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Usa, perché Obama ha perso
Quel che viene imputato al Presidente è di non avere prodotto quella attesa redistribuzione delle risorse dall’1% della popolazione al vertice della piramide verso la parte più debole
Il crollo dei democratici nelle recenti elezioni di mid-term ha bruscamente riportato sulla terra i media europei impegnati a raccontare quel che accade al di là dell’Atlantico. Il dibattito economico andato recentemente in scena in Europa, infatti, ha visto un costante ed impietoso confronto tra il tasso di crescita del Pil e dell’occupazione negli Stati Uniti, attestatisi ormai da due anni sui livelli pre-crisi, e le depressive performance delle economie del vecchio continente. In questo quadro, alle iniziative di politica economica adottate dall’amministrazione Obama, e al loro imprinting Keynesiano che le ha rese un sogno proibito per gli elettorati europei strozzati dall’austerity, si è attribuita gran parte del merito della ripresa dell’economia americana.
Questa rappresentazione sembra stridere con la perdita, sebbene annunciata, della seconda camera da parte dell’amministrazione in carica. Le notizie che provengono dagli Stati Uniti parlano di un presidente punito, almeno in parte, dal suo stesso elettorato, la classe media ed i white collars in particolare, proprio a causa della situazione economica del paese e dall’atteggiamento presidenziale rispetto a quest’ultima. Osservare tutto ciò da una delle varie economie europee afflitte da una quinquennale recessione e da disoccupazione a due cifre potrebbe lasciare interdetti, tuttavia, la realtà si rivela quasi sempre più complessa di quanto non emerga soffermandosi esclusivamente sui dati contabilità nazionale.
Saltando sull’altra sponda dell’oceano e entrando un po’ più in profondità nel dibattito in corso negli Stati Uniti è possibile rendersi conto di come una parte rilevante della spiegazione delle recenti evoluzioni nella politica USA sia da cercare proprio tra le questioni economiche. Nelle settimane seguenti la sconfitta elettorale dei Democratici si è radicata tra gli osservatori la convinzione che ciò che ha realmente penalizzato Obama sia stata proprio l’economia. Una misura quantitativa di quest’ultimo aspetto è rinvenibile in un sondaggio condotto negli USA a ridosso delle elezioni di mid-term: il 70% degli elettori americani dichiara di considerare le condizioni dell’economia nazionale deludenti e le politiche economiche governative vantaggiose esclusivamente per la parte più ricca della popolazione.
Un’avvisaglia della tensione montante negli Stati Uniti rispetto all’attuale situazione economica si era già avuta quando la neo governatrice della Federal Reserve, Janet Yellen, è stata duramente ed inaspettatamente contestata durante l’incontro annuale dei Governatori delle Banche Centrali a Jackson Hole. In quell’occasione, gli occhi del mondo erano puntati su Mario Draghi, nella speranza che l’aria delle montagne del Wyoming aiutasse a sospingere l’eternamente e vanamente attesa inversione di tendenza della politica monetaria europea. I contestatori posizionatisi all’ingresso del prestigioso meeting erano però in attesa della Yellen, intendendo ricordarle a brutto muso che, se negli Stati Uniti era in corso una ripresa dell’economia, questa non stava coinvolgendo nè le classi medie nè, soprattutto, le migliaia di lavoratori riassorbiti nel mercato del lavoro con contratti part-time e salari al limite della sopravvivenza.
Secondo il crescente numero di cittadini americani insoddisfatti per l’andamento dell’economia del paese, la crescita dell’economia americana, visibile osservando i dati del Pil e della disoccupazione, non avrebbe in alcun modo contribuito a ridurre le disuguaglianze sociali nè a limitare il potere delle grandi istituzioni finanziarie. Quel che viene imputato all’amministrazione ed al suo Presidente, dunque, è di non essere stati capaci di intervenire sulle ragioni profonde e sistemiche della crisi ne, tantomeno, di produrre quella attesa redistribuzione delle risorse e del potere dall’un per cento della popolazione, situata al vertice della piramide, verso il resto e, in particolare, verso la parte più debole della popolazione stessa. Gli elettori americani non sono sembrati intenzionati a concedere attenuanti al presidente, nonostante Obama abbia passato gli ultimi due anni a battagliare con una camera controllata dai repubblicani ed impegnata ad ostacolare qualunque sua iniziativa. La maggior parte delle proposte di politica economica espansiva proposte dal presidente nell’ultima fase, fatte principalmente di investimenti pubblici dal sapore Keynesiano ma giudicate spesso timide dall’ala sinistra degli economisti USA, si sono scontrate con il muro di gomma della camera rendendo l’azione presidenziale a tratti defatigante.
Tuttavia, è possibile fare un passo avanti nell’analisi dell’attuale situazione economica e politica negli Stati Uniti. L’insoddisfazione delle classe media americana nei confronti della politiche anticrisi di Obama ha recentemente trovato una rappresentazione autorevole ed articolata nel fuoco amico di Christina Romer, già presidente del Comitato di consiglieri economici del Presidente e docente di economia a Berkley. In un articolo scientifico di recentissima pubblicazione, la Romer ed il marito, anch’egli economista e docente presso la stessa università, forniscono la prova fattuale della debolezza e dell’insufficienza della risposta di Obama alla crisi inscrivendo, di fatto, la strategia del Presidente nel solco dell’ortodossia neoliberista sia dal punto di vista dell’analisi della crisi stessa che da quello delle politiche economiche conseguenti.
Il cuore della tesi proposta da Christina Romer mette in discussione la lettura della presente fase post crisi proposta dalla scuola economica neoliberista che, a giudizio dell’autrice, è condivisa e messa in pratica nella strategia di politica economica dell’amministrazione Obama. Si tratterebbe di una tesi, quella neoliberista, secondo la quale sarebbe inevitabile rassegnarsi ad un precorso di ripresa dalla crisi finanziaria di durata non inferiore ai dieci anni. Percorso di ripresa in nessun modo modificabile, sempre secondo la stessa linea interpretativa, dagli interventi di politica economica dei governi. Una totale copertura ideologica, dunque, a favore della timidezza mostrata dal Presidente Obama relativamente alle proprie responsabilità sull’andamento dell’economia del paese.
Le analisi criticate dalla Romer, che hanno fra i maggiori proponenti i celebri economisti Reinhart e Rogoff, sostengono, come già asserito, l’ineluttabilità di un percorso di ripresa post crisi lento e di lunga durata. L’interpretazione della crisi finanziaria e della fase ad essa successiva portata avanti nel libro di Reinhart e Rogoff è il frutto di una poderosa analisi di trecento anni di crisi finanziarie occorse in quasi ogni parte del mondo. Sebbene questo potrebbe apparire ai non addetti ai lavori come un punto di forza dell’analisi contenuta nel libro dei due economisti mainstream, è proprio sulla dimensione geografica e temporale della loro analisi che si concentra la critica di Christina Romer e del consorte.
L’inattendibilità dell’analisi mainstream della crisi e del percorso successivo alla stessa sarebbe dovuta a due criticità fondamentali riscontrabili, in modo cristallino, nel lavoro di Reinhart e Rogoff.
Da un lato, i due economisti hanno messo assieme, nella loro analisi su tre secoli, i dati relativi a paesi caratterizzati da stadi di sviluppo profondamente diversi tra loro eliminando, in questo modo, qualunque possibilità di identificare differenze nella ripresa dalle crisi dovute alle strutture economiche ed agli strumenti di politica economica a disposizione dei diversi Stati. Dall’altro lato, l’analisi quantitativa proposta da Reinhart e Rogoff è fondamentalmente un analisi di quanto accaduto al Pil dei paesi considerati nelle rispettive fasi post crisi. Tuttavia, il Pil è una misura suscettibile di variazioni dipendenti da migliaia di determinati molto diverse e non sempre identificabili. Ed è ancor di più tale se viene considerato nello stesso campione il Pil di decine di paesi caratterizzati da strutture economiche tra loro fortemente differenziate. Per questa fondamentale ragione, un interpretazione ed un ricettario univoco per le crisi finanziarie basato su un analisi storica del Pil condotta in questo modo appaiono alla Romer, ed anche a chi scrive, a dir poco azzardati.
Inoltre, l’analisi mainstream di Reinhart e Rogoff non sembra tenere in considerazione il fatto che l’incapacità di riprendersi dopo una crisi propria di alcuni paesi rispetto ad altri possa dipendere da caratteristiche e fragilità peculiari dei paesi stessi le quali possono, in molti casi, incoraggiare o scoraggiare determinate misure di politica economica. Si tratta di una nuova e sonora bocciatura della visione “one size fit all” tipica della fase in cui ci troviamo a vivere, dove una politica economica fatta di tagli ed austerità è adottata a tutte le latitudini senza particolari distinzioni.
Emerge con evidenza, dunque, che, se sul piano scientifico l’articolo di Romer e Romer rappresenta “solo” l’ennesima bocciatura della teoria neoliberista e dei suoi maggiori assertori, sul piano politico le conseguenze dello stesso articolo potrebbero rivelarsi non irrilevanti. La traduzione politica delle conclusioni contenute nella pubblicazione dei due economisti di Berkley consentirebbe infatti di rivedere in modo negativo la posizione di Obama rispetto a crisi, ripresa dell’economia e dinamica delle disuguaglianze negli USA.
Ciò che si può leggere fra le righe dell’articolo dei due economisti sembrerebbe essere un pesante atto di accusa nei confronti del presidente. Utilizzando una coperta ideologica fallace e non particolarmente edificante, Obama avrebbe rivendicato di aver fatto tutto il possibile e di non avere responsabilità rispetto ad una dinamica economica che, dietro agli incoraggianti dati sull’occupazione, nasconde una situazione ai limiti dell’insostenibilità per le fasce più deboli. La politica economica di Obama, azzoppata dalle crescenti difficoltà politiche del presidente e ora anche apertamente tacciata di neoliberismo da parte di un ex membro presidente del Comitato di consiglieri economici, ha ricevuto un duro colpo. Il colpo proviene da sinistra e, visto l’esito delle elezioni di mid-term, non sembrerebbero esserci elementi per un inversione di tendenza fuori tempo massimo.
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