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C'era una volta la società

21/07/2014

Dis-connessi/La sfiducia generalizzata è il precipitato di un lungo processo di desertificazione della società e dei suoi vincoli di reciprocità e solidarietà, l'esito di quattro decenni di egemonia neoliberista e dello scatenamento degli spiriti egoistici contro tutto ciò che è pubblico, in comune, statuale

Nel 1987, in un'intervista concessa all'inizio del suo ultimo mandato da Primo Ministro, Margaret Thatcher affermava candidamente che «non esiste la società. Esistono gli individui, uomini e donne, e le famiglie». A distanza di quasi trent'anni, quella dichiarazione sembra aver assunto i contorni di una brutale profezia che si autoavvera. C'era una volta la società, verrebbe da dire. E con essa i suoi correlati nel campo della politica democratica: il patto di cittadinanza siglato in nome dell'uguaglianza e dei diritti di tutti e di ciascuno, il welfare con la sua impronta solidaristica e universalistica, il nesso fiscale fondato sulla redistribuzione e la progressività, la partecipazione sociale e politica innervata dalla pluralità dei corpi intermedi e dalla faticosa, conflittuale ricerca e composizione del bene comune e dell'interesse collettivo.

Scorie da smaltire di un'epoca in cui, per riprendere le parole della Lady di Ferro, «a troppe persone è stato fatto credere che se hanno un problema è il governo che deve risolverglielo». Orpelli fuori moda, oggi, al tempo dell'individuo in via di de-socializzazione e dei suoi tanto celebrati attributi di autonomia (sul mercato, nelle scelte di consumo) e responsabilità (giuridica e singolare, non certo etica), competizione e concorrenza (tra attori che si percepiscono e agiscono come agenti economici in cerca della massimizzazione del proprio utile), merito (che premia chi parte già in una posizione di vantaggio) e talento (di alcuni, a discapito dei molti).

Sarà forse per questo che siamo diventati cinici e diffidenti. A tal proposito, anche il recente Rapporto dell'Istat sul Benessere equo e sostenibile certifica per l'Italia – insieme al forte aumento delle disuguaglianze tra classi, generi e territori dall'inizio della crisi economica – una condizione di cronica sfiducia nei confronti dei nostri concittadini e delle istituzioni che dovrebbero rappresentarci, innanzitutto i partiti, il Parlamento, le amministrazioni locali, il sistema giudiziario.

Questa sfiducia generalizzata è il precipitato di un lungo processo di desertificazione della società e dei suoi vincoli di reciprocità, solidarietà, cooperazione: quattro decenni di egemonia neoliberista all'insegna dell'esaltazione delle magnifiche sorti del mercato capitalistico e dello scatenamento degli spiriti egoistici e acquisitivi dell'individuo assoluto che lo abita, contro tutto ciò che è pubblico, in comune, statuale.

Eppure, la realtà della crisi e delle politiche di austerità odierne ci restituisce l'immagine ben più prosaica di una società drammaticamente sperequata, gerarchizzata e segmentata, che aderisce perfettamente al volto tecnocratico, oligarchico e repressivo dell'ideologia e della pratica neoliberiste. Soli, disuguali e pressoché impotenti – ma immancabilmente connessi in rete e in attesa di un riscatto tutto individuale – di fronte allo smantellamento del lavoro e dei sistemi di protezione sociale; all'inarrestabile concentrazione della ricchezza e del potere; alla colonizzazione di sempre più ampie sfere e attività sociali e personali da parte degli imperativi della mercificazione, della privatizzazione, del profitto (e della rendita); alla moltiplicazione delle barriere materiali e immateriali che separano e gerarchizzano esistenze e destini individuali e collettivi.

Nella società dello homo homini lupus in cui siamo tornati a vivere, sono davvero pochi coloro ai quali è concesso affermare la propria individualità. A tutti gli altri non resta che riconoscere la propria subalternità. E organizzarsi di conseguenza.

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