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L’Economia siamo noi: percorsi di altra economia, per nuove comunità e nuove reti sociali

05/10/2013

Troppo spesso quanto siamo chiamati a intervenire sul tema dell’altra economia, ci si aspetta da noi che raccontiamo esperienze rassicuranti su come suggestivi lavoretti bric-à-brac occupino decorativamente il tempo inutile di sfaccendati di lusso o meno, mentre l’economia con la E maiuscola gioca la partita vera della sopravvivenza del pianeta.

La realtà è che, se vogliamo che il pianeta stesso sopravviva, e noi con lui, dobbiamo prendere atto del monito recentemente lanciato dal Panel internazionale degli scienziati del clima (IPCC) nel suo quinto rapporto: “Fatto molto importante è che il Panel ha incrementato la confidenza sul messaggio da sottolineare e cioè che i gas che provocano l’effetto serra stanno alterando il clima terrestre. Nessun politico serio al mondo può ora disconoscere questo”. Partire da qui significa ammettere che tutte le attività umane, in primo luogo i consumi e la produzione, mai come in questi ultimi dieci anni stanno cambiando le condizioni del nostro abitare la terra, e che c’è bisogno per questo che l’economia torni al suo posto.

L’altra economia, dunque, siamo noi che non ci rassegniamo al fatto che l’Economia sia diventata un soggetto che si auto-rappresenta nel processo nelle politiche pubbliche, e non sia più strumento di pensiero pubblico e condiviso su chi siamo, dove siamo, se e come vogliamo vivere, e di conseguenza, che cosa vogliamo produrre, consumare, all’interno di una visione più equilibrata e olistica della nostra appartenenza alla biosfera. Scegliere, come Sbilanciamoci, di parlare di Altra Economia in questa edizione della ControCernobbio all’interno delle Ex Officine Rsi di Casalbertone a Roma, cioè quattro ettari di terreno, attrezzi da lavoro e vita degli operai licenziati e in cassa integrazione che riparavano treni e che ora hanno scelto di liberarli insieme a precari, attivisti e associazioni e come “Officine Zero” impegnarsi nel co-working, nel riuso, nel riciclo e nelle attività culturali e di formazione, significa fare una scelta di campo che molti come me ritengono non rinviabile.

Le pratiche più diffuse di Altra Economia nascono ormai cinquanta anni fa con l’obiettivo di dimostrare la fattibilità di un cambiamento dei meccanismi economici al servizio della ridistribuzione, di una maggiore democrazia e benessere diffuso. La comunità internazionale lavora a schemi di cooperazione fondati sull’Aiuto pubblico allo sviluppo, e parallelamente, con lo slogan “trade not aid”, si diffondono pratiche come quelle del commercio equo e solidale che prende molto sul serio la presunta libertà del mercato, provandone a forzare il potenziale equitativo. Economisti come Leonardo Becchetti, ad esempio, suggeriscono scherzosamente di attribuire al commercio equo il premio “Adam Smith” perché, mettendo in relazione di cooperazione orizzontale produttori del Sud del Mondo ed organizzazioni di cooperazione e di commercio equo del Nord che ne importano e distribuiscono i prodotti, riduce gli squilibri di filiera, stabilisce relazioni commerciali a medio-lungo termine, abbatte il monopsonio, mette in pratica l’autointeresse lungimirante, lega il prezzo più giusto dei prodotti ad una qualificazione del reddito dei produttori e promuove la loro libera autorganizzazione e l’impresa sociale. Quest’ultima, dal canto suo, è una forma d’organizzazione d’impresa in cui il profitto, sia per mission sia per prassi, è messo al servizio di un interesse diffuso. Il punto di caduta per entrambe, però, come per tutto il settore dell’economia solidale oggi è quello di presupporre, proprio come il mercato convenzionale, un consumatore “infinito”, risorse illimitate, una “giusta” competizione.

Nel momento in cui, però, questi presupposti cadono per i limiti stessi del pianeta e per l’assenza di democrazia e vera libertà nel sistema, entrambe queste alternative risultano in profonda crisi anche nel nostro Paese: le imprese sociali, ci dice l’Istat sono oltre 11.600 ma anche da loro, dopo decenni di crescita ininterrotta, si perdono posti di lavoro e i redditi sono al minimo[1]. Il commercio equo accusa fatturati in perdita, e consumi procapite significativi solo nei Paesi in cui tra i prodotti certificati sono entrati i poteri globali. Il prodotti equi vengono venduti un po’ di più solo nei supermercati, le botteghe chiudono a ripetizione, tengono quelle che si reggono sul volontariato, e il loro potenziale equitativo è al limite con il limite del sistema stesso.[2]

L’Istituto italiano per il Commercio estero (ICE) nell’estate 2013[3] ha scattato una fotografia abbastanza dettagliata dello stato di salute dell’economia europea da due anni a questa parte: la debolezza della domanda e dell’attività produttiva ha caratterizzato l’economia dell’Unione e in particolare quella dell’area dell’euro, dove il Pil si è contratto dello 0,6 per cento nel 2012, come conseguenza delle misure pubbliche e private di aggiustamento del debito, e delle difficoltà di accesso al credito di imprese e famiglie. Le esportazioni di beni e servizi in percentuale del prodotto interno lordo dell’Italia sono cresciute in volume del 2,3 per cento nel 2012, leggermente al di sotto del commercio mondiale. Tuttavia, la loro incidenza sul Pil si è innalzata ulteriormente, giungendo a sfiorare il 30 per cento. La crescita dei prezzi dei prodotti esportati è stata nel 2012 molto moderata e inferiore alla media dell’area dell’euro, come a dire che l’Italia è riuscita a rosicchiare spazi di mercato internazionale contenendo i propri prezzi, ma anche che questa piccola crescita dell’export non ha generato domanda interna né nuova occupazione. L’ICE ci conferma, infatti, che la competitività delle imprese esportatrici, cresciute numericamente nell’ultimo anno, anche di quelle di medio-piccola dimensione, si avvale sempre più dei benefici derivanti dalla delocalizzazione parziale dei processi produttivi. Questo vantaggio competitivo si realizza spostando all’estero processi o attività in funzione di due fattori: costo del lavoro per unità di prodotto e possibilità di accesso alle nuove tecnologie. Si acquistano quote di mercato estero, e si perdono lavoratori- consumatori nel mercato interno.

Quello che emerge da questi combinato disposto di spirali oggi gli economisti internazionali lo chiamano Sistema «d», e prende questa qualifica elegante dalla parola francese débrouillards, che indica le persone capaci di sbrogliare le matasse più intricate a partire da una determinazione e un’inventiva fuori dal comune. Gli «sbrogliatori» sono i protagonisti di un’economia vecchia come l’esclusione sociale e nuova come la coscienza di una crisi che non finirà. Parliamo del «nero», anzi, delle infinite sfumature di grigio tra l’economia illegale e quella informale, che non violano leggi penali, ma non garantiscono ai propri attori i diritti acquisiti dagli altri lavoratori «formalizzati». D’altronde in questo mercato underground l’Ocse stima che lavorino ben 1,8 miliardi di persone in tutto il mondo, che cresceranno fino a rappresentare entro il 2020 circa i due terzi degli occupati a livello globale. E l’Italia non fa eccezione.

Gli esperti arrivano oggi a quantificare grossolanamente autorganizzazione e nuova schiavitù in un valore che globalmente si aggira intorno ai 10mila miliardi di dollari. Spaventoso, se paragonato al Pil degli Stati Uniti che, come più grande economia mondiale arriva a 14mila miliardi. Quello degli «sbrogliatori», per di più, non è solo una patologia del benessere di pochi: è sistema perché non è semplicemente un fatto casuale, ma è sempre più organizzato e necessario. È sistema, però, anche perché è spesso un prodotto dell’intelligenza, della resistenza, dell’auto-organizzazione e della solidarietà di gruppo, che segue una serie di regole non scritte ma che potrebbero insegnare molto a chi dovrà scrivere nuove regole per un mondo in continuo cambiamento.

A complicare il quadro arrivano le regole internazionali. Innanzitutto quello dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC/WTO), [4] che nonostante, ad esempio, le esportazioni riguardino nemmeno il 10% della produzione agricola globale, modella su di esse regole generali che limitano lo spazio politico nazionale e locale. Essa impedisce, così, all’Italia, come a tutti gli altri Paesi membri, di proteggere i propri sistemi produttivi agricoli con misure ad hoc dalla concorrenza internazionale di produzioni di scarsa qualità. Alle istituzioni locali, inoltre, vieta tutti gli interventi pubblici mirati al sostegno delle produzioni, se non di esigua quantità (in base alla disciplina del de minimis), anche se mirati alla conservazione della biodiversità territoriale e produttiva. I volumi ingenti di sussidi che pure, in quota parte, il nostro Paese assorbe dall’Europa, sono in esigua quantità destinati allo sviluppo rurale e quantificati in base all’estensione delle superfici utili.

Nonostante la retorica del libero mercato, in realtà in questo sistema di opportunità per tutti sulla carta, vincono solo i più forti. Le esportazioni globali, che valevano nel 2012 9,838 miliardi di dollari, vengono effettuate nel 2012 per il 19% dall’Europa a 27, per il 16% dagli Usa, per il 15% dalla Cina, unico tra i cosiddetti “Paesi emergenti” ad emergere davvero visto che il Brasile esporta appena l’1% delle merci globali, India e Russia il 2%, nonostante abbiano strutturato negli ultimi anni tutto il proprio assetto produttivo per questa sfida, a colpi di land grabbing e doping ai capitalisti nazionali. All’interno di questi blocchi, chi riesce davvero a stare sul mercato globale si conta in un selezionato pugno di operatori: l’80% delle esportazioni di tutti gli Stati Uniti è in mano all’1% degli operatori. Se mettiamo insieme i primi 10 operatori Usa, la Wto ci dice che effettuano il 96% delle esportazioni nazionali. L’1% dei gruppi europei concentra il 10% delle esportazioni Ue, il 10% ne controlla l’85% circa. E per i paesi in via di sviluppo le cose non cambiano: l’81% delle esportazioni sono concentrate nelle mani delle 5 imprese più grandi. Anche la top ten delle imprese italiane si porta a casa il 72% delle esportazioni nazionali.

E non è tutto: a livello bilaterale l’Europa sta negoziando ulteriori riduzioni della sovranità politica nazionale sul commercio. Un esempio tra tutti? Il TTIP, o Trans-Atlantic Trade and Investment Partnership, cioè la creazione di un mercato unico liberalizzato tra Usa e Ue – in approvazione, se tutto va come i negoziatori auspicano, entro la fine del 2014 – vale 28mila miliardi di fatturati in più l’anno, circa metà del totale a livello globale. Ma non dobbiamo lasciarci abbagliare dal brillare dei dollari: insieme alle dogane, infatti, si sta pensando di far saltare anni e anni di regolazioni attente sulla protezione della nostra salute, sulle politiche agricole e di conservazione dell’ambiente, sulla sicurezza dei prodotti, ma anche tutte le denominazioni d’origine e di qualità che gli Stati Uniti non hanno e, anzi, si sono sempre fieramente rifiutati di introdurre in nome della libertà di mercato e delle quali invece noi tanto ci beiamo quando ragioniamo di made in Italy. E c’è di più: Yum!, la società che gestisce Kfc e Pizza Hut, ha già fatto sapere che per distribuire dall’America ai suoi 2.200 ristoranti europei il pollo surgelato oggi paga 1.024 euro di tasse d’importazione a tonnellata che si risparmierebbe volentieri. D’altro canto, questi sono tutti soldi che non andrebbero più a rimpolpare l’erario dei Paesi membri, e quindi a co-finanziare i nostri servizi essenziali, mentre i loro prezzi al consumo rimarrebbero sostanzialmente gli stessi. Ogni corporation sta presentando la lista della spesa: la Coca Cola company vorrebbe un allentamento delle regole europee di sicurezza alimentare su cosiddetti «aroma naturali»; la Intel, regina dei chip, vorrebbe l’abbattimento di tutti i sostegni che alcuni Paesi europei, come la Germania, hanno garantito alle loro imprese di alta tecnologia. Wal-Mart vorrebbe sfondare in Paesi che, come ad esempio il nostro, le stanno facendo muro proteggendo le catene distributive nazionali, ma vorrebbe anche etichette meno dettagliate per i prodotti alimentari e mani più libere nel commercio elettronico, in particolare su farmaci e affini. Un potenziale massacro, se pensiamo al peso distruttivo che la grande distribuzione ha avuto, ad esempio, sul tessuto distributivo e, di conseguenza, la biodiversità commerciale della nostra stessa città.

Che, rispetto a questa deriva, ci sia bisogno di cambiare e di “osare” una nuova alfabetizzazione dei problemi e delle risposte possibili non lo sostiene più soltanto la società civile globale. L’UNCTAD, agenzia delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo nel Trade and Development Report 2013 [5] più chiaramente che altrove ci dice che il vecchio paradigma fondato sullo sviluppo prodotto dalle esportazioni, in una prospettiva di crisi strutturale e non congiunturale dell’Economia, non è più attuale né attuabile. L’unico spazio di reale diffusione delle dinamiche di benessere economico in tutti gli strati della popolazione mondiale è, a livello commerciale, il mercato interno. Un vantaggio per i produttori dei Paesi in via di sviluppo, come per i piccoli produttori delle periferie del mondo, chiarisce l’agenzia, è la loro vicinanza al loro mercato interno e, se del caso, il loro mercato regionale. A questo proposito, la conoscenza locale delle imprese per lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi, reti di distribuzione e strategie di marketing può diventare un bene prezioso in competizione con i fornitori stranieri di beni e servizi analoghi. Inoltre, nella misura in cui le “piccole” economie assumeranno un maggior peso nella qualità e quantità dei consumi diffusi, le conseguenti modifiche nel modello di domanda possono costruire concrete opportunità per tutte queste economie in aree di produzione più allineate alle esigenze di sostenibilità e di equità rispetto al passato. La sfida è costruire circuiti interni di qualità sociale e ambientale in relazione tra loro, che rafforzino la cooperazione territoriale senza chiudersi, ma senza farsi radere al suolo da modelli di produzione e consumo insostenibili e, al momento, non più difendibili. Non che il localismo sia una risposta necessariamente positiva rispetto a questa atomizzazione dell’economia formale, ma la vocazione territoriale su cui poggiava un’assoluta innovazione italiana nella organizzazione aziendale e produttiva, quel distretto che a tutt’oggi si dimostra più resiliente alla crisi rispetto alla produzione dispersa e non organizzata, manifestava tutta la sua forza nella differenziazione dell’offerta, nella integrazione delle capacità e delle competenze delle diverse unità, anche di quelle a conduzione familiare, nella cooperazione che si traduceva in identità territoriale e produttiva, e da ultimo, ma non ultimo, in coesione sociale e benessere diffuso.

È proprio questo concetto di distretto ad essere stato mutuato anche dalla Rete di economia solidale italiana, che coordina la maggior parte delle esperienze di produzione alternativa nazionale, e le loro piattaforme regionali, per riacquisire spazio politico, capacità di regia e d’indirizzo dei cittadini- produttori-consumatori e delle loro autorità locali. L'espressione "Distretto di economia solidale" è nata il 19 ottobre 2002 quando la Rete italiana di Economia Solidale (RES) si riunì per la prima volta a Verona realizzando una carta di principi, che fu poi presentata pubblicamente a Padova nel maggio 2003. In tale carta si definisce un DES come: «una realtà territoriale, economica e sociale che persegue la realizzazione dei seguenti tre principi: cooperazione e reciprocità, valorizzazione del territorio, sostenibilità sociale ed ecologica [...] attraverso il metodo della partecipazione attiva dei soggetti alla definizione delle modalità concrete di gestione dei processi economici propri del distretto stesso.[a] » I DES locali, quasi una trentina ad oggi in tutto il Paese, hanno una struttura nazionale di coordinamento, il Tavolo RES, che a sua volta fa riferimento a RIPESS Europa, nodo della Rete Intercontinentale per la Promozione dell'Economia Sociale e Solidale [6].

L’esperienza dei Gruppi di Acquisto solidale, del fair trade, delle biomense e tutte le altre pratiche dell’economia solidale tradizionali, sono ormai solo la punta dell’iceberg rispetto al lavoro che, sul territorio nazionale, comunità, società civile organizzata, sindacati, lavoratori precari stanno facendo nascere alle radici della crisi. Co-working, forme di mutualità e di cooperazione 2.0 come all’interno del Laboratorio Urbano Reset [7], riappropriazione e cambio di destinazione produttiva solidale per spazi di produzione chiusi o abbandonati, agricoltura urbana e periurbana – come nel caso della Ri-Maflow a Milano [8], del Municipio dei Beni Comuni a Pisa [9], dello spazio di cultura e sport popolare SCUP [10], del mercato non mercato itinerante Ecosolpop [11] o del casale Pacha Mama a Roma – non sono esperienze residuali o naïves come alcuni loro prodromi, ma spazi di sperimentazione autentica di un’economia monetaria e non, resiliente, vitale e partecipata. La crisi, nonostante tutto, può offrirci un’occasione preziosa per ritrovare quella ambizione e quella capacità di visione che il Paese e l’Europa non solo necessitano, ma meritano.


[1] I dati del 9° Censimento ISTAT dell'industria, dei servizi e delle istituzioni nonprofit presentati a Roma qualche settimana fa rilevano come il numero delle imprese sociali in forma cooperativa sia cresciuto del 100% nel decennio 2001-2011 raggiungendo la cifra di 11.264 unità. A queste si aggiungono le 600 imprese sociali “di nuova generazione” costituite ai sensi della norma (d.lgs 155/06) e cresciute del 63% nell’ultimo triennio (dati Unioncamere). Altri dati però indicano un rallentamento della crescita, ad esempio per quanto riguarda la creazione di posti di lavoro. Sono infatti 408.370 i dipendenti delle imprese sociali (3,6% del totale), ma sempre per Unioncamere il saldo 2012 tra nuovi ingressi e uscite è negativo (-0,6).

[2]http://equosolidale.wordpress.com/reportannuali/

[3] ICE, Rapporto 2013: L’Italia nell’economia internazionale, accessibile in www.ice.gov.it

[4] WTO, Trade report 2013, accessibile in www.wto.org

[5] UNCTAD/TDR/2013

[6] Se ne veda una rassegna aggiornata nel volume AAVV, Un’economia nuova, dai Gas alla Z, di Altreconomia edizioni, 2013 www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=4298

[7]laburbreset.wordpress.com

[8]http://comune-info.net/2013/06/gasrimaflow/

[9] http://comune-info.net/2013/09/la-mappa/

[10] scup.sonarproject.net

[11]ecosolpop.wordpress.com

 

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