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Gli insegnanti tra i due fuochi

08/05/2015

La buona educazione/Manca una vera politica del personale. E a rimetterci sono gli insegnanti italiani. Persino rimbrottati perchè non sanno apprezzare la grande bellezza delle 101 mila stabilizzazioni

Inchiodati, ancora una volta, in un’immagine stereotipata, la stessa dalla defenestrazione a furor di popolo del ministro Berlinguer. Quella di una categoria conservativa, contraria alla valutazione dei risultati del proprio lavoro, poco o niente interessata al riconoscimento delle specificità professionali, lontana da un’interpretazione autentica dell’autonomia scolastica, intimorita dai cambiamenti organizzativi. Appassionata persino – questa la sola novità - ad organi collegiali deperiti da decenni, e in verità diffusamente disertati.

Ma non è così. A fare la differenza, non è solo la felice coincidenza di buoni dirigenti scolastici e di buoni insegnanti capaci di buone pratiche collaborative , ma una nervatura organizzativa e professionale degli istituti adatta ad esercitare meglio sia le competenze gestionali che quelle didattiche. In pedagogese si chiama, un po’ pomposamente, “leadership educativa diffusa”, ma non è un’araba fenice. Nei non pochi istituti di alta qualità - anche negli anni gelidi dei tagli e della massima inconcludenza della politica - l’autonomia scolastica, sebbene imbrigliata, ha poco a poco sgretolato la vecchia struttura “a pettine”, con un preside solo al comando e tanti insegnanti tutti eguali per compiti e funzioni ( e, secondo alcuni, per qualità professionale e per passione civile ed educativa ). Roba di quando ogni scuola era il terminale esecutivo di viale Trastevere, oggi in molti casi l’apertura al territorio c’è davvero, l’offerta formativa si misura con le trasformazioni sociali e culturali degli studenti, si moltiplicano le reti tra scuole e i protocolli con aziende, teatri, biblioteche, associazioni , si impongono altri modi di fare scuola, circola aria nuova, e una nuova ricerca didattica. I laboratori, le tecnologie, l’alternanza, gli studenti stranieri, l’educazione degli adulti. Accoglienza, inclusione, educazione alla cittadinanza, intercultura. Quindi figure dedicate, incarichi precisi, responsabilità particolari, valorizzazione delle competenze che già ci sono, sviluppo di quelle che ancora mancano.

Pur nei limiti del contratto del 1999, attento a scongiurare il “rischio” del duraturo ( non sia mai che possano nascerne super-insegnanti e insostenibili gerarchie ), e pur condizionati dall’impossibilità di retribuire dignitosamente gli impegni aggiuntivi, i “quadri dell’autonomia” in molte scuole ci sono. Bisognerebbe farli più stabili, sottrarli ai capricci dei collegi e alla variabilità delle disponibilità individuali, usare criteri di scelta basati su competenze oggettive, tradurre le esperienze in crediti per future carriere, ma intanto sono molti - più di 50mila l’anno - gli insegnanti che lavorano anche fuori dalle classi, collaboratori del dirigente ( una funzione che, bontà sua, anche la “Buonascuola” riconosce, ma senza uno straccio di standard) e in altri campi. Come si fa, altrimenti, a gestire istituti su più sedi e con più tipi di scuole ? O a condividere fra tutti il patrimonio di ricerca e di esperienza ? Più in generale va detto che non si danno organizzazioni, pubbliche o private, in grado di funzionare senza l’apporto di quadri, tecnici, specialisti . E’ di qui, inoltre, che si può partire per avanzamenti di carriera che non riflettano solo il trascorrere del tempo. Che talora, si sa, può anche trascorrere invano.

Temi da mettere al centro se si voleva, come si sostiene, sviluppare l’autonomia. Tanto più che i suoi “quadri” potevano contribuire non poco a rendere davvero “funzionali” quei 50mila docenti in più rispetto all’organico ritagliato sulle classi. Ma si poteva anche destinare una parte delle risorse per avviare un’evoluzione di carriera più credibile di quella della prima versione della Buonascuola, così poco appetibile che si è capito subito che sarebbe caduta, come è infatti accaduto. Sostituita dai bonus del preside ai “migliori” che, al di là di rischi di discrezionalità che resteranno anche se a pronunciarsi saranno anche altri organi, è tutt’altro da quello che si intende comunemente per carriera.

Niente da fare. Le politiche del personale – la risorsa più importante della scuola – non ci sono, se non nella rozza tradizione quantitativa delle sanatorie. Non si interviene sugli orari e sui calendari e neppure sulle assurde gerarchie professionali che vogliono orari più pesanti e retribuzioni più basse dove gli studenti hanno meno anni, non c’è una formazione verificabile nei risultati, e neppure risorse importanti dedicate allo scopo. C’è invece il rafforzamento del ruolo del preside, non nel senso della “leadership educativa diffusa”, piuttosto in quello approssimativo delle vulgate aziendalistiche, che infatti già si sta annacquando rispolverando organi collegiali che aspettano una riforma o spargendo locuzioni nebbiose sulla “chiamata diretta” degli insegnanti dai nuovi albi professionali. Ma è stato un boomerang. Il rafforzamento dei poteri dei presidi senza il bilanciamento di uno sviluppo delle funzioni e delle carriere docenti ha prodotto una sorta di choc anafilattico in una categoria già disorientata dalle confuse giravolte della Buonascuola.

E ora, come altre volte, è il momento del risentimento,del rifiuto di tutto, della massima difficoltà a recuperare il filo di un ragionamento lineare sulla riforma della professione docente, che non ha affatto i suoi alfa ed omega nell’abolizione di una parte del precariato.

In mezzo a due fuochi, dunque, i poveri insegnanti italiani. E pure rimbrottati perché non sanno apprezzare la grande bellezza delle 101mila stabilizzazioni. Non è la prima volta che restano stritolati in giochi politici che non c’entrano granché col merito dei loro problemi. Saranno capaci, prima o poi, di venirne fuori ?

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