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Industria, la provincia italiana

24/10/2014

SvendItalia/L’industria italiana alle origini della Eu esportava merci di basso conio e riempiva le case e le strade con prodotti indigeni. La facilità di mercato, insieme alla sostanziale protezione doganale,ha consentito agli industriali italiani la propria mancata specializzazione

Le difficoltà attuali dell'industria italiana non si presentano per la prima volta. Nell'attuale fase la struttura industriale è propria di un paese che non è ancora riuscito a fare i conti con le proprie capacità e le proprie debolezze. Tornando indietro negli anni si può notare che più che scarsità di carbone e ferro, su cui alzavamo geremiadi, avevamo ritardi culturali e politici, analfabetismo diffuso, povertà secolari. Dazi in entrata e in uscita alle frontiere; all'interno, tra zone diverse del paese, (nord/sud, montagna/piano, città/campagna) si erano stabiliti altri sistemi di controlli e di tangenti. Infine, occorreva difendersi dalle sopraffazioni dei potenti, come dai pedaggi obbligatori di un Ghino di Tacco, questo Robin Hood nostrano, appostato a ogni passo.

Il risultato era una fitta rete di protezione che tra dogane, dazi, pizzi interni, decime, sviluppava barriere spesso insormontabili. Il formarsi di un mercato nazionale e un tranquillo viaggiare tra mercati, università, santuari erano ostacolati. Tutto questo bagaglio tradizionale di regole e di difese ha dato origine al sistema industriale attuale, che è provinciale, debole e malfermo. Solo il 20% degli occupati nelle attività industriali lavora in quelle maggiori, statisticamente quelle con oltre 250 addetti. In tutta Italia sarebbero 3.000 tali imprese, proprio la metà di quelle tedesche. Si aggiunga che sei imprese "grandi" su dieci sono a gestione - a governance come scrive ormai anche l'Istat - familiare. Anche questo non promette nulla di buono.

I mercati europei, in lenta apertura, hanno dato inizio a una serie di scosse alla fine degli anni '50, oltre mezzo secolo fa, attraverso la Ceca (Comunità del Carbone e dell'Acciaio) e poi il Mec. Sono anche gli anni migliori per l'industria nazionale. Il famoso miracolo. Non tutti capirono la fase; erano in molti a temere o a sperare che il capitalismo fosse agli ultimi aneliti. L'Italia progrediva - ora lo sappiamo - con un sistema di bassi salari e prezzi limitati, per un mercato interno protetto, ma comunque in crescita e avido di ogni merce; la produzione nazionale era diretta a un mercato di «serie B», con beni meno preziosi ma molto meno costosi di quelli per le classi agiate, scambiati sui mercati internazionali e per i benestanti d'Italia.

Il fordismo di massa, sia pure imparaticcio, consentiva comunque agli operai, immigrati dal Sud alle fabbriche del Nord, di acquistare, poco alla volta, l'auto che avevano costruito, la lavatrice tanto desiderata. Il mercato internazionale, europeo, che si stava aprendo, era insomma diviso in due. Vi era il mercato degli operai, larghissimo e a fianco quello di lusso per i redditi più alti: capitalisti, direttori, con il contorno di dottori e di avvocati.

Quanto all'Italia, il mercato interno protetto dipendeva certo dal prezzo, ma anche dalla "manutenzione". Durante gli anni della guerra e della Ricostruzione ancora in corso, gli italiani avevano imparato ad aggiustare. Ora riversavano sui nuovi prodotti dell'incerta industria italiana, la propria capacità di riparare ogni cosa con un po' di colla attacca tutto e di nastro isolante: era la magia di "cacciavite e martello" nei nuovi quartieri di antiche città. Ben presto vi fu un trionfo di piccole officine, di artigiani tuttofare. Auto piccole e a basso prezzo, frigoriferi leggeri, erano l'esempio della nostra produzione industriale. E' noto che se Fiat voleva dire da noi Fabbrica Italiana di Automobili Torino, in paesi anglosassoni la stessa sigla voleva dire "Fix It Again, Tony" (Riparalo ancora Tony). Ma da noi riparare non era allora un disvalore.

L'insufficiente specializzazione dell'Italia, o mancata del tutto, nasce da qui. L'industria italiana alle origini dell'Europa unita esportava merci di basso conio e riempiva le case e le strade delle città italiane con prodotti indigeni. La facilità di mercato, insieme alla sostanziale protezione doganale, consentiva agli industriali italiani la propria mancata specializzazione. Ogni cosa prodotta era vendibile; si doveva soltanto aspettare e mettersi in lista per comprare. Sarebbe durato poco. L'apertura dei mercati fece sì che in Italia si potessero ormai comprare Renault 4 e VW.

In Italia, a fianco di quello ormai costretto a competere, vi era un secondo sistema industriale, di proprietà statale e piuttosto al riparo dalla concorrenza internazionale. Invece di lasciarlo fiorire, per potersene servire, lo si buttò via.

Ne faceva parte in primo luogo l'Iri (Istituto di Ricostruzione Industriale). Era nato dalla crisi mondiale degli anni trenta e dalla necessità di alleggerire il debito dei gruppi bancari che avevano finanziato l'industria, a partire da quella bellica e le reti dei servizi come elettricità e telefoni, strettamente collegati all'industria pesante. Così era rimasto appiccicato alle banche e tramite loro all'Iri loro un bel numero d'imprese decotte. L'Iri aveva il compito di gestire il tutto e l'imperativo di cominciare a disfarsene. Com'è noto, avvenne proprio il contrario. Era un delitto chiudere attività e licenziare in un momento di crisi occupazionale. A fianco dell'Iri arrivò l'Eni (Ente Nazionale Idrocarburi), nel 1953 voluto da Enrico Mattei, con il compito di gestire petrolio e gas. Serviva energia per la grande trasformazione del paese. Poi seguì l'Efim, (Ente partecipazione e finanziamento industria manifatturiera), per dare ulteriore supporto all'industria meccanica e manifatturiera la cui sistemazione si è trascinata fino al 1962. Poi fu la volta dell'attività mineraria, con l'Egam (Ente Gestione Attività Minerarie) che vivacchiava dal 1958. Emersero anche altri gruppi pubblici e tra i maggiori vi fu la Sir che risultava ufficialmente privata e appartenente all'industriale Angelo Rovelli che in effetti era superfinanziato dall'Imi (Istituto Mobiliare Italiano). Per aggirare la legge si utilizzava un finanziamento bancario assai vantaggioso per le piccole e medie imprese. Per poterlo utilizzare si suddivise in molte diverse società teoriche il gigantesco impianto della Sir di Porto Torres. Si applicava la lettera della legge, se non proprio lo spirito.

"Sesto tra cotanto senno", avrebbe detto il poeta, fu di certo l'Enel, nato nel 1962 con il compito di gestire l'energia elettrica italiana, fatti salvi gli interessi delle città maggiori e delle maggiori imprese "auto produttrici" tra le quali Montecatini, Falck e Fiat. Era un ente, giuridicamente diverso dalle PPSS, ma cambiava poco. I grandi partiti della coalizione di governo e ciascuna delle loro fameliche correnti pensarono che l'industria pubblica fosse comunque roba loro, da spartirsi e da mettere a frutto. Vi erano posti di responsabilità, ben pagati che appartenevano per definizione a questo o quel partito della maggioranza. La lottizzazione offriva altri spazi, Le società coinvolte si moltiplicavano e si creavano altri bisogni da soddisfare con altre poltrone. Il caso più noto alla popolazione è quello della Rai che moltiplicò per tre i canali televisivi per accontentare i tre maggiori partiti, opposizione comunista compresa in questo caso.

L'insieme delle PPPSS e degli altri gruppi pubblici e semipubblici, compreso l'arcipelago delle banche costituiva un sistema corrotto. La peggiore politica dominava imprese e banche pubbliche e ne era dominata nello stesso tempo. Un referendum nel 1993, ai tempi di Tangentopoli, abolì il Ministero delle partecipazioni statali che era nato nel 1956. Il voto significava che la popolazione era esasperata per le devastazioni al bene comune causate dall'intreccio tra Partecipazioni e partiti. L'abolizione prevalse anche nelle città che dipendevano in larga misura dalle imprese a PPSS come Genova o Napoli. Il risultato per entrambe non fu felice. Le attività già delle PPSS diventarono così un territorio aperto alle scorrerie private, italiane, straniere o miste. Come ulteriore risultato era fatta fuori anche quella parvenza di programmazione industriale che le imprese pubbliche consentivano. Lo Stato rinunciava così alla possibilità di agire e orientare le imprese private, la scelta e l'attivazione delle reti, gli accordi internazionali. Per la paura di essere messi sotto accusa si preferì legarsi le mani e rinunciare a un sistema che avrebbe potuto funzionare bene, con qualche accorgimento qualche regola precisa e qualche intelligente sostegno. I contrappesi indispensabili di cui gli altri paesi dell'Unione europea potevano servirsi, non solo erano messi da parte, ma erano addirittura messi in vendita, o regalati, a qualche compagine di Capitani coraggiosi che in effetti svolsero svariate scorrerie. La società dei telefoni già dell'Iri e poi gettata in borsa alla mercé degli scalatori è quella per la quale fu coniato, ai tempi di Massimo D'Alema, il nomignolo di Capitani (rectius: Capitali) coraggiosi, in occasione della prima scalata. Ne susseguirono quattro, tutte diverse e tutte apprezzate. Tutti gli scalatori impararono presto come fare: si opera la scalata servendosi delle riserve che si trovano in Telecom Italia stessa. Se non ce n'è più, facendo debiti a suo nome. Qualcuno pagherà. Così, per non perdere tempo, tutti gli scalatori infilarono in Telecom il loro debito precedente e uscirono da Telecom mesi o anni con bilanci ripuliti. Lo stato avrebbe invece la possibilità di difendere occupazione e sviluppo, in Sardegna come altrove, in questi frangenti di scarso lavoro e depressione generale, se avesse attività e imprese operative da usare in casi disperati e da modulare di fronte alle varie necessità. Sarebbe opportuno imparare di nuovo a fare la manutenzione del nostro sistema industriale, utilizzando la scatola degli attrezzi esistente e tollerata da Bruxelles. Attaccatutto, cacciavite e martello e un metro da sarto, per prendere le misure. E poi un regolo, per fare i conti.

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