Unione sono aperti agli appalti europei, e se dunque il Ttip venisse approvato anche le scuole materne e i mercati rionali sarebbero penetrabili senza appello da parte delle imprese a stelle e strisce. Se l’Europa, dunque, punta a spezzare il “Buy american” lanciato dal presidente Obama, in ben 13 dei 50 Stati Usa non potrebbe comunque entrare, e pagherebbe questa possibilità teorica con l’impossibilità futura di concentrare la propria spesa pubblica su prodotti e servizi sostenibili, di qualità, volano di una autentica conversione ecologica e sociale dei nostri territori. Un prezzo altissimo in qualità sociale, economica e ambientale che non dobbiamo essere disposti a pagare, e che nessuno, per nostro conto, dovrebbe permettersi di svendere.
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