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La favola della ripresa europea

02/11/2015

La ripresa europea arranca ancor prima di essere iniziata. Ma la ricetta è sempre la stessa: politiche monetarie espansive, riforme strutturali e politiche fiscali restrittive.

La potremmo chiamare la favola della ripresa europea: una macchina è ferma sul ciglio della strada; un uomo la spinge da dietro mentre fa cenno al conducente di spingere sull’acceleratore. I passeggeri – chiaramente stanchi e affamati – assistono alla scena appoggiati al guardrail. Dopo qualche tentativo a vuoto, il motore improvvisamente si accende. Il nostro uomo esulta mentre la macchina si allontana lentamente da lui. «Ve l’avevo detto che sarebbe ripartita», dice rivolto ai passeggeri, «gli serviva solo un po’ di acqua!». Alcuni esultano insieme a lui, altri sembrano scettici. «Mah – dice qualcuno – senza benzina secondo me non va molto lontano». Dopo qualche metro, infatti, il motore comincia nuovamente a perdere potenza. Sembra che stia lì lì per spegnersi un’altra volta. «Tranquilli – annuncia il nostro uomo, mettendosi a correre dietro alla macchina – gli serve solo un altro po’ di acqua!».

La macchina in questione è ovviamente l’economia dell’eurozona. L’uomo che la spinge è Mario Draghi. L’acqua cui il nostro uomo si affida per far ripartire la macchina sono le politiche monetarie espansive (quantitative easing) della Banca centrale europea. I passeggeri in attesa sul ciglio della strada sono i cittadini europei. Gli scettici siamo tutti noi – keynesiani ma non solo – che da anni facciamo notare che senza benzina – ossia senza domanda, e senza politiche fiscali espansive che la sostengano – la macchina europea non ripartirà mai.

Fuor di metafora, è stato lo stesso Draghi, nella riunione della BCE del 22 ottobre, a dichiarare che la tanto sbandierata ripresa economica – affidata quasi esclusivamente alle politiche monetarie espansive della BCE – non è neanche iniziata che già mostra i primi segnali di rallentamento. Quattro le “minacce” individuate da Draghi: la carenza di domanda; l’inflazione bassa (che questo mese è tornata in territorio negativo), a conferma del fatto che l’eurozona è ormai in piena stag-deflazione, in cui la stagnazione economica e la recessione si accompagnano al progressivo calo dei prezzi; il prezzo del petrolio in calo (un riflesso del calo della domanda e non solo della sovrapproduzione, come ha riconosciuto per la prima volta anche la BCE) e l’apprezzamento dell’euro sul dollaro (almeno fino alla settimana scorsa). Inoltre, nonostante un allentamento delle condizioni di credito (soprattutto in Italia), il credito all’economia, anche se in lieve ripresa, continua a viaggiare ben al di sotto dei livelli necessari. A queste minacce se ne potrebbero aggiungere molte altre, ben più serie, a partire dai drammatici – ma sempre più “normali” – livelli di disoccupazione, di povertà e di disuguaglianza che si continuano a registrare nel continente.

La ragione della persistente fragilità dell’economia dell’eurozona l’ha spiegata Keynes più di settant’anni fa: in un contesto in cui la domanda e la crescita ristagnano – in cui da un lato le banche sono riluttanti a investire e a concedere prestiti, a prescindere dalle flebo delle banche centrali, e dall’altro le famiglie e le imprese sono poco inclini a indebitarsi (anche a fronte di tassi di interesse vicini allo zero, se non addirittura negativi) – l’espansione monetaria non serve a nulla se non è accompagnata da un’espansione fiscale che immetta denaro direttamente nell’economia reale. Se guardiamo agli Stati Uniti, per esempio, vediamo che l’elemento cruciale per la ripresa economica non è stata la politica monetaria ma la politica fiscale, ossia l’aumento della spesa pubblica. Gli Stati dell’eurozona, come è noto, hanno fatto l’esatto opposto: non solo non hanno aumentato i loro deficit, come avrebbero dovuto, ma li hanno addirittura ridotti – e continuano a farlo. Con le conseguenze che vediamo.

Purtroppo, Draghi non sembra aver imparato la lezione. Nella riunione del 22 ottobre, infatti, ha dichiarato che la BCE sta «vagliando attivamente» tutte le possibilità per un ulteriore stimolo di politica monetaria – tra cui l’allungamento del QE oltre la scadenza fissata per settembre 2016 e il potenziamento del piano, che attualmente prevede acquisti per 60 miliardi di euro mensili – ma al contempo ha ribadito che le politiche fiscali devono sostenere la ripresa economica ma «nel rispetto delle regole fiscali dell’UE». Come fa notare l’economista Francesco Saraceno, però, «all’interno delle regole esistenti non c’è alcun margine per un’espansione fiscale degna di questo nome»: considerando che il deficit cumulativo dell’eurozona per il 2015 è stimato al 2 per cento – e che questo comunque rappresenta una media tra paesi che presentano situazioni fiscali molto differenti –, i vincoli di Maastricht permetterebbero al massimo un’espansione fiscale dell’1 per cento del PIL, ben al di sotto di quello che sarebbe necessario. Per non parlare del fatto che in base agli obblighi del fiscal compact gli Stati sono tenuti a ridurre ulteriormente il deficit. Ecco spiegato il paradosso – nota Saraceno – per cui la nuova legge di stabilità del governo italiano viene definita “espansiva”, in barba a qualunque principio keynesiano, per il solo fatto di prevedere un modesto rallentamento nel percorso di riduzione del deficit. In altre parole, la strategia di Draghi – e delle autorità dell’eurozona nel loro complesso – continua a rimanere saldamente ancorata alla stessa logica delle politiche fallimentari pervicacemente perseguite in questi anni: politiche monetarie espansive, riforme strutturali e politiche fiscali restrittive.

In un suo recente editoriale, Wolfgang Münchau ha dichiarato che «Draghi deve adottare delle misure ancora più unconventional» di quelle adottate finora. È vero, Draghi potrebbe tranquillamente utilizzare gli attuali strumenti di politica monetaria per finanziare direttamente – o indirettamente per mezzo della Banca europea per gli investimenti – un massiccio piano paneuropeo di investimenti pubblici, per distribuire denaro direttamente ai cittadini, realizzando un versamento mensile a favore di tutti i lavoratori dell’eurozona – sostanzialmente “lanciando denaro dagli elicotteri”, secondo la famosa metafora di Milton Friedman – o per trasformarsi in un prestatore diretto, acquistando titoli emessi da imprese anche piccole e prestiti diretti alle famiglie. Ma sappiamo benissimo che nel breve termine queste misure presentano ostacoli politici insuperabili.

L’alternativa – a ben vedere piuttosto conventional – consiste nel “rinazionalizzare” la politica fiscale, permettendo ai paesi in crisi – in primo luogo quelli della periferia – di far salire il loro deficit pubblico ai livelli necessari per compensare il crollo della spesa privata. Il vantaggio di quest’ultima proposta sta nel fatto che può essere adottata “unilateralmente” – col fine di avviare un conflitto in seno all’eurozona – da uno o più Stati membri: se un paese come l’Italia o la Francia annunciasse una misura di questo tipo, è difficile immaginare che la BCE ricorrerebbe agli stessi strumenti di pressione utilizzati di recente nei confronti della Grecia. Basterebbe un po’ di coraggio – anch’esso purtroppo drammaticamente in deficit – da parte degli attuali leader europei.

Articolo pubblicato da eunews.it

 

 

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