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Euro sì, euro no. Economisti a confronto

20/10/2015

Uscire dall'Unione monetaria è davvero l'unica strategia possibile per i paesi della periferia dell'Unione per ritrovare un sentiero di crescita? Una sintesi del dibattito ospitato da Etica ed Economia

La crisi greca e la drammaticità delle sue fasi finali hanno contribuito al ravvivarsi del dibattito politico ed accademico circa l’opportunità, da parte dei paesi periferici dell’eurozona, di procedere all’abbandono dell’area valutaria quale unica strategia possibile per ritrovare un sentiero di crescita. Con questo contributo si intende fornire una sintesi del dibattito ospitato dal Menabò di Etica ed Economia a cui hanno preso parte gli economisti Giorgio Rodano, Salvatore Biasco e Massimiliano Tancioni.

Il primo ad intervenire sulle pagine del Menabò è stato Rodano, con un articolo apparso ad inizio luglio di quest’anno. Il giudizio sulla moneta unica espresso da Rodano è netto: l’euro non è stato una buona idea, è nato come un compromesso politico tra Francia e Germania ed è figlio di una visione particolarista. La significativa eterogeneità delle economie europee, spiega Rodano, rende irrealizzabile quella che tecnicamente viene definita un’area valutaria ottimale. Mancando i requisiti qualificanti un’area di questo tipo, le economie più fragili della zona euro sono costrette a ‘rientrare’ dalle crisi comprimendo il costo dei fattori produttivi e, in particolare, il costo del lavoro. L’austerità, e le connesse sofferenze sociali che segnano il quotidiano dell’economie periferiche nell’eurozona, sono, dunque, un inevitabile portato della loro permanenza nell’Unione Monetaria.

Quale risposta, dunque, alla fatidica domanda ‘Uscire dall’euro allora?’. Utilizzando il tipico modus operandi dell’economista Rodano pone a confronto benefici e costi delle alternative a disposizione. Nel caso di un eventuale abbandono dell’Unione Monetaria. ‘Su un piatto della bilancia si trova la possibilità di fare default e liberarsi del debito estero senza pagarlo. Si ritrova il controllo degli strumenti della politica monetaria e di quella di bilancio. Si ritrova la possibilità di manovrare (svalutare) il tasso di cambio, in modo da rendere compatibile il vincolo estero con la crescita della domanda interna.’ Questi i potenziali benefici. I costi, riguardano ‘l’inevitabile rinuncia ai finanziamenti esteri (conseguenza del default) e l’inflazione (conseguenza del deprezzamento del cambio). Ne consegue il frutto più velenoso dell’uscita dalla moneta unica, la diminuzione dei salari reali, dovuta all’aumento dei prezzi a parità di salari nominali.’ Tuttavia, aggiunge Rodano, si tratta esattamente degli stessi costi che stanno pagando paesi quali la Grecia, la Spagna o l’Italia a causa delle storture dell’euro.

Apparentemente, quindi, ‘la cassetta degli attrezzi dell’economista’ usata da Rodano per condurre il suo ragionamento non consente di dare una risposta chiara alla domanda posta poco fa. L’euro è una gabbia che, alle condizioni date, sta producendo danni e sofferenze nella periferia europea da cui tornare indietro sembra sempre più difficile. Uscirne, tuttavia, non offre garanzie - perlomeno nel breve periodo - circa la possibilità di far ripartire l’economia tutelando efficacemente il lavoro ed i salari. Parrebbe, secondo Rodano, profilarsi una scelta tra due scenari allo stesso modo foschi e per nulla rassicuranti. Più convinto della necessità di continuare sula strada dell’euro, identificata come l’unica decisione assennata, è, invece, Salvatore Biasco.

Muovendo da una critica alla natura statica del modello di Rodano – natura che impedirebbe allo stesso modello di considerare ‘il cambiamento di aspettative, comportamenti e di scala nei fenomeni’ - Biasco sostiene l’incapacità di quest’ultimo di considerare i pesanti effetti sui patrimoni che, dal suo punto di vista, un’uscita dall’euro provocherebbe. Guardando, in particolare, al caso italiano Biasco prende in considerazione lo scenario di una ristrutturazione del debito pubblico ad accompagnare l’uscita dalla moneta unica. Le perdite per i detentori dei titoli pubblici – i patrimoni dei quali sarebbero un elemento da considerare per valutare in modo completo le conseguenze sul benessere generale – potrebbero arrivare al 70% del patrimonio degli stessi. L’ipotesi che l’uscita possa non essere accompagnata da un haircut sul debito pubblico è, secondo Biasco, ai limiti dell’inverosimile perché vedrebbe la necessità, come unica alternativa, di una crescita media del 3-4% l’anno.

L’instabilità, le cui dimensioni sarebbero incalcolabili, e il rischio di un contagio internazionale, renderebbero, inoltre, ardito usare un modello che individui nella crescita delle esportazioni – conseguente alla svalutazione post-uscita – uno dei punti di forza della ripresa conseguente alla rottura con l’Eurozona. La capacità di utilizzare, come complemento alle esportazioni, la leva fiscale pone rilevanti interrogativi sulle fonti di finanziamento di quest’ultimo strumento. Le conclusioni di Biasco, che riconosce a Rodano il merito di rendere espliciti i collegamenti tra le variabili economiche protagoniste della dinamica successiva ad un’eventuale uscita, non offrono, però, elementi per un maggiore ottimismo rispetto a quelli offerti da Rodano. Da un lato, si sostiene che gli effetti dell’uscita dall’euro sarebbero quelli di una ‘catastrofe epocale’. Dall’altro, si afferma implicitamente che l’unica opzione disponibile è quella del tenersi una moneta ‘le cui caratteristiche distruttive sono insite nella sua costruzione’.

L’opinione di Massimiliano Tancioni, intervenuto dapprima, con un intervento sulla crisi greca, e poi, con un contributo al dibattito tra Rodano e Biasco sulle conseguenze di un abbandono della moneta unica, sembra essere meno drastica e negativa di quella dei due economisti di cui si sono già sintetizzate le posizioni. Tancioni offre una dettagliata analisi empirica di un abbandono di quella che Rodano definisce un’Unione Monetaria ‘nata male’. Mostrando con i dati ciò che Rodano argomenta sul piano teorico, Tancioni evidenzia come ‘in assenza di flessibilità del cambio, l’equilibrio nelle posizioni nette sull’estero deve ristabilirsi attraverso la deflazione interna nella periferia. In presenza di rigidità nominali, questa si realizzerà attraverso variazioni nelle grandezze macroeconomiche di parte reale e del mercato del lavoro.’

Ciò che distingue la prospettiva di Tancioni da quella di Biasco e Rodano riguarda la valutazione espressa del primo circa le conseguenze economiche di un’eventuale uscita dall’euro e, soprattutto, circa la possibilità valutare le stesse conseguenze in modo empiricamente circostanziato. Basandosi su di un modello econometrico elaborato assieme ad Elton Beqiraj, Tancioni si esprime in questo modo in merito al confronto tra la permanenza nella moneta unica – con il suo corollario di austerità – e lo scenario – previsto dal modello – di un’uscita seguita da una manovra fiscale espansiva: ‘Nessuno è in grado di valutare nei margini di errore convenzionalmente accettati i costi associati al secondo caso, ma tentativi effettuati in analisi circostanziate esistono, e nessuna di esse sembrerebbe fornire una base razionale per la scelta della prima alternativa, i cui alti costi associati hanno invece margini di incertezza molto contenuti.’

Il modello proposto ha una natura dinamica e tiene conto dei saldi patrimoniali, sia interni che esteri. Esattamente i punti di debolezza che Biasco identifica all’interno del quadro teorico proposto da Rodano. Il modello di Beqiraj e Tancioni (2014), inoltre, è calibrato e stimato su dati dell’economia italiana (per il settore domestico) e del resto dell’Eurozona (per quello estero) caratterizzandosi, in questo modo, per una significativa robustezza empirica. Sottolineando in premessa tutti i limiti che l’implementazione di un modello econometrico comporta - ‘la simulazione può produrre solo una razionalizzazione delle dinamiche più verosimili, date le scelte modellistiche, le omissioni e la rappresentatività dei dati utilizzati per le stime’ – Tancioni propone i risultati del confronto, per l’Italia, di uno scenario di permanenza (facendo riferimento al quadro programmatico di finanza pubblica definito dal DEF dell’aprile 2015 (MEF, 2015)) con uno di uscita dall’Unione Monetaria (che si caratterizzerebbe per una svalutazione nominale pari al 20% all’impatto, che raggiungerebbe un valore di picco del 35% dopo 2 trimestri, per tornare poco sopra il 20% dopo 2 anni).

Il primo scenario, coincidente con ciò che verosimilmente caratterizzerà il prossimo futuro, mette in luce la preoccupante traiettoria su cui l’economia italiana è proiettata. Viene mostrato un andamento macroeconomico per certi versi più preoccupante rispetto al secondo, lo scenario di uscita. Argomenta Tancioni, ‘..la contrazione del prodotto tende ad assumere caratteri di forte persistenza, mentre si sperimenta un aumento del tasso di disoccupazione ed una persistente contrazione del salario reale, di dimensione anche maggiore rispetto a quella dei trimestri immediatamente successivi alla svalutazione (secondo scenario). Queste dinamiche si spiegano con un andamento del saldo primario persistentemente positivo in tutto l’orizzonte di simulazione (dall’1,6% del 2015 al 4% del 2019), mentre il leggero aumento dell’inflazione è connesso allo spostamento tendenziale del carico fiscale dalle imposte dirette a quelle indirette.’

Per quanto attiene al secondo scenario, quello facente riferimento ad un’ipotesi di uscita, il modello proposto da Tancioni fornisce il risultato che segue: ‘Il salario reale subisce inizialmente una contrazione moderata ma persistente, con uno scostamento negativo massimo dell’ordine di un punto percentuale tra 7° e 8° trimestre, e vira in territorio positivo a partire dal 14° trimestre…L’effetto espansivo sul prodotto si instaura dopo circa sei trimestri, producendo una deviazione positiva rispetto al tendenziale dopo 3 anni. L’espansione indotta è pari a circa 2 punti di PIL all’orizzonte di simulazione. La disoccupazione tende a ridursi sensibilmente dopo sei trimestri, e la contrazione massima, dell’ordine del 4%, si ha dopo 5 anni. La dinamica del rapporto tra debito e PIL è prima positiva e poi negativa, seguendo sostanzialmente quella del prodotto, (espansione massima 4%).’

Le conclusioni di Tancioni, in linea, da questo punto di vista, con quelle formulate in precedenza da Rodano e Biasco enfatizzano la difficoltà di avere di fronte rappresentazioni esaustive degli scenari futuri, in particolar modo per quanto riguarda l’ipotesi di uscita. Tuttavia, ‘nei limiti di rappresentatività del modello’, che include, è bene sottolinearlo, gran parte degli ingredienti richiamati da Biasco nella sua critica a Rodano, la simulazione sembra escludere dinamiche catastrofiche a seguito di una svalutazione (e dunque di un’uscita).’ Data, invece, la sostanziale differenza tra gli effetti economici positivi (di medio periodo) di un’uscita e quelli persistentemente negativi di una permanenza nella situazione data ‘c’è da sperare che il confronto su teoria e fatti empirici prosegua con spirito costruttivo.’

 

 

 

 

 

 

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