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La “giapponesizzazione” dell’Italia

03/10/2014

A più di sei anni dalla crisi finanziaria del 2008, l’eurozona nel suo insieme è in piena stagnazione economica e continua a registrare un Pil inferiore a quello del picco pre-crisi, mentre vari paesi sono ancora in recessione

La situazione disastrosa in cui versa l’Europa è nota, ma spesso si sottovaluta l’entità del disastro. A più di sei anni dalla crisi finanziaria del 2008, l’eurozona nel suo insieme è in piena stagnazione economica e continua a registrare un Pil inferiore a quello del picco pre-crisi, mentre vari paesi sono ancora in recessione. A questo punto, quindi, possiamo dire che, almeno per quello che riguarda l’Europa, questa non è “la peggiore crisi dai tempi della grande depressione”, come recita la vulgata giornalistica; se consideriamo che negli anni trenta l’Europa impiegò all’incirca quattro anni e mezzo per tornare ai livelli di crescita pre-crisi, possiamo ragionevolmente sostenere che, perlomeno da un punto di vista macroeconomico, questa crisi è peggiore di quella del ’29. Soprattutto se consideriamo che, ceteris paribus, la stagnazione si prospetta “secolare”, come sostengono numerosi esperti.

Tuttavia, guardare alla media europea è fuorviante, poiché sappiamo che uno dei tratti caratteristici della crisi dell’eurozona è la sua natura profondamente asimmetrica: da un lato, infatti, abbiamo paesi come la Germania che hanno raggiunto o superato il livello di Pil pre-crisi, e altri che invece hanno registrato (e continuano a registrare) un crollo del reddito nazionale senza precedenti nella storia moderna. Dopo la Grecia, l’Italia è senz’altro il caso più esemplare. Si è parlato molto del fatto che nel secondo trimestre del 2014 l’Italia è “tornata” in recessione, ma la verità è molto peggiore: di fatto l’Italia è in recessione da sei anni, come si può facilmente evincere dall’andamento del Pil.

E gli effetti si vedono: produzione industriale al -25%, Pil al -10%, tasso di accumulazione ai minimi storici, disoccupazione e debito pubblico a livelli record. Un’apocalisse economica e sociale da cui il nostro paese impiegherà decenni a riprendersi (e comunque solo a patto di un cambio radicale cambio di rotta), soprattutto considerando i pesanti effetti strutturali che la crisi ha avuto sul tessuto produttivo del paese. In questo senso è difficile dare torto a un recente studio di Confindustria, secondo cui i danni provocati dalla crisi sono “commisurabili solo con quelli di una guerra”. Che, però, aggiungiamo, non ha colpito tutti allo stesso modo.

A cosa è da inputare questa catastrofe? C’è ormai un ampio consenso sul fatto che la causa più diretta della crisi italiana in particolare ed europea in generale sia da ricercarsi nel crollo della domanda aggregata e, in particolare, nella riduzione della domanda di beni di consumo. Persino due accaniti sostenitori dell’austerity come Francesco Giavazzi (uno dei padri della teoria dell’“austerità espansiva”) e Guido Tabellini hanno recentemente fatto marcia indietro, dichiarando che “la sfida principale che ha di fronte l’eurozona è una mancanza di domanda aggregata” e che “questo è molto più rilevante degli squilibri interni o della mancanza di competitività della periferia”. Questo, a sua volta, ha determinato una caduta dei prezzi, facendo scivolare l’eurozona sull’orlo della deflazione (che per alcuni paesi, tra cui l’Italia, è già una realtà). Ci troviamo, in sostanza, di fronte a una situazione in cui stagnazione (o recessione) dell’economia e caduta dei prezzi si alimentano vicendevolmente, al punto che c’è già chi parla di “stag-deflazione” (per fare il verso alla stagflazione degli anni ‘70): come ha scritto Guglielmo Forges Davanzati sulla Repubblica, “la caduta dei prezzi è, al tempo stesso, sintomo e concausa della recessione…. A ben vedere, la deflazione è… il principale sintomo di una intensa recessione e, al tempo stesso, una causa rilevante che può accentuarla”.

Anche sulle origini del crollo della domanda (e dunque della spirale deflazionistica) in Europa ormai non ci sono dubbi. Essa è in parte il risultato dell’architettura estremamente disfunzionale dell’eurozona (che è intrinsecamente recessiva e deflazionistica, e non da ieri ma da quando è iniziato il processo di “convergenza” verso Maastricht negli anni novanta), e in parte delle scelte (apparentemente) dissennate fatte dall’establishment politico europeo in seguito alla crisi finanziaria, che hanno avuto l’effetto di strangolare ulteriormente l’economia, già affamata da un crollo della spesa privata, per mezzo di drastici tagli alla spesa pubblica, aumenti delle tasse e compressione dei salari. Questo ormai lo dicono – seppur con modi, toni e soprattutto finalità politiche diverse – anche organizzazioni internazionali come l’Fmi e giornali d’élite come il Financial Times. E la migliore dimostrazione di ciò è il fatto che le altri grandi aree monetarie colpite dalla crisi – Stati Uniti, Regno Unito e Giappone, che infatti hanno implementato delle politiche economiche ben diverse dalle nostre (pur con tutti i loro limiti) –, hanno recuperato o superato il livello del reddito nazionale del 2008, e sono riuscite a ridurre notevolmente il tasso di disoccupazione.

Eppure, di fronte a un dei più colossali fallimenti di politica economica della storia moderna, le élite europee e nazionali continuano in buona parte a insistere sulla stessa strada. Basti vedere la nuova Commissione europea guidata da Juncker, che in materia di politica economica si presenta in una linea di assoluta continuità con il passato. “Noi abbiamo fatto tutto il possibile, ora tocca a voi fare il necessario per rilanciare la crescita”: questo sembra essere in sostanza il messaggio lanciato da Bruxelles e Francoforte ai governi nazionali. L’ha detto chiaramente Mario Draghi in una recente conferenza stampa: gli stimoli monetari da soli non possono bastare, e lo spazio di manovra per politiche fiscali espansive non esiste, a causa dell’alto livello del debito di molti paesi; quello che serve a questo punto sono “ambiziosi, importanti e forti riforme strutturali”, soprattutto nell’ambito del mercato del lavoro. Qualche giorno prima Draghi era stato ancora più esplicito, dicendo addirittura che era arrivato il momento di “cedere sovranità” all’Europa per quanto riguarda le riforme, come già è stato fatto per le politiche di bilancio.

Non è possibile qui entrare nel merito della prima parte del discorso di Draghi, ossia il fatto che la Bce avrebbe fatto “tutto il possibile” in suo potere per contrastare la crisi. Ci limiteremo a notare che lo stesso Giavazzi ha indicato che la Bce potrebbe benissimo finanziare una politica di stimolo fiscale stampando moneta. Ci concentreremo dunque sul punto centrale del discorso di Draghi: le riforme strutturali. Tra le quali, sottolinea Draghi, la “priorità” spetta alle riforme strutturali dirette all’eliminazione delle “rigidità del mercato del lavoro”. Una posizione che rispecchia perfettamente quella di Matteo Renzi (e del suo “Jobs Act”), che difatti si è detto “assolutamente d’accordo” col presidente della Bce ed ha colto palla al balzo per tornare ad attaccare l’articolo 18. Ma siamo sicuri che le riforme strutturali – o meglio, questo tipo di riforme – rappresentino “il motore principale della crescita”, come recita il documento della presidenza italiana del semestre Ue? La realtà è che vent’anni di ricerche empiriche hanno dimostrato che non esiste nessuna correlazione positiva tra flessibilizzazione del mercato del lavoro e crescita economica ed occupazionale. E l’Italia ne è la dimostrazione evidente: a partire dalla Legge Treu del 1997, sono state approvate nel nostro paese ben nove riforme del mercato del lavoro, di cui sette negli ultimi sette anni, col risultato che oggi l’Ocse riconosce all’Italia il pregio di essere il paese che ha maggiormente flessibilizzato il mercato del lavoro tra i paesi industrializzati. Senza che questo sia minimamente riuscito a frenare il tracollo del reddito nazionale e la vertiginosa crescita della disoccupazione dal 2008 in poi. Possiamo anzi ragionevolmente ipotizzare che l’abbia peggiorata: se siamo d’accordo che l’Italia soffre principalmente di un problema di carenza di domanda aggregata, risulta evidente che una maggiore flessibilità del lavoro, che favorisce contratti precari e peggiora le condizioni di reddito della forza lavoro, rischia di svolgere una funzione pro-ciclica, deprimendo ulteriormente la domanda (a tal proposito è opportuno notare che l’Italia è il paese europeo in cui i salari reali sono cresciuti di meno dai primi anni novanta ad oggi, determinando una consistente riduzione della quota dei salari sul Pil). Trattasi di un classico caso di “fallacia della composizione”: quella che può apparire come una scelta razionale per una singola impresa si rivela fallimentare per l’economia se a farlo sono tutte le imprese allo stesso tempo.

Questo è ancor più vero in uno scenario deflazionistico, come insegna l’esempio del Giappone, che da quindici anni combatte contro la deflazione. Anche lì, a partire dalla metà degli anni novanta, le imprese hanno reagito al crollo della domanda (e dei prezzi), determinato dallo scoppio della bolla immobiliare, tagliando i salari. Con l’effetto di provocare un’ulteriore riduzione della domanda e dando il via a quella spirale negativa che il Giappone sta ancora oggi cercando di invertire. La buona notizia è che il paese sembra aver finalmente imparato la lezione. Proprio alla recente conferenza dei banchieri centrali di Jackson Hole, mentre Draghi cantava le lodi delle riforme strutturali, il governatore della banca centrale giapponese auspicava l’esatto opposto, chiedendo una mano visibile che aiuti ad aumentare i salari: senza un aumento dei salari – ha spiegato – la domanda interna non può crescere, le imprese non sentono il bisogno di investire e il paese stenta ad uscire dalla deflazione.

In realtà, lo stesso Draghi ammette che queste riforme, proprio perché riducono la domanda, sono destinate nel breve-medio periodo ad aggravare le prospettive di crescita e di occupazione. E allora come spiegare l’insistenza sulle riforme del mercato del lavoro? Trattasi semplicemente di un caso di cecità ideologica? O dietro alle misure proposte si nasconde un disegno politico preciso? Come ha ipotizzato di recente Gad Lerner sulla Repubblica, “sulla riforma del mercato del lavoro italiano grava il sospetto che si tratti di un passaggio preliminare mirato al drenaggio di altre risorse dalle buste paga dei lavoratori” e più precisamente “a una decurtazione complessiva dei redditi da lavoro dipendente”, all’interno di un più ampio “ridisegno complessivo del nostro sistema economico”. Un “ridisegno” che probabilmente val bene anche la definitiva “giapponesizzazione” dell’Italia.

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