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La vita ai tempi della grande crisi

14/06/2013

Cronache di un paese nel guado della crisi. Perché nonostante un disagio sociale in crescita la protesta non scende in piazza e tendono a prevalere risposte e soluzioni individuali

Mi sono chiesto più volte in questi mesi perché da noi in Italia di fronte alla crisi che prima ha portato un certo numero di piccoli imprenditori a togliersi la vita e poi ha condotto anche pensionati, lavoratori, disoccupati, sfrattati, per stare alla cronaca delle ultime settimane, ad emulare scelte analoghe soffocati dalla disperazione del non vedere una via d’uscita, perché le persone che vivono in gravi difficoltà la crisi non scendono in piazza a protestare?

Non mi interessa ora trovare una o più risposte economiche, sociali, politiche, culturali o altro frutto di una riflessione, quanto ripercorrere alcuni fatti e accadimenti personali, alcuni incontri realizzati nella comunità piccola che in parte, ma solo in parte, conosco.

Il modello è quello di Vincenzo Comito di cui ho avuto modo di apprezzare qui old.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Storie-di-ordinaria-disoccupazione-18537 oppure qui old.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Emilia-Romagna-piccola-cronaca-della-crisi-17165 le sue note ravennati. Qui cercherò solo di tratteggiare tre possibili spiegazioni. Nessuna delle quali di certo esaustiva, per quanto siano credo significative.

Vivo anche io in Romagna. Ma nel riminese, in una piccola località in collina, fatta di poche centinaia di persone. Tutto il territorio comunale ne fa non più di 1.500, ma nella località in cui abito non siamo più di 300.

Non sarò preciso sul luogo, ma sta in Valconca che è la zona attraversata dal fiume Conca che forma più volte anche i confini tra Marche e appunto Romagna, tra i comuni di Urbino e quelli del sud-est di Rimini, nelle colline sopra Riccione e Cattolica, e soprattutto sopra Morciano seguendo il fiume Conca appunto. È la zona meno industriale, meno artigianale, meno turistica, meno sviluppata, più agricola-abbandonata della provincia riminese. Colline tra i 200 e i 300 metri di altitudine, poco di più o poco meno. Popolate di ulivi e viti, più che da donne e uomini, di erba medica più che di foraggio pregiato, o grano e frumento per fare la farina. Popolate soprattutto di distese di capannoni abbastanza nuovi e mai utilizzati a fondo valle, molto brutti, tutti prefabbricati, dove corre il fiume con pochissima acqua in estate, e popolate sempre le colline di appezzamenti di terreno povero, a volte non coltivato, con pochi alberi che son stati tagliati negli anni per far posto a colture povere. Le querce popolavano la zona, ma ora sono molte meno di quelle che si vedono oltre confine, a due passi, nelle Marche. Estirpate per far posto all’erba medica oppure agli ulivi, che gli inverni mettono a volte a dura prova, come è successo in quello del 2012 che ha prodotto una ecatombe di rami spezzati e piante azzoppate sotto le sferzate del vento e il peso della neve che ha ghiacciato.

Reddito medio-basso, per gli standard di Rimini. Lavoro che si va a cercare sulla costa tra Pesaro e Rimini e molto a San Marino, che ora però ne offre molto meno. Lì si sentono gli effetti delle crisi delle banche e soprattutto dei ridotti traffici informali e illegali, anche criminali, con il riciclaggio di denaro, dei “bei tempi” in cui tutti aprivano un'attività sulla superstrada di San Marino, e dintorni, oltre Dogana.

Ma nella mia zona è diverso, almeno così si racconta. L’informale domina sul criminale. Ciò che conta è l’evasione spicciola, quella degli scontrini non dati, delle fatture non emesse, dei pagamenti in contante in quanto molti evitano bancomat e carte di credito per comodità e per ridurre i costi, preferendo far girare il denaro da una tasca e l’altra dei pantaloni o delle giacche, o da una borsetta all’altra, spesso griffate ma quasi sempre taroccate.

L’economia del contante. È un modo diffuso per far quadrare i conti, in un contesto nel quale l’evasione fiscale è davvero molto diffusa, storicamente diffusa, dati ufficiali della Guardia di Finanza che a volte i quotidiani locali riportano e su cui non mi soffermo in quanto come ho scritto evito di fare riflessioni puntuali.

L’economia del contante è un modo semplice per sopravvivere nella crisi, in un territorio che è peraltro abituato a tale prassi. La riviera romagnola che più conosco non si è mai fatta mancare il contante nelle transazioni.

Con la crisi, il contante è soggetto a un revival di alto rango, tutti lo amano e tutti lo cercano, e lo trovano anche. Non è facile sfuggire al contante, ti insegue in ogni negozio, che sia un alimentari, una ferramenta, un bar, anche un internet point, o soprattutto una bancarella di un mercato paesano, di quelli che il lunedì si fa lì, il martedì lo trovi là, così sino a sabato e domenica che sta qui o qua. Anche se pure i mercati paesani si sono impoveriti, molte bancarelle scomparse, e il giro d’affari grandemente ridotto, in ogni transazione che fai il contante è di casa. E con il contante, la non tracciabilità delle transazioni, piccole o grandi che siano.

I punti della distribuzione sono piccoli, e molti, si sono ridotti, ma nelle comunità a stretto giro di kilometri non vi sono centri commerciali. Per quelli devi andare sulla costa, o a San Marino. Al massimo trovi la distribuzione di piccola-media dimensione, ma già devi andare a Morciano, che una volta era il centro-mercato del bestiame. Ora al massimo fa la fiera di San Gregorio o similari.

Nessuno ti obbliga, ma se hai il contante meglio. E i locali usano quello, per i forestieri invece, se sconosciuti vale la moneta elettronica se son di passaggio, altrimenti dopo qualche transazione convinci anche loro che il contante è meglio.

Ma nella crisi l’informale a volte non è sufficiente. Devi passare ad altro se vuoi sopravvivere. La seconda cosa che fai è intaccare il risparmio. Quello dei genitori, oppure quello dei nonni se sei nipote trentenne. Prima intacchi il contante, e la liquidità. Prelevi dai conti correnti dove avevi depositato il lascito di qualcuno che non c’è più, oppure che c’è ancora ma che non ne ha più bisogno e decide di anticipare all’oggi ciò che avrebbe comunque lasciato a te domani. Se non basta vendi qualcosa, qualcosa di materiale. Una macchina, un mezzo agricolo che non usi, anche una automobile che ti “costa e basta” ed a cui devi rinunciare. Anche un pezzo di terra, che non coltivi più oppure dove ci tieni degli ulivi di 20 o 30 anni. Oppure una abitazione che non usi, sempre che trovi qualcuno che la compri a basso prezzo. Ma l’intaccare il risparmio è un processo che un poco durerà e ti consente di andare avanti, mantenendo un certo livello di consumo e di coprire le spese necessarie, magari per la scuola dei figli.

Poi ci sono le situazioni critiche, dove l’informale non risolve abbastanza, ed il risparmio da intaccare non è molto, e quel poco che c’era lo hai già intaccato. In questo caso, non hai via d’uscita. Non paghi e basta. Non paghi ciò che dovresti pagare ma che per trovarti e costringerti a pagare ci vuole del tempo. Non paghi l’Imu, non paghi le rette della scuola, non paghi alcune bollette. Non è del tutto vero che non paghi punto e basta. Semmai alcune cose non le paghi, altre le rinvii, dici pagherò. E con il non pagare ed il rinviare, fai passare alcuni mesi, che poi fai la somma e ti accorgi che è passato un anno.

Di casi personali potrei citarne un certo numero. Ma evito. Con l’informale la lista è davvero lunga, quasi uncontable. Con il dar fondo al risparmio diciamo che è una pratica che diviene piuttosto comune, nella mia località. Con il pagherò, siamo agli inizi, ma è un “bel vedere”, vedi i casi crescere, in modo non necessariamente lineare.

Tre modalità di affrontare la crisi, di convivere con la crisi, e sono anche tre modalità che in parte spiegano perché ancora il disagio rimane individuale e non diviene collettivo. Perché le persone non scendono in piazza.

D’altra parte, scendere in piazza, una parola facile a dirsi. Con chi e per cosa? La politica non esiste qui, ma solo in tv.

L’aggregazione non è neppure facile, prevale più la dispersione, anche territoriale. E forse c’entra anche un certo “pudore” e una accettazione “cattolica” di una sorta di punizione.

Comunque nella mia comunità le persone non sono abituate a scendere in piazza. Almeno è da molto tempo che non scendono più in piazza, per una ragione o per l’altra.

 

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