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Il paese del sole. Voci dalla Grande Crisi

23/04/2014

Deserti industriali e fabbriche recuperate, paesini terremotati e new town abitate da zombi. Un reportage narrativo nell’Italia del Sud al tempo della Grande Depressione

Non sarà la Route 66 di Steinbeck, la via Appia, né il Lazio l’Oklahoma di Furore. Non c’è Tom Joad a fare l’autostop in questo cimitero industriale del Basso Lazio che avrebbe potuto essere come una campagna del West e invece rassomiglia più a una periferia di Detroit, ma qua e là qualche prostituta africana con tutt’altro obiettivo. Però, a passarci una giornata intera, capisci che la Grande Crisi è qui, ora, e non c’è inganno mediatico o escamotage politico che possa fermarne l’impetuosa avanzata. È economica ed ecologica, antropologica e collettiva, investe i modi di produrre e gli stili di vita, la vita quotidiana e il futuro imminente, tocca trasversalmente le persone di mezza età che vengono a trovarsi senza ruolo in una società che la Costituzione vuole fondata sul lavoro, esodate dal mondo che avevano conosciuto, e quella generazione che il premier Mario Monti, il giorno dopo essere stato incoronato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano erede di Silvio Berlusconi, in tutta onestà definì «perduta»: quei giovani-giovani sotto i trent’anni e i trenta-quarantenni che un lavoro vero non l’hanno mai conosciuto e hanno agito da inconsapevoli pionieri di un sistema «dopo Cristo» in cui il welfare che ha protetto i loro genitori non sarà più garantito a nessuno, e in cui ogni homo sarà homini lupus. Sarà importante provare a svelarne meccanismi e retroscena, da piccoli scienziati della contingenza quali noi giornalisti aspiriamo a essere.

Questo viaggio, che si propone di osservare da vicino quella che il Premio Nobel per l’economia Paul Krugman ha definito «mezza Grande Depressione» ma che con ogni probabilità, per quel pezzo d’Occidente che affaccia sul mare nostrum Mediterraneo, «culla della civiltà», è priva di mezze misure, ha inizio davanti a un cancello scorrevole che è impossibile oltrepassare, in una delle tante macchie d'asfalto che punteggiano come nei la campagna di Cisterna di Latina. Il piazzale della Hydro Aluminium Slim è denominato, con un pizzico di pomposità e scarsa fantasia, «piazza dell’alluminio».

Non sono venuto fin qui per errore. Non fosse stato annullato all’ultimo momento il sit-in dei dipendenti contro la più grande fabbrica metalmeccanica del Lazio, che ha deciso di congelare per due anni la quattordicesima e di restituirla a piccole rate a partire dal 2015, questa discesa nelle viscere della Grande Crisi avrebbe beneficiato, con ogni probabilità, di un incipit con più pathos. Invece, alle due del pomeriggio di una giornata la cui luce promette primavera ma è oppressa da uno strato uniforme di nubi, di quelle che rendono l’umore cangiante come il vento che soffia con alterna intensità, la sensazione è quella di esordire con una falsa partenza, come in talune gare di Formula 1 in cui un pilota si lascia tradire dalla frenesia e sgomma prima del via o come accadde a quei tre emigranti che all’indomani dell’Unità d’Italia decisero di attraversare l'Oceano per rientrare in Italia dall'Uruguay con un’imbarcazione costruita da loro, ma appena abbandonato il Rio de La Plata furono traditi dalla bonaccia.

C’è aria di bonaccia anche nella «piazza dell’alluminio», ma il viaggio non è stato del tutto vano. C’è infatti, a sorvegliare l’entrata e l’uscita dei lavoratori, il segretario locale della Fiom, Tiziano Maronna, pronto a illustrare il perché l’esito della trattativa in questa fabbrica costituirà un piccolo paradigma per i futuri rapporti aziendali in tutta l’area. Alla Hydro Slim – spiega - è in gioco l’applicazione del Piano Marchionne in una industria che non sia la Fiat. E questo, con i suoi 430 operai, è lo stabilimento più grande di un’area in cui, ai tempi d’oro dell’industrializzazione del centro-sud, si contavano una quarantina di fabbriche metalmeccaniche. La partita in corso alla Hydro Slim riguarda le quattordicesime, appunto, e altri ammennicoli garantiti da un accordo integrativo: indennità per la sede disagiata, trasporti, mensa. Poco male, si potrebbe pensare, se salta la quattordicesima rimangono le altre tredici mensilità. Ma se si pensa che la paga base di un metalmeccanico di terzo livello - il più comune - è di appena 1.100 euro al mese, e se si considerano le spese di viaggio per arrivare fin qui si capisce come anche un piccolo bonus possa rappresentare una salvifica boccata d'ossigeno. In un Paese come l’Italia in cui la Grande Crisi ha provocato sinora – contrariamente alle previsioni degli esperti – un aumento dell’inflazione proporzionalmente commisurato al calo del Prodotto interno lordo – anche se da qualche mese a questa parte non è più così e i prezzi hanno preso a calare, ci informa l’Istat - a un operaio non rimane molto per condurre un’esistenza dignitosa. E quando leggiamo le aride cifre dell’Istituto nazionale di Statistica, secondo il quale 6,7 milioni di persone in Italia sono in una condizione di «grave deprivazione», non possiamo fare a meno di pensare che i 430 operai della Hydro Slim non possano essere tra questi, vieppiù se dovessero venire a mancare loro i 2.500 euro all’anno che perderebbero se passasse il piano aziendale.

Si intuisce che la partita è grossa: il Piano Marchionne - una strategia pianificata a tavolino di compressione di costi e diritti, che utilizza la crisi come grimaldello per far passare restrizioni che in un altro contesto sarebbe stato impossibile anche solo immaginare - esteso a macchia d’olio su quel che resta del tessuto industriale italiano, dovrebbe garantire la convenienza per le aziende a rimanere in Italia piuttosto che a delocalizzare nei Paesi dell’Est o a produrre nell’Estremo Oriente. A maggior ragione se i costi vengono scaricati sullo Stato, che da quando è cominciata la Grande Crisi non ha lesinato la concessione degli ammortizzatori sociali a chiunque ne facesse richiesta, specie se si tratta di una multinazionale. Invece, spiega Maronna, più le aziende sono piccole e meno possibilità hanno di vedersi concedere stati di crisi, anche se spesso sono loro ad averne maggiore bisogno.

Si comprende la frustrazione dei sindacalisti, specie dei più battaglieri. Stretti nella morsa del ricatto occupazionale, si trovano a dover negoziare sempre il meno peggio, al massimo la conservazione di qualche diritto e mai una loro estensione, con il risultato di risultare troppo estremisti agli occhi di quei lavoratori timorosi di perdere il posto di lavoro e troppo cedevoli per i gusti degli operai più arrabbiati.

«A fare i piani industriali ormai sono le banche, con i soldi pubblici», mi dice il segretario della Cgil Giovanni Gioia, che incontro nel suo ufficio alla Camera del Lavoro di Latina. Alle pareti della stanza non c’è il solito Pellizza da Volpedo che si incontra regolarmente in sedi di questo genere, ma una sorta di Quarto Stato col turbante. Sono indiani sikh, gli "invisibili" delle campagne non rovinate dal cemento e dall'industria, e l’immagine immortala la prima volta che sono scesi in piazza per rivendicare i loro diritti. Era il 26 maggio del 2010, e si capisce che l’esser riuscito a far manifestare un migliaio di coraggiosi esponenti della "little India" pontina è il fiore all’occhiello dell'attivismo sindacale di Gioia, anche se da allora molto poco è cambiato per gli immigrati, impiegati negli allevamenti di bufale e nella raccolta di zucchine e cocomeri, sfruttati e malpagati oggi più di ieri. Già al telefono, Gioia si era presentato come una possibile miniera di informazioni. A passarci una giornata insieme si fa in tempo ad apprezzarne la profonda conoscenza del territorio, delle sue storie e dei personaggi, di solito sconosciuti ai più, che lo rendono vivo. Sarà il primo, importante, compagno di strada di questo viaggio.

Per capire cosa stia a significare l’affermazione che ormai sono le banche a fare i piani industriali non è necessario spostarsi molto. A qualche chilometro di distanza dalla Hydro Slim c’è l’unico stabilimento italiano della Findus. Lì dentro fanno i Quattro salti in padella, i Sofficini, i bastoncini di pesce e tutti gli altri prodotti surgelati che troviamo nei supermercati con il marchio del capitano dalla barba bianca che con un sorriso rassicurante ci garantisce la qualità del pescato. Il caso della Findus è paradigmatico di come il finanz-capitalismo – come ha efficacemente denominato il modello economico dominante, con un neologismo forse cacofonico ma lucidamente esplicativo, il sociologo Luciano Gallino - abbia ormai in pugno anche la produzione e di quanto assoggetti quest’ultima alle esigenze finanziarie. A partire dal 2000 la società, nata in un paesino svedese negli anni cinquanta, ha cambiato proprietà tre volte, passando da un fondo di private equity a un altro, e in ogni passaggio ha lasciato per strada un impressionante numero di lavoratori, che dai 1.300 di inizio millennio sono ormai ridotti a 350, cosa che fa dire al nostro sindacalista cicerone che ormai lo stabilimento laziale è «una portaerei che viaggia come un motoscafo», al 45 per cento della sua capacità produttiva.

Alla Findus di Cisterna tutto comincia nel 2010, quando la Unilever Italia – ramo nostrano della multinazionale anglo-olandese che commercia anche i gelati Algida - vende il frozen food – ovverossia la fabbrica in questione, la sede di Roma e il marchio Findus Italia – alla Compagnia Italiana Surgelati (Csi), che a sua volta è di proprietà della Byrd’s Eye Igloo, società che ha rilevato anche gli altri tre stabilimenti europei – due in Germania e uno in Inghilterra – e il marchio Igloo. La Byrd’s Eye Igloo, a sua volta, fa capo a Permira, un fondo di private equity finanziato in gran parte da Goldman Sachs. L’operazione costa ai finanzieri 805 milioni di euro. Nonostante il credit crunch, la società ha un giro d’affari di circa 450 milioni di euro e un margine operativo lordo attorno agli 85 milioni. I margini per rilanciare ci sarebbero tutti. Invece l’obiettivo è di ridimensionare, in nome dell’ «incremento di produttività e di efficienza organizzativa». Il sospetto, fondato, è che ai finanzieri interessi poco la produzione e molto più ristrutturare l’azienda in modo da poterla in seguito rivendere, se sarà il caso, come un usato sicuro.

A pochi mesi dall’insediamento la nuova società apre una procedura di cassa integrazione per 152 lavoratori e una di mobilità per altri 97, e disdetta immediatamente tutti gli accordi sindacali integrativi, tornando al contratto base dell’agroindustria. Nel marzo scorso arriva, del tutto inattesa, una seconda mobilità, con altri 127 esuberi. Nel frattempo, all’interno dello stabilimento aprono due uffici interinali, uno dell’Adecco e un altro della Ramstad, che sfornano contratti anche solo di un giorno per far fronte alle esigenze produttive, in particolare per sostituire il ricorso al lavoro stagionale. In questo modo, il capolavoro è compiuto: il personale è dimezzato, i salari diminuiti – «mediamente ogni lavoratore ha perso 4-5 mila euro all’anno», dice Gioia – i diritti dei lavoratori compressi e i costi della ristrutturazione accollati allo Stato, che nell’assenza di una politica industriale concede acriticamente stati di crisi. La domanda che si pone d’obbligo, a questo punto, è: potrà reggere una simile cura da cavallo?

A gettare un'ulteriore secchiata di benzina su un fuoco che già divampava da tempo è arrivato pure lo scandalo della carne equina nelle lasagne prodotte dalla Findus in Gran Bretagna. Tralasciando ogni approfondimento sulle proprietà nutritive di quest’ultima rispetto alla carne bovina – è stato accertato che non si trattava comunque di alimenti nocivi per la salute - e senza addentrarsi nei meandri della produzione - come si produce, qual è la filiera - quel che è utile mettere in evidenza è cosa si possa nascondere dietro uno stesso logo. Il giorno dopo l’esplosione dello scandalo, finito sulle copertine dei giornali di mezzo mondo, la Findus Italia ha diramato un comunicato in cui ha spiegato che con le lasagne inglesi non ha niente a che fare, non solo dal punto di vista produttivo ma addirittura da quello societario. Può accadere, infatti, che sotto lo stesso cappello – conservato per ragioni di brand – si nascondano proprietà diverse. Ad esempio, in Svizzera la Findus è proprietà di Nestlè. Ma lo scandalo britannico ha avuto sul mercato l’effetto di una slavina: la Coldiretti ha stimato un crollo delle vendite dei prodotti della multinazionale del cibo surgelato pari al trenta per cento.

Difficilmente un boicottaggio ben organizzato sarebbe riuscito ad assestare un colpo più devastante all’immagine del marchio. I consumatori – ai quali l’ideologia neoliberista impone l’ignoranza di cosa si nasconda dietro il prodotto che acquistano nei supermercati – non hanno fatto distinzione: per loro il logo è lo stesso e la responsabilità pertanto unica. Il nuovo amministratore delegato di Findus Italia, David Pagnoni, nominato il 4 marzo scorso, ha di fronte a sé il compito di rinverdire l’immagine sorridente del vecchio Capitano svedese. Appena insediato, ha dichiarato: «Sono convinto che riusciremo a ottenere una crescita del business italiano, continuando a offrire prodotti di alta qualità che soddisfano i bisogni dei nostri consumatori». Grazie al calo dei consumi e ai piani industriali fatti dalle banche, oggi la Findus di Cisterna di Latina sforna 70 mila tonnellate all’anno in meno di Sofficini e Quattro salti in padella. Sarebbe già un successo se riuscisse a invertire la tendenza.

 

Angelo Mastrandrea, Il paese del sole, Ediesse 2014

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