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A volte capita che la realtà scavalchi la fantasia. Quando ho iniziato la mia inchiesta in preparazione di questo libro mi è successo che la realtà superasse, non solo la fantasia, ma addirittura il pregiudizio. Volevo avvicinare la lente di ingrandimento a un mondo decisamente sconosciuto, quello della disoccupazione e dei suoi effetti tra lavoratori ultracinquantenni, licenziati ed esodati, donne e uomini ritenuti troppo giovani per accedere alla pensione e, al tempo stesso, troppo vecchi per trovare un altro posto di lavoro regolare, né nero, né grigio, né prigioniero della criminalità organizzata. Sulla disoccupazione giovanile si sa abbastanza, i media – se non la politica – sono attenti; inchieste, saggi, analisi, convegnistica e letteratura giustamente hanno contribuito a rendere se non altro visibile uno tsunami che ha sommerso e sommerge almeno due generazioni. Invece, della disoccupazione dei lavoratori ultraquarantacinquenni rigettati in casa dalla crisi e dalle ricette liberiste, o per discriminazione politica o sindacale, non si conoscono neppure i numeri reali, non c’è Istat che li racconti. Sugli esodati, vittime dall’annullamento postumo dello status di prepensionati, dunque non più accompagnati grazie a un accordo sindacale dagli ammortizzatori sociali al termine dell’età lavorativa, hanno litigato governi, partiti, sindacati e statistici; “Che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”: l’esodato come l’Araba Fenice, anzi peggio perché “nessun sa” quanti siano questi uccelli mitologici. Staremo poi a vedere se saranno capaci di risorgere dalle proprie ceneri, come narra le leggenda greca e prima ancora quella egizia. “Esodato” è un termine esclusivamente italiano, intraducibile in qualsiasi lingua. Costretti a vivere senza reddito, in solitudine, molti scelgono di impegnarsi nel volontariato, per fare qualcosa di utile e al tempo stesso combattere l’isolamento.

Una suora del Cottolengo, la Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino, racconta di come l’arrivo massiccio di ultracinquantenni licenziati e di esodati che chiedono di fare volontariato nella casa della carità stia creando qualche problema nel rapporto con i volontari storici e con i ricoverati. Il morale di “color che son sospesi” non fa bene al clima della struttura in cui ci sono svariate categorie di ammalati, alcuni dei quali non recuperabili a una vita normale. Il volontario deve dunque prestare le cure a persone che non hanno possibilità di migliorare, non rispondono agli stimoli e magari sono destinate a vivere per anni in uno stato di assenza e passività. Con la crisi è notevolmente cresciuto il numero di aspiranti volontari che cercano di dare un senso alla propria vita sospesa: nulla di male, anzi, potrebbero rappresentare potenziali risorse per il Cottolengo. Senonché succede che ad aver bisogno di essere accuditi sono i volontari stessi, che si portano addosso frustrazioni e un morale segnato dalla disperazione rischiando di dimenticare che sono lì per prestare cure ai malati, tanto sono presi dal bisogno di curare se stessi. Per questo la nostra suora, che insieme a un laico si occupa della gestione dei volontari, ha deciso di istituire dei corsi di formazione e sostegno psicologico per far capire ai nuovi arrivati, umiliati dalla mancanza di senso che accompagna la fine anticipata e non voluta del lavoro, che sono lì innanzitutto per mettersi a disposizione di persone malate, non per comunicare sofferenza.

Dunque, mi sono detto, andiamo a cercarli questi cinquantenni senza arte né parte, persone in carne e ossa sbianchettate e private di ogni forma e speranza di reddito dalle spietate performances della coppia Monti-Fornero. Speriamo che siano disposte a raccontarsi. E subito ho capito che la mia esperienza di giornalista di strada e di fabbrica andava sottoposta a profonda revisione: i lavoratori, vittime di una rottamazione forzata, hanno paura, provano un sentimento che nei conflitti del lavoro sembrava archiviato o almeno fortemente ridimensionato dopo le lotte e le conquiste sindacali e legislative seguite all’Autunno caldo del ’69. Invece questo sentimento oggi ritorna, veicolato da una controrivoluzione normativa e culturale che riporta le relazioni sindacali a un passato remoto. L’attacco ai diritti nel lavoro messo a punto dalla campagna avviata nel 2010 dall’amministratore delegato della Fiat – oggi Fca – Sergio Marchionne, con il diktat “o il lavoro o i diritti”, ha fatto strada più di quanto si sia percepito, diventando modello generale dell’impresa e della politica. E dire che persino a sinistra i fautori della sottomissione al ricatto di Marchionne sostenevano che Pomigliano avrebbe rappresentato un caso unico, irripetibile. Il diritto di licenziare riconsegnato dal governo Renzi agli imprenditori dopo 45 anni di democrazia, con gli attacchi a colpi di accetta allo Statuto dei cittadini lavoratori, ha colpito la dignità di chi lavora, o non lavora più, o non riesce a trovare o ritrovare un lavoro. Su un centinaio di lavoratori a cui ho proposto un’intervista, solo una minima parte si è detta disponibile a raccontarsi, almeno pubblicamente. Perché? Perché “non si sa mai”, “magari mi riprendono in azienda”, oppure “in questo territorio il mio ex padrone comanda su tutto, economia, politica e amministrazioni”; e ancora “se parlo male di quello lì mi si chiudono tutte le porte in faccia”, o più semplicemente “sono un operaio, non un eroe”. Nell’Italia del Jobs act bisogna essere un eroe per raccontarsi senza timori di ritorsioni?

Sul secondo gradino della paura ho trovato chi si è detto disponibile a mettere in comune la sua storia ma a condizione che gli venisse garantito l’anonimato. Persino alcune persone sindacalizzate, oppure riconoscibili come nel caso del responsabile aziendale della sicurezza di una cattedrale nel deserto, il colosso chimico di Ottana che ha chiuso i battenti senza aver provveduto al risanamento ambientale – oltre ai veleni chimici sono ancora stipate nei suoi magazzini pericolosissime fonti nucleari – hanno chiesto di non scrivere il loro nome. C’è infine un terzo livello che si traduce nella richiesta di rivedere il testo della conversazione per sottoporlo all’attenzione dell’avvocato che sta curando la vertenza legale contro il datore di lavoro.

Non è stato un lavoro semplice quello che sta a monte di queste pagine, ma sicuramente istruttivo. La paura si manifesta in mille forme, spesso accompagnata dalla consapevolezza che le scelte politiche degli ultimi governi, in sintonia con il leit motiv che rimbomba nei cieli degli altri Paesi occidentali, rischiano di scatenare una guerra tra poveri. È questo che si vuole, mettendo lavoratori contro altri lavoratori, divisi fra loro dal livello di precarietà, dall’età, dal sesso, dal colore della pelle. Alla base di tutto si colloca il mantra della fine della lotta di classe: il conflitto non dev’essere più verticale tra il basso e l’alto – tra capitale e lavoro – ma orizzontale, con i rematori di una nave da guerra che hanno come controparte non il capitano o l’armatore (“siamo tutti sulla stessa barca”, ci raccontano) bensì i rematori della nave nemica che vuole conquistare le stesse terre e gli stessi mari. Il sogno liberista è di ridurre i lavoratori alla stregua dei quattro capponi che Renzo portava da Azzeccagarbugli: legati tra di loro da Agnese con “le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago”. I quattro sventurati il cui destino era segnato, invece di beccare chi li stava portando a morte sicura si beccavano tra di loro. Dai capponi di Renzo ai polli di Renzi.

Il brano pubblicato è un estratto del primo capitolo del libro di Loris Campetti, Non ho l'età, Manni editore,192 pp, 15 euro (introduzione di Rossana Rossanda)

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