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La crisi e la "rivoluzione" dei servizi
Secondo l’associazione di rappresentanza delle imprese di pulizie europee, dal 1989 al 2008 il settore è cresciuto del 480 per cento. Una fotografia del mercato italiano
A metà degli anni ‘90 circa, le economie dei paesi più sviluppati registrarono, per la prima volta, che il valore aggiunto e l’occupazione nel settore dei servizi aveva superato quello congiunto prodotto nel settore agricolo e nel settore industriale. Da allora questo processo è continuamente cresciuto e gli stessi paesi oggi registrano un’incidenza dei servizi non inferiore al 70%, sia in termine di Pil che di occupazione.
Le economie occidentali, nel giro di meno di 150 anni, sono passate da una economia agricola ad una economia industriale, poi ad una economia di servizi. Mentre il primo passaggio è stato descritto in una infinità di ricerche e sintetizzato con l’espressione ‘Rivoluzione Industriale’, il secondo è passato quasi in sordina e non conosciamo nessuna ricerca col titolo di ‘Rivoluzione dei servizi’.
Ancora oggi molti paesi hanno un ministero dell’Industria, ma non un ministero dei Servizi; quando vogliamo indicare un governo poco attivo in interventi programmatici, diciamo che manca di una politica industriale. Quando in Italia nel 2007 si cercò di sviluppare una politica economica a lungo termine, il documento venne chiamato “Industria 2015” ed era possibile leggere: “Nonostante le attuali difficoltà del nostro sistema produttivo, siamo convinti che l’industria debba continuare a rappresentare il motore dello sviluppo economico italiano, sapendo coniugare la tradizionale forza nella manifattura con lo sviluppo di nuovi servizi ad essa collegati”.
A nostro avviso quest’atteggiamento è assai diffusa e difficile da spiegare.
Il primo ad accorgersi che l’economia stava varando verso il settore dei servizi fu Colin Clark negli anni ‘40, ma i primi studi approfonditi furono sviluppati negli anni ‘60. La spiegazione di questi spostamenti fu piuttosto semplice e legata alla correlazione fra reddito e domanda di beni di consumo già anticipata dallo statistico tedesco E. Engel: aumentando il reddito medio a disposizione di una famiglia, la sua domanda si modifica, riducendo in proporzione i consumi alimentari e orientandosi a favore di beni di consumo più complessi e di servizi.
Alcuni economisti negli anni ’50 avevano capito che la relazione era più complessa e che il concetto di servizi era troppo generico e poco utile all’analisi economica. Ponendo giustamente l’accento sull’andamento della produttività cercarono di separare i servizi ad alto incremento di produttività dai servizi a basso incremento, ma le nuove locuzioni proposte (servizi avanzati o quaternario) non incontrarono molto successo. E così parliamo di servizi sia per indicare settori ad altissima produttività e livelli retributivi (come nel settore della finanza) sia per indicare settori a bassissima produttività, con retribuzioni modeste e instabili (come nella logistica e nelle pulizie).
L’offerta: le imprese di pulizia
Avviare l’attività di pulizia è piuttosto semplice, una volta superati i requisiti burocratici (a partire dalla definizione stessa di pulizie [1]). Secondo alcuni calcoli basta un investimento modesto (30.000 euro) ed il break-even è già raggiungibile con un fatturato di € 100.000.
Il settore dei servizi di pulizie in Italia, in linea con gli altri paesi europei, ha conosciuto a partire dagli anni ’90 una crescita impressionante, almeno sino al 2010, arrivando ad occupare circa 380.000 persone (più o meno quanto l’industria chimica) [2].
Secondo l’Efci, l’associazione di rappresentanza delle imprese di pulizie a livello europeo, dal 1989 al 2008 il settore sarebbe cresciuto del 480% e l’Italia risulta in linea con gli altri maggiori paesi del continente. In Italia nel 2011 si è registrato per la prima volta un calo di fatturato. Ovviamente tale crescita è solo in parte reale. È difficile immaginare che la domanda di servizi di pulizia sia cresciuta in tali termini, ancorché possiamo convenire che gli standard di pulizia siano migliorati. La crescita è infatti in gran parte dovuta ai processi di esternalizzazione (outsourcing). Attività, come quelle di pulizia o di magazzinaggio, prima svolte all’interno delle imprese, della Gdo o della Pubblica amministrazione, sono state dismesse e affidate ad imprese specializzate.
Le principali caratteristiche delle imprese operanti nel settore possono così sintetizzarsi.
a) Il fatturato registrato nel 2012 per le imprese ricavabili dalla banca dati Aida è stato di 9,7 miliardi, contro 11,0 del 2010 anno di massima espansione.
b) Il numero delle imprese operanti è elevatissimo. Secondo i dati Unioncamere sarebbero circa 60.000 di cui 46.000 sotto forma di società di persone e ditta individuale. Le Società con bilancio disponibile su Aida sono notevolmente inferiori; nel 2012 erano 3.250 contro 4.350 nel 2010.
c) La nati-mortalità delle imprese di pulizie è molto elevata. Dal 2010 però per le società il saldo fra nuove iscrizione e cessazioni è stato negativo (1.221 nuove imprese contro 2.181 cessazioni), mentre è risultato ancora positivo per le imprese individuali e di persone (18.770 contro 13.708). È probabile che la crisi abbia spinto molte persone a cercare un rifugio nell’avvio di una attività abbastanza semplice, senza necessità di un elevato capitale fisso.
d) Dai punti precedenti è facile intuire come la concentrazione di mercato sia debole. Le imprese con un fatturato superiore a 50 milioni sono solo 25, di cui solo 8 superano i 100 milioni. Leader di settore è la Manutencoop Fm spa, controllata dal Gruppo Cooperativo Manutencoop con quasi 1,1 miliardi di fatturato. In compenso le imprese maggiori dal 2009 al 2012 hanno alzato la loro quota di mercato dal 33,5% al 42,3%. Tranne le imprese con fatturati inferiori ad un milione, si tratta di società che operano in altri settori dei servizi, principalmente raccolta rifiuti, vigilanza privata, portinariato, manutenzione verde ecc.
e) Il mercato è quasi diviso a metà fra società cooperative e loro consorzi e società di capitali, srl e spa. Le cooperative hanno comunque una dimensione media superiore. In termini di fatturato il 66% delle imprese ha sede nel Nord e solo poco più del 10% nel Sud e Isole. Circa il 36% del fatturato è prodotto da imprese nate dopo il 2000.
In sintesi il settore ha conosciuto una fortissima espansione sino al 2010 che ha prodotto un numero elevatissimo di operatori. Da tale data si è innescata una forte concorrenza da parte delle imprese maggiori che si è riflessa con l’aggiudicazione degli appalti pubblici a prezzi più bassi. Quasi inesistenti sono le aggregazioni attraverso M&A, per lo scarso peso dato all’avviamento.
Questo processo è solo all’inizio e stimiamo che nei prossimi anni verrà accentuato con una forte spinta alla concentrazione, anche per fare fronte alle spinte monopsonistiche della domanda pubblica (vedi paragrafo successivo).
Un accenno finale va riservato alla questione dei ritardi di pagamento, specie della P.A. I recenti provvedimenti, compreso l’entrata in vigore della D.Lgs 972012, che ha recepito la normativa europea sui tempi di pagamento, è ben lungi dal dare sollievo alle imprese. Il credit crunch bancario ha ulteriormente aggravato la situazione, specie per le imprese più piccole.
La domanda pubblica
Il principale cliente delle imprese di pulizia è la Pubblica amministrazione.
Le modalità d’acquisto sono regolate dal D. Lgs. 163/2006 (Codice degli appalti) e dal Dpr 267/2010 (Regolamento di esecuzione) che, uniti, sono un documento di quasi 700 pagine. Come se non bastasse è stato calcolato che dall’introduzione del Codice ad oggi siano state apportate oltre cento variazioni.
A vigilare sulla loro applicazione è stata costituita una apposita autorità di vigilanza, l’Avcp, che nella sua relazione annuale non cessa di ammonire contro questa “inflazione normativa”.
La normativa prevede che gli appalti di servizi siano assegnati con il criterio della ‘offerta economicamente più vantaggiosa’ che per tener conto sia del prezzo che delle condizioni tecniche di esecuzione del servizio, e non col criterio del ‘massimo ribasso’, basato esclusivamente sulla variabile prezzo. Nonostante ciò, i bandi sono strutturati in modo tale che i ribassi d’asta risultino determinati al fine dell’assegnazione dell’appalto. Nonostante l’Avcp affermi che i ribassi d’asta siano nei servizi largamente inferiori rispetto agli appalti di lavori, nell’ultimo biennio sono aumentati i casi di assegnazione con ribassi superiori al 20%. Se consideriamo che nell’attività di pulizia il costo della mano d’opera arriva anche all’80% del totale, le perplessità sulla qualità del servizio è più che legittima (perplessità che aumentano quando si consideri che i criteri di aggiudicazione eliminano le cosiddette ‘offerte anomale’).
Al fine di controllare le regolarità contrattuali, migliorare l’efficienza di aggiudicazione e ridurre i costi burocratici di partecipazione, l’Avcp sta attivando appositi strumenti (Banca dati nazionale dei contratti pubblici, AvcPass) che stentano però ad avviarsi, ritardando i potenziali benefici a favore delle imprese. Sebbene la normativa risponda a finalità più che meritevoli (trasparenza, lotta alla infiltrazioni malavitose) il quadro desta molte perplessità.
Dopo l’Avcp, la seconda gamba su cui si regge la domanda pubblica è la Consip spa. Nata nel 1997 con l’intento di gestire i processi di informatizzazione della P.A., nel 2000 è stata trasformata nella prima centrale pubblica di committenza, ad imitazione di alcune esperienze straniere.
La Consip non sottoscrive contratti d’appalto che restano di spettanza delle singole amministrazioni, ma delle convenzione a cui è obbligo attenersi. Lo scopo è chiaro: trasformare la Consip in un oligopsonio per aumentare il peso contrattuale della P.A. Questa posizione è stata però stemperata (forse anche per un malcelato intento federalista) permettendo la costituzione di centrali di committenza a livello regionale ed ora anche fra piccoli comuni consorziati, con confini di competenza non sempre chiari.
L’enorme complessità burocratica è continuamente fonte di liti giudiziarie ed ormai i contratti vengono assegnati più dai Tribunali amministrativi che dai committenti. Una volta però assegnati, si cade nell’area oscura del controllo sull’esecuzione. I capitolati tecnici sono estremamente dettagliati, arrivando a regolare, per esempio, i tipi di strofinacci usati, per quanto tempo o il numero di passaggi sulla superficie da pulire: ma come è possibile poi controllarne l’effettiva applicazione? Alla fine a farne le spese sono i cittadini che sono i veri consumatori di queste attività, come quando frequentano un istituto scolastico e debbano essere ricoverati in ospedale.
Il ricorso alle convenzioni Consip è in forte crescita e lo stesso istituto ha valutato che nel 2012 si siano risparmiati oltre 6 miliardi.
Nel 2012 sono stati sottoscritti contratti d’appalto pubblici per 95 miliardi (-5% sul 2011), di cui il 45,4% di servizi (+ 4,84% sul 2011). Il 31,7% dei servizi sono stati classificati come servizi fognari, raccolta rifiuti e pulizie. Per quanto riguarda l’area presidiata da Consip, i servizi di Facility Management (che ricomprendono l’area dei servizi di pulizia) hanno rappresentato il 20% del totale, superati solo dal settore Buoni Pasto (23%).
Il mercato del lavoro
Le valutazioni sugli occupati del settore sono piuttosto discordi, ma sembrano convergere attorno a 450.000 persone. Le stime da noi condotte sono però inferiori, circa 380.000 occupati, in calo di 15.000 unità rispetto al 2010, anno record. In ogni caso le diverse stime sono più concordi sui tassi di variazione. La crisi dopo il 2010 si è manifestata anche sotto forma di ricorso alla Cig, anche se i dati restano incomparabili con i massicci ricorsi per l’industria manifatturiera ed edile.
Gli aspetti più caratteristici dell’occupazione nei servizi di pulizia sono:
a) alta incidenza di mano d’opera femminile (oltre il 65%);
b) alta incidenza di occupazione part time (circa il 70%);
c) distribuzione dell’orario di lavoro fuori dagli orari di apertura al pubblico dei locali (circa il 75%).
È convinzione diffusa che i punti b) e c) siano fra loro correlati.
Diverse indagini hanno sottolineato la frequenza di irregolarità lavorative (in primis abuso sul part time e erogazioni fuori busta). Nel I semestre 2013 su 72.436 ispezioni eseguite sono state rilevate irregolarità nel 61,7% dei casi (solo agricoltura ed edilizia hanno fatto peggio).
Sebbene l’Avcp abbia denunciato come i piani di sicurezza contrattualmente previsti siano di qualità scadente, il settore registra infortuni sul lavoro limitati.
Questa caratteristiche lavorative hanno reso l’attività di pulizia non particolarmente attrattiva, al punto da registrare un forte turn over fra gli addetti. Anche se non ci sono rilevazioni statistiche è diffusa l’opinione che nel passato il turn over sia stato non inferiore al 20% (con punte anche del 40%). In base a testimonianze da noi raccolte, abbiamo riscontrato come nell’ultimo biennio il turn over si sia quasi azzerato.
Quello che in tempi normali era per molte lavoratrici un lavoro di passaggio, ora è diventato un lavoro da tener ben stretto: anche da qui passa la crisi.
[1] La legge 82/94 e il decreto attuativo 27/4/1999 distingue infatti fra:
- Attività di pulizia;
- Attività di disinfezione;
- Attività di disinfestazione:
- Attività di derattizzazione;
- Attività di sanificazione
per ognuna delle quali esistono diversi requisiti per essere ammessi all’esercizio, requisiti a loro volta distinti fra:
- Requisiti di capacità economico-finanziaria;
- Requisiti tecnico-organizzativi;
- requisiti di onorabilità.
[2]Le stime sull’occupazione sono piuttosto incerte; alcune ricerche stimano una occupazione superiore a 450.000 persone.
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