Home / Ultimi articoli / Quali alternative al neoliberismo?

facebook-link twitter-link

Newsletter

Registrati alla newsletter di sbilanciamoci.info

Ultimi articoli

Ultimi articoli nella sezione

08/12/2015
COP21, secondo round
di Lorenzo Ciccarese
03/12/2015
Lavoro, la fotografia impietosa dell'Istat
di Marta Fana
01/12/2015
La crisi dell’università italiana
di Francesco Sinopoli
01/12/2015
Parigi, una guerra a pezzi
di Emilio Molinari
01/12/2015
Non ho l'età
di Loris Campetti
30/11/2015
La sfida del clima
di Gianni Silvestrini
30/11/2015
Il governo Renzi "salva" quattro istituti di credito
di Vincenzo Comito

Quali alternative al neoliberismo?

29/08/2014

Nonostante la gravissima crisi in corso il campo delle teorie critiche non riesce a offrire un orientamento che metta in crisi l'egemonia culturale del neoliberismo

Nonostante la gravissima crisi attraversata dall'Europa e la fallacia delle ricette neoliberiste finora sperimentate in risposta, il campo delle teorie critiche si mostra incapace di offrire un solido orientamento di politica economica che metta in crisi l'egemonia culturale del neoliberismo e funga da guida per progettare una società egualitaria, inclusiva e sostenibile. Di conseguenza laddove un'ideologia culturalmente egemone non venga contrastata sul suo stesso terreno di teoria capace di dettare le agende, anche i tentativi di politiche alternative tendono a divenire timidi, inclini a mediare al ribasso e a piegarsi ai principi dominanti: l'Italia di Prodi/Padoa Schioppa o (peggio) di Renzi/Padoan ne sono solo alcuni esempi. Eppure i materiali culturali per sostenere la costruzione di un pensiero diverso a sinistra non mancherebbero: i grandi classici (da Smith a Ricardo a Marx) e i classici della dinamica dello sviluppo (ancora Marx, oltre a Keynes, e Schumpeter) continuano ad essere forieri di eccellenti spunti di analisi il cui livello scientifico e la cui capacità di lettura realistica del mondo sono senza dubbio superiori rispetto a quelli che per semplicità qui chiamiamo neoliberisti.

Detto questo, i motivi per cui ci troviamo in questa situazione di subalternità sono molteplici, ma due appaiono più significativi di altri:

  1. il pensiero mainstream è in grado senza dubbio di dispiegare una quantità di mezzi culturali tali da spingere verso la minorità le idee alternative: mezzi giornalistici, comunicativi, istruzione – si pensi ai manuali economici studiati nelle università, l'assenza dell'economia politica nelle scuole superiori... - l'insieme di questo fuoco di fila riduce progressivamente da almeno 40 anni lo spazio per pensieri diversi. Keynes aveva spesso torto quando pensava che la forza delle idee fosse più forte degli interessi costituiti e gli esperimenti di psicologia sociale di Solomon Asch dimostrano invece quanto le persone tendano ad adeguarsi ai comportamenti delle maggioranze (anche quando li percepiscono come errati);
  1. la dispersione delle teorie alternative in una grande pluralità di rivoli, molti dei quali portatori di analisi interessanti e affilate, ma poco coordinati e divisi nelle proposte. La litigiosità ideologica è tipica di chi si ponga un compito enorme come il cambiamento dell'ordine dominante (mentre chi difende i propri puri interessi materiali tende a dividersi meno sul piano delle idee), ma oggi, dato lo squilibrio di forze, si pone la necessità nella sinistra critica di un passaggio di paradigma dal mondo dell'aut/aut (per cui tutto ciò che non aderisce strettamente al mio pensiero mi è totalmente estraneo), al mondo dell'et/et in cui la valorizzazione dialogica degli elementi di somiglianza e di complementarità fra punti di vista diventi la base per un processo di costruzione cooperativa del sapere, delle teorie, delle proposte.

     

    Partendo da quest'ultimo punto ci pare di poter rintracciare fin da oggi un primo elenco di principi e di temi capaci di attrarre e rendere complementari (o dialoganti) posizioni finora molto differenziate. Ben sapendo che il primo che mette su carta un elenco di questo tipo inevitabilmente si attrae un sacco di osservazioni e di critiche, ci prendiamo il rischio e proviamo a procedere.

 

Sulla metodologia di analisi

A livello di principi generali con cui leggere la realtà ci pare che almeno due possano essere considerati centrali per opporsi positivamente alla lettura neoliberista:

1) il contrasto alle metodologie basate sull'individualismo economico il cui portato più recente si trova in frasi del tipo “lo Stato deve comportarsi come un buon padre di famiglia”, utilizzate abbondantemente per suggerire ricette di austerity. La differenza irriducibile tra analisi micro (riferite a singole imprese, singoli individui, singole famiglie) e analisi macro (riferite ad enti ben più complessi e interrelati quali lo Stato) è un presupposto indispensabile per qualunque teoria sociale critica;

2) La centralità del lavoro. Il lavoro è l'attività attraverso la quale gli esseri umani modificano l'ambiente per rispondere ai propri bisogni individuali e sociali (trasformando pezzi di legno grezzi in tavoli e sedie, trasformando metalli in parti di computer etc.). Poiché quasi nessun essere umano è in grado di prodursi autonomamente tutto quanto soddisfa i suoi bisogni, le persone entrano in relazione acquisendo (spesso in cambio di denaro) pezzi di lavoro altrui. Nel capitalismo questo processo ha subito un enorme potenziamento e le produzioni lavorative industriali scambiate via denaro sono diventate la base grandemente predominante della creazione di valore economico, agganciando intorno ad esse servizi sempre più sofisticati. Tutto questo per dire che il tema del lavoro non è riducibile alla sua componente sindacale in senso stretto, ma in quanto processo cooperativo di trasformazione della natura per soddisfare bisogni umani il lavoro resta pur sempre il nodo centrale di ogni progetto progressista di cambiamento socio economico.

Sui problemi della domanda e dell'offerta

Spesso gli economisti utilizzano un linguaggio apodittico e i due termini di cui si discuterà non hanno significato univoco; in questo scritto quando ci si riferisce al problema della domanda si intende la necessità di avere una domanda aggregata (ossia composta dalla somma della domanda di famiglie, imprese, Stato, acquirenti esteri) sufficiente a stimolare la produzione. Gli ambiti entro i quali è possibile dare una risposta progressista al problema della domanda potrebbero essere principalmente due:

  • la lotta alla diseguaglianza, non solo in quanto fattore di iniquità sociale, ma anche come produttrice di distorsioni rispetto all'efficienza economica (la diseguaglianza riduce la domanda aggregata, sfavorendo la propensione marginale al consumo). Qui i terreni di azione concreti possono essere molti: un diverso sistema fiscale, una diversa politica del mercato del lavoro etc.
  • la ridistribuzione sociale degli aumenti di produttività: anche laddove la produzione venisse acquistata da una domanda aggregata sufficiente il continuo aumento di produttività (frutto del progresso tecnologico) tenderebbe spontaneamente a mettere in moto effetti sociali negativi traducendosi in licenziamenti, o in puro aumento di profitti. É quindi fondamentale prospettare politiche redistributive dei guadagni di produttività, indirizzate sia verso l'aumento di reddito delle classi popolari e medie, sia verso l'aumento dei servizi sociali e culturali disponibili, sia infine verso una suddivisione equa del lavoro rimasto, attraverso politiche di riduzione di orario.

    Per problema dell'offerta si intende invece principalmente il dibattito sul cosa e come produrre ed offrire (a livello di sistema industriale, agricolo etc.). Anche qui i temi da porre al dibattito possono essere almeno un paio, entrambi di grosso peso strategico:

  • La necessità di un indirizzo pubblico di politica economica che orienti il sistema nazionale verso una produzione industriale innovativa, capace di anticipare i bisogni/consumi futuri di imprese e famiglie.
  • Il contemporaneo contrasto a rendite e speculazioni. Occorre porre severi vincoli legislativi a livello europeo alle speculazioni finanziarie (che sono un effetto e una causa della crisi della produzione industriale), ed occorre scoraggiare ogni forma di monopoli/oligopoli di rendita – cosa ben diversa dai monopoli naturali.

     

Come forse si noterà i problemi della domanda e dell'offerta hanno spesso profili complementari (una produzione industriale innovativa tende ad offrire posti di lavoro meglio remunerati, un contrasto alla speculazione finanziaria per mezzo di tasse dissuasive tende a produrre un'entrata che può essere destinata a servizi sociali, etc.) per cui mal si giustifica l'incomunicabilità tra gli studiosi dei due campi.

Oltre il progressismo

Le proposte indicate non hanno nulla di rivoluzionario e si limitano a porre alcuni indirizzi compatibili con le migliori tradizioni del liberalismo progressista, crediamo pertanto che nessuno nel campo della sinistra critica sia contrario a priori ai suggerimenti citati, al limite il terreno di discussione/divisione si può collocare sugli ordini di priorità e sul livello di profondità degli interventi.

Il campo si fa più accidentato e conflittuale quando invece si muovono passi ulteriori verso un'economia che si distacchi più nettamente dal capitalismo. La discussione è comunque estremamente interessante e niente affatto incompatibile con le proposte citate in precedenza. Anche qui i temi da suggerire potrebbero essere molti, ma per semplicità ci limiteremo a due argomenti di discussione:

  • Cosa è socialmente utile produrre? La domanda è importantissima soprattutto laddove si ricordi la centralità del lavoro non solo come fonte del valore economico, ma anche come strumento necessario e insostituibile per rispondere ai bisogni collettivi. Con queste premesse il tema dell'innovazione industriale diviene più complesso: per quanto una capacità sistemica di anticipazione dei bisogni sia un valore in termini di efficienza economica, in termini sociali non è indifferente stabilire verso quali bisogni orientarla e con quali strumenti guidarla (sappiamo ad esempio che il settore militare produce abbondanti ricadute di innovazione, ma orientare prioritariamente la ricerca verso altri settori, ad esempio la tutela ambientale, non è un compito socialmente più desiderabile? E se lo è quanto di questo compito deve essere affidato allo Stato? )
  • Esiste il diritto effettivo di scegliersi il lavoro? Se ancora la riduzione di orario lavorativo è uno strumento di efficienza socio economica (assicura una migliore allocazione delle risorse, aumenta la domanda aggregata fornendo reddito a una quantità maggiore di persone, migliora la qualità della vita...), non sarebbe compito di una società più avanzata offrire alle persone non solo una minore quantità di lavoro obbligato, ma anche la possibilità di scegliersi un impiego soddisfacente (e se si accetta questo presupposto è difficile non discutere di reddito universale incondizionato, di riforme profonde del sistema dell'istruzione etc.)

    L'invito ai lettori è quello di non concentrarsi solo sulle singole proposte, quanto nuovamente sull'invito iniziale ad un lavoro di cooperazione intellettuale che ponga le basi per un'idea complessiva di politica economica sulla quale possa valere la pena mobilitare forze sociali, politiche ed intellettuali.

 


 

 

La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: old.sbilanciamoci.info.
Vuoi contribuire a sbilanciamoci.info? Clicca qui

Commenti