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Oltre l’austerità, cinque cose da fare

12/04/2013

Finanza, fiscal drag, innovazione nelle imprese, lavoro per i giovani, territorio e cultura. E un’Europa liberata dall’austerità. Come affrontare l’emergenza crisi e i problemi strutturali dell’economia

1. La crisi e l’“austerità espansiva” in Europa

Dall’esplosione della crisi dei mutui subprime del 2007 negli Stati Uniti sono passati sette anni, durante i quali la crisi finanziaria si è trasformata dal 2008 in crisi delle economie reali soprattutto nei paesi avanzati ed ha condotto ad una “economia della depressione”. Sono stati sette anni, incluso questo 2013 in corso, durante i quali la debole ripresa del 2010 non ha lasciato segni tangibili se non il successivo acuirsi della crisi con il double-dip ed il suo spostamento da un lato all’altro dell’Atlantico, investendo l’Europa ed in particolare i paesi periferici.

A questo esito hanno contribuito le politiche di austerità adottate. Negli Stati Uniti le politiche monetarie soprattutto, ma in parte anche quelle fiscali, hanno mirato a contrastare gli effetti della crisi, molto meno le loro cause, con le autorità monetarie americane che si sono impegnate nell’immettere liquidità sui mercati, acquistando titoli tossici e titoli pubblici, e quelle governative contenendo le pressioni dei mercati che chiedevano riduzioni massicce delle spese pubbliche soprattutto per il welfare. Questa politica ha consentito di contenere la caduta del reddito e la crescita del tasso di disoccupazione, che si attesta ora attorno al 7%.

Per l’Europa si racconta una storia in parte differente e ben peggiore, tanto da portare la disoccupazione nei paesi dell’Unione a superare la soglia dei 25 milioni e avvicinarsi a quella dei 27 milioni a fine 2013, con un tasso di disoccupazione al 12% nell’Eurozona, con quasi la metà dei disoccupati che sono senza lavoro da più di 12 mesi (long-term unemployment) (EC, European Economic Forecast. Winter 2013, European Economy, n.1, 2013) ed una disoccupazione giovanile (nella fascia di età 15-24 anni) sopra il 25% (EC, Employment and Social Developments in Europe 2012, Novembre, 2012). Inoltre vi è il fenomeno dei NEETs (Not in Employment, Education and Training) nella fascia di età giovanile, ovvero giovani che non sono occupati e neppure coinvolti in attività di istruzione e formazione: nel 2011 questi ammontano a circa 7,5 milioni di giovani nella fascia di età 15-24 anni, a cui si aggiungono altri 6,5 milioni di giovani nella fascia di età 25-29 anni, in netta crescita dal 2008. Su un totale di 93 milioni di giovani nella fascia 15-29 anni, vi sono così 14 milioni di giovani NEETs nel 2011 in Europa, 1/6 dell’intera popolazione giovanile a rischio di esclusione sociale (Eurofound, NEETs. Young People not in Employment, Education or Training: Characteristics, Costs and Policy Responses in Europe, 2012).

Soprattutto in Europa si è affermata la politica della cosiddetta “austerità espansiva”, giustificata anche dalla necessità di salvaguardia della moneta unica. Essa è stata declinata nella forma di rigore economico soprattutto nei conti pubblici, di politiche restrittive con tagli alla spesa, soprattutto del welfare pubblico e degli investimenti per ricerca, innovazione, formazione, di crescita della tassazione con modalità regressive sui redditi nei paesi periferici, di rinnovate richieste di riforme strutturali e liberalizzazioni dei mercati, soprattutto del lavoro. Ben poco è stato fatto, al confronto, sui mercati finanziari, per regolamentarli e portare in questi un trattamento fiscale non più di vantaggio, ma progressivo, e ricondurli al ruolo di sostegno all’economia reale, piuttosto che di contrapposizione a questa. Invece sul mercato del lavoro, la convinzione che minore protezione e minore tutele del posto di lavoro siano il presupposto per il recupero della competitività e della produttività ha condotto a proseguire con maggiore intensità nelle politiche in gran parte orientate ad accrescere la flessibilità salariale, soprattutto verso il basso ed a ridurre i sistemi di welfare pubblico, a favore di quelli privati.

L’andamento della produttività risente certamente dalla crisi iniziata nel 2008, ma come è noto risale a prima del 2000. In questo periodo sino alla crisi l’occupazione è aumentata, soprattutto nella sua componente “temporanea”. Come abbiamo sostenuto su Sbilanciamoci.info (old.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Togliere-tutele-al-lavoro-non-aiuta-la-produttivita-17530), la diffusione di forme contrattuali temporanee ha contribuito a ridurre la dinamica della produttività: le imprese avrebbero scambiato maggiore flessibilità esterna e minore costo del lavoro, consentito da queste forme contrattuali, con minori risorse per far crescere la produttività del lavoro. L’obiettivo dichiarato è quello di recuperare competitività sui mercati, in presenza di un euro forte che peraltro si rivaluta, mediante una riduzione dei costi del lavoro ad ampio spettro, sia diretti (salario) che indiretti (welfare).

2. L’Italia: un problema di domanda e di produttività

In Italia la situazione appare peggiore. Da un lato vi sono le note ragioni strutturali di lungo periodo che riguardano il rapporto debito/Pil che impone una tassa da interessi annuali crescente, e quelle congiunturali di breve-medio periodo che hanno portato dal 2008 a una perdita del Pil di 7 punti percentuali, con effetti significativi sul Pil potenziale. Ma soprattutto per la dinamica della produttività di lungo periodo che è ferma da ben prima dell’introduzione dell’euro, e che pone il nostro paese in condizioni di svantaggio comparato rispetto agli altri paesi europei.

Questa dinamica non è stata contrastata, anzi è stata alimentata dalle politiche di flessibilizzazione del mercato del lavoro e di riduzione delle protezioni all’impiego, dalla fine degli anni ’90. A queste è stato fatto affidamento per conseguire obiettivi di crescita e di recupero di competitività e di produttività, obiettivi però non raggiunti, se è vero che il gap di produttività rispetto ai competitors più diretti si è allargato invece di ridursi. Nonostante ciò, si continuano a riproporre politiche di riforme strutturali che segnano una continuità rispetto al passato. È questo il caso della contrattazione sul salario, degli accordi recenti e dei provvedimenti legislativi del 2012 ed applicativi del 2013 con cui si intende incentivare la diffusione di legami ex-post tra retribuzione del lavoro e produttività a livello esclusivamente decentrato, riducendo il ruolo del contratto nazionale a semplice cornice di riferimento derogabile via contratti aziendali, anche grazie a norme che hanno introdotto nel 2011 lo strumento del contratto di prossimità.

Noi crediamo che questa politica vada abbandonata, sia a livello macroeconomico che a livello microeconomico, e sostituita da una strategia di crescita non vincolata all’idea della austerità espansiva, non basata sulla riduzione delle protezioni al lavoro, bensì di valorizzazione del lavoro e maggiore protezione, e del ruolo centrale della contrattazione sul salario anche mediante il contratto nazionale. E ciò deve essere realizzato nell’ambito di politiche europee non più centrate sul rigore ed affidamento unico alla domanda estera per uscire dalla crisi, bensì su un riequilibrio tra questa e la domanda interna e su politiche di redistribuzione del reddito. Qualsiasi proposta di intervento sul mercato del lavoro, e quindi anche nell’ambito della contrattazione sul salario, non riuscirebbe a conseguire obiettivi di recupero della produttività al di fuori di uno scenario di politiche economiche espansive di crescita, e si tradurrebbe in esiti occupazionali negativi, sia in quantità che in qualità, e riduzioni delle condizioni di lavoro, a maggior ragione in presenza del perdurare della attuale crisi recessiva e della depressione economica. Quindi gli interventi che suggeriamo intendono costituire una delle componenti delle politiche di crescita, e in quanto tali devono essere considerati non certo esaustivi e neppure “a prescindere” dal quadro macro che li deve sostenere.

3. Le azioni da realizzare subito

Occorrono cinque azioni immediate per contrastare l’emergenza economica e provare a rilanciare l’economia italiana, creando nuova occupazione. Ecco alcuni punti prioritari sui quali è necessario adottare provvedimenti e avviare un confronto da parte del Parlamento appena eletto e di un Governo ancora da fare. Questi provvedimenti hanno l’obiettivo principale di sostenere la componente interna della domanda aggregata di mercato, agendo sulla componente pubblica, e di innescare una ripresa della competitività delle imprese, agendo sia sulla qualità delle infrastrutture che sull’innovazione, la ricerca, la formazione.

L’ordine di priorità dei singoli provvedimenti è dato anche dal carattere di urgenza dei provvedimenti. La loro copertura finanziaria è certo rilevante e questione da affrontare con la competenza necessaria. Occorre però precisare che il Trattato di Stabilità Fiscale (Fiscal Compact) garantisce una certa flessibilità insita nella differenza tra deficit nominale e deficit strutturale, e nella necessità di politiche anti-cicliche conferisce la possibilità di finanziare in deficit parte delle azioni proposte. Il recente Consiglio Europeo del 14-15 marzo ha sancito questa forma di flessibilità che può conferire all’Italia margini di spesa annuali anche consistenti (nell’ordine di 10 miliardi annuali di euro). A tal fine occorre un Governo che voglia e sappia negoziare con la Commissione Europea l’ammontare del deficit possibile, finalizzato a co-finanziare i provvedimenti che seguono.

Infrastrutture, Territorio, Cultura Occorre avviare molte piccole opere a sostegno del territorio e del patrimonio culturale, dell’edilizia scolastica e pubblica in genere, infrastrutture ritenute essenziali per la collettività. A tal fine occorre anche rivedere il Patto di Stabilità interno che impedisce alle amministrazioni pubbliche, anche virtuose, di realizzare investimenti in infrastrutture, opere pubbliche e attività per la salvaguardia del territorio. Nell’ambito delle infrastrutture pubbliche per energia e trasporti, occorre avviare un piano energetico nazionale centrato sulle energie rinnovabili e l’efficienza energetica con connessioni di rete dalla produzione di energia al consumo finale lungo tutta la filiera; ciò è essenziale anche al fine di ridurre il costo dell’energia che è tra i più elevati in Europa e insostenibile per le imprese e le famiglie. Al contempo occorre un piano dei trasporti su scala nazionale e su scala regionale, urbano e non urbano, che abbia carattere di sostenibilità ambientale oltre che economica, che preveda anzitutto il rinnovo dei mezzi pubblici ed attivi una domanda per la produzione nazionale di mezzi di trasporto, non certo centrato quindi su infrastrutture la cui convenienza economica risulta dubbia e che sono anche contrastate dalle comunità locali.

Lavoro per i giovani Occorre avviare un piano di lavoro pluriennale per i giovani, nella fascia di età 15-29 anni, dove si concentra una disoccupazione del 40% delle forze di lavoro ed è caratterizzata da lunga durata, che si concentri sui NEETs. Si stima che in Italia i NEETs, siano nel 2012 circa 2.110.000 persone tra i 15 ed i 29 anni, pari al 22% della popolazione in tale fascia di età. Come strumento, si deve dare priorità alla attivazione di domanda pubblica: occorre assicurare una domanda di lavoro diretta per servizi di pubblica utilità, servizi lavorativi remunerati almeno con 500 euro mensili nette, per almeno 1.000.000 di giovani su base annua. Pensare al lavoro ed ai giovani è anche uno strumento di sostegno alla domanda effettiva, che non troverebbe oggi supporto tramite una politica di detassazione delle nuove assunzioni da parte delle imprese: una azione diretta del pubblico è necessaria a supplenza di un mercato incapace di creare occupazione mediante stimoli microeconomici. Questo piano deve essere inteso come “lavoro di cittadinanza”, strumento di partecipazione attiva e esito di una serie di politiche mirate alla “piena e buona occupazione” che contrasta i fallimenti del mercato. Inoltre occorre intervenire per porre una soglia minima alle retribuzioni orarie e prevedere per questa soglia un abbattimento massiccio del cuneo fiscale. La diffusione di forme contrattuali che prevedono retribuzioni molto basse, assieme alla non-stabilità del posto di lavoro, non è stata di certo contrastata dalla recente riforma del mercato del lavoro, ed al contempo il grado di copertura di quanto prevedono i contratti nazionali di lavoro, assieme alla scarsa diffusione dei contratti decentrati (aziendali e territoriali), non assicurano più minimi salariali adeguati. Al contempo il peso del gap tra costo del lavoro e retribuzione netta costituisce una tassa sulla occupazione e sul reddito da lavoro.

Lavoro di cittadinanza e minimi salariali con riduzione del cuneo fiscale sono due provvedimenti che possono anche, ma non solo, trovare risorse dall’utilizzo del Fondo Sociale Europeo esistente e del Fondo per l’Occupazione Giovanile che diverrà disponibile a livello europeo (bilancio pluriennale) dal 2014 per i Paesi con una disoccupazione giovanile superiore al 25%, e del programma Youth Guarantee della Commissione Europea. Queste azioni potrebbero utilizzare in modo più efficiente le risorse oggi destinate alle politiche attive del lavoro le quali peraltro, oltre che discutibili sul piano dell’efficacia (in assenza anche della riforma dei servizi all’impiego di cui la riforma Fornero del mercato del lavoro del 2012 non si è affatto occupata), incidono sull’offerta di lavoro, quando invece l’emergenza è sul lato domanda del mercato del lavoro. Questi provvedimenti lasciano aperte questioni rilevanti per le quali occorre poi trovare soluzioni: reddito minimo garantito per coloro che non hanno lavoro, reddito di cittadinanza a tutti i cittadini indipendentemente dal loro status nel mercato del lavoro, riforma quindi del sistema degli ammortizzatori sociali e dei vari strumenti di supporto al reddito attualmente presenti ed anche di conseguenza le politiche attive del lavoro.

Innovazione nell’impresa e nei luoghi di lavoro – Occorre avviare una politica per l’innovazione tecnologica ed organizzativa nella produzione industriale e nei servizi centrata sul cambiamento dei luoghi di lavoro e che sperimenti modelli di partecipazione diretta ed indiretta dei lavoratori all’impresa, con responsabilizzazione tanto dei lavoratori quanto dei manager, che redistribuisca il reddito prodotto invece di riproporre solo l’accoppiata “maggiore sforzo e maggiore flessibilità”. La dinamica salariale deve mutare la sua rotta, e passare dal declino alla crescita, e ciò può avvenire coniugando innovazione e partecipazione. A tal fine vari strumenti possono essere pensati. Anzitutto riattivare il credito d’imposta per le risorse impegnate dalle imprese per ricerca ed innovazione. In secondo luogo prevedere specifici interventi di sostegno economico alla innovazione organizzativa delle imprese, alla introduzione di nuove pratiche di organizzazione del lavoro, alla sperimentazione di forme di partecipazione dei lavoratori e loro rappresentanti all’impresa volti a favorire modelli di decentramento decisionale e de-gerarchizzazione delle organizzazioni.

Invece di prevedere strumenti di dubbia efficacia e senza alcun monitoraggio sostanziale, quali la decontribuzione delle retribuzioni ex-post legate alla produttività, le risorse economiche pubbliche dovrebbero essere impegnate per incentivare, anche mediante la riduzione del cuneo fiscale, la diffusione di progetti di innovazione dei luoghi di lavoro e la crescita delle retribuzioni nette collegate ex-ante all’adozione di tali progetti piuttosto che ad indicatori di produttività o redditività aziendale. Per recuperare il gap organizzativo alla base del gap di produttività con gli altri paesi occorre definire, come abbiamo già suggerito (old.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Ripensare-gli-obiettivi-e-i-metodi-della-contrattazione-16529) un protocollo condiviso con standard minimi che l’organizzazione del lavoro deve soddisfare, conferire incentivi economici perché siano fatti osservare, ed azioni pubbliche di supporto sulle seguenti aree: servizi di ricerca per l’innovazione organizzativa, formazione sulle nuove forme di organizzazione del lavoro, sviluppo delle competenze trasversali piuttosto che tecniche-specialistiche.

Finanza e credito - È urgente dare sostegno al credito alle piccole e medie imprese, avviare lo sblocco dei trasferimenti per commesse pubbliche, agire anche con una sospensione del pagamento di alcune imposte a carico delle imprese. Il percorso è stato avviato, ma è ancora insufficiente. Qui la priorità e l’emergenza deve essere data ai pagamenti in sospeso da parte della pubblica amministrazione alle imprese. La normativa europea aiuta ad intervenire in questo campo, prevedendo che i pagamenti debbano essere effettuati ai fornitori entro 30 giorni dal completamento dell’opera o erogazione del servizio. La liquidazione dei debiti commerciali, o almeno di una parte consistente dei 90 miliardi di euro stimati da Banca d’Italia, della pubblica amministrazione verso le imprese può avvalersi di strumenti quali l’emissione di titoli pubblici di scopo, e trovare sostegno piuttosto che contrasto da parte della Commissione Europea. Ciò costituisce anche un valido strumento di liquidità per le imprese che affrontano il credit crunch delle banche.

Nell’ambito dei mercati finanziari, invece di proseguire nel salvataggio delle banche prevedendo che i costi dei fallimenti privati vengano sostanzialmente scaricati sui bilanci pubblici, salvaguardando azionisti e creditori, occorre che gli aiuti siano concessi in presenza di un controllo diretto nella loro gestione e vincoli stretti sulle modalità di impiego, impedendo distribuzione di bonus ai dirigenti e dividendi agli azionisti per gli istituti creditizi non virtuosi. Sui mercati finanziari e sulla gestione delle società finanziarie occorre intervenire con regole di trasparenza e controlli sulle operazioni finanziarie, tassazione ma anche divieti di transazione sugli strumenti finanziari “tossici” che non corresponsabilizzano nelle perdite gli intermediari finanziari e che operano fuori dai mercati regolamentati.

Fiscal drag Occorre ricostituire il potere d’acquisto ai salari che dall’insorgere della crisi per effetto dell’inflazione e dei provvedimenti fiscali e di federalismo fiscale hanno perso più di 500 euro annuali. La recente indagine a cura del CER-IRES (La dinamica salariale tra inflazione, federalismo e fiscal drag, marzo, 2013) attesta una diminuzione dei salari reali in 5 anni di più del 2%. A contribuire a questo risultato sono stati sia i provvedimenti finanziari che hanno accresciuto le imposizioni fiscali ai diversi livelli di governo, soprattutto decentrato, sia il fiscal drag (combinato tra progressività delle aliquote ed inflazione). Occorre un recupero una tantum che operi su alcune mensilità delle retribuzioni dei lavoratori mediante una detassazione del salario, e quindi reintrodurre il meccanismo automatico di sterilizzazione del fiscal drag che era stato introdotto a fine anni ottanta (1989, legge n.154), e modificato successivamente (1992, legge 438), fino a divenire del tutto discrezionale ed occasionale.

Europa - L’efficacia di questi provvedimenti, la cui realizzazione in un contesto nazionale necessità di cambiamenti su scala europea. devono abbinarsi ad un contrasto netto della politica europea dell’”austerità espansiva”, ovvero di quella politica che racconta la favola secondo la quale con il rigore dei conti ed i tagli al welfare pubblico a favore di quello privato si innesca la crescita e si ottiene la fiducia dei mercati. Sono necessarie azioni per mutare la politica europea.

Come abbiamo sostenuto in un nostro precedente intervento su Sbilanciamoci.info (old.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Cosa-manca-all-Europa-per-essere-europea-16425), le azioni che l’Europa dovrebbe intraprendere, e per le quali un governo italiano dovrebbe impegnarsi in modo concertato con altri governi europei, riguardano 1) ruolo e politica della BCE, 2) bilancio comunitario; 3) Eurobonds; 4) consolidamento dei debiti nazionali e politiche strutturali di aggiustamento dei deficit commerciali tra i paesi dell’Unione; 5) investimenti pubblici finanziati sui bilanci nazionali non vincolati dal Patto di Stabilità; 6) armonizzazione fiscale; 7) riforma del sistema bancario e regolamentazione dei mercati finanziari.

In particolare, alcune di queste azioni sono volte a rinegoziare le politiche di rientro dai debiti nazionali, per escludere dal Fiscal Compact le spese di investimento e per le infrastrutture finanziate dai singoli Stati, per avviare gli Eurobond, indispensabili anche a finanziare progetti comuni europei per la green economy, knowledge economy e digital economy, per l’introduzione di Tobin Tax sulle transazioni finanziarie e di Green Tax sulla salvaguardia dell’ambiente, più vincolanti, efficaci e generali, perché il Parlamento Europeo dopo avere rigettato il “budget europeo di austerità” 2014-2020 proposto dal Consiglio Europeo, lo rinegozi al fine di accrescere gli investimenti in infrastrutture immateriali, con un budget complessivo e con risorse proprie che superino l’1% del GDP totale dei Paesi membri dell’Unione.

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