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Italia, è ritornata l’eurocrisi

11/04/2013

I conti italiani peggiorano, la recessione si aggrava, il vuoto politico complica tutto. Dopo il pasticcio di Cipro, la crisi europea torna alla ribalta a Madrid e Roma, con banche fallite e debito che cresce

Ieri il governo Monti ha annunciato che per il 2013 prevede un rapporto deficit/Pil al 2,9% e debito/Pil al 130,4%; con la recessione destinata a durare per tutto l’anno, la precarietà dei conti italiani torna in primo piano. Il presidente di Confindustria Squinzi afferma che il vuoto di governo costa all’Italia un punto di Pil, 16 miliardi di euro, e ieri sono arrivati, puntuali, i moniti dalla Commissione europea che, nel rapporto sugli squilibri macroeconomici, ricorda che "il debito elevato resta un grave problema dell'Italia” e che “permane quindi il rischio di contagio al resto della zona Euro se si dovesse intensificare nuovamente la pressione sul debito italiano".

È un brusco risveglio: all’indomani della crisi di Cipro ci accorgiamo che la minaccia di crisi finanziaria è sempre con noi. Eppure, dopo le dichiarazioni rassicuranti di Mario Draghi dello scorso anno (“faremo qualunque cosa sia necessaria per mantenere in vita l’euro”) e l’accondiscendente reazione dei mercati finanziari, in molti avevano pensato che la crisi dell’euro fosse superata. I più ottimisti pensavano che non c’era che da attendere ancora le elezioni tedesche del prossimo settembre, dopo le quali sarebbe stato possibile procedere con l’unione bancaria e con quella fiscale, superando così i problemi. Cipro ha rimesso tutto in discussione, l’Italia e la Grecia restano problemi irrisolti e nei prossimi mesi potrebbe scoppiare il caso Slovenia, dove il sistema bancario e il bilancio pubblico sono in pessime acque.

Il personaggio che ha fatto più parlare di sé nel corso della crisi di Cipro è stato il ministro olandese delle finanze, Jeroen Dijsselbloem, responsabile anche dell’eurogruppo. Nei giorni della crisi ha dichiarato che, mentre prima erano i soldi pubblici che salvavano le banche (nei casi di Irlanda e Spagna) d’ora in poi dovranno essere gli investitori privati, compresi i portatori di obbligazioni e i depositanti non assicurati, a dover pagare il conto delle crisi bancarie.

Le dichiarazioni del ministro e le decisioni prese nel caso cipriota hanno riaperto l’incertezza e potrebbero causare seri sbandamenti nell’edifico dell’euro. Chi ha depositi superiori a 100.000 euro presso una banca chiederà tassi di interesse più alti per coprire il maggiore rischio, visto che a Cipro sono stati effettuati prelievi dai conti correnti superiori a quella cifra. Questo peserà in particolare in quei paesi come l’Italia in cui i tassi sono già molto più elevati che nei paesi del nord. Nel nostro paese, come in Gran Bretagna, solo il 20% circa dei depositi risultano assicurati. Come ha scritto Lex sul Financial Times del 6 aprile, il costo per le banche europee potrà essere intorno ai 10 miliardi di euro l’anno, circa il 6% degli utili netti.

Sullo stesso giornale Wolfang Munchau (in tre articoli del 24 e 31 marzo e del 7 aprile) ha sottolineato che la decisione di coinvolgere azionisti, obbligazionisti e depositanti non assicurati nel fallimento delle banche di Cipro sarebbe stata logica se l’eurozona avesse avuto un’unione bancaria. Non ci sarebbe stata allora alcuna “corsa agli sportelli” poiché le banche sarebbero state assicurate a livello centrale. Tuttavia, con ogni paese che rimane responsabile del proprio sistema bancario, Cipro non aveva altra scelta che di imporre, come ha fatto, controlli sui movimenti di capitale, riducendo così di molto la libertà di movimento dei depositanti. Tale mossa, destinata a restare a lungo, crea di fatto un euro di “serie B” – come ha sottolineato l’Economist – e spinge i depositanti a portare i soldi fuori dai paesi a rischio. Se Cipro prende una quota dei depositi, con l’assenso dell’Europa, perché non dovrebbero farlo in futuro Spagna e Italia?

Per quanto riguarda la Spagna, Munchau ricorda che, a parte i due istituti più grandi del paese, il sistema bancario è in stato di fallimento, anche dopo le recenti modeste iniezioni di capitale. Non è più quindi la bolla immobiliare al centro delle preoccupazioni, ma il fatto che, date le attuali politiche di austerità, la depressione dell’economia durerà per almeno un decennio e il collasso delle banche finirà per essere pagato anche da obbligazionisti e depositanti: le garanzie dello stato sui depositi finirebbero per far fallire lo stato stesso. L’Italia non è in condizioni migliori. Un debito pubblico al 130% del Pil è sostenibile solo con una crescita di almeno il 2%, oggi impensabile. E con due anni di recessione il rapporto potrebbe arrivare al 140% – come segnala Carlo Bastasin, sul Sole 24 ore del 5 aprile. La conclusione che si prospetta sulla base di queste analisi è l’insolvenza sul debito pubblico, restando all’interno della zona euro, oppure l’uscita dalla moneta unica.

Certo, la crisi di paesi come Spagna e Italia potrebbe arrivare tra qualche anno – l’eurozona ha mostrato di saper usare le tattiche dilatorie – ma potrebbe essere evitata solo con misure radicali, su cui convergono ormai varie voci della grande stampa finanziaria: una vera unione bancaria; una mutualizzazione – anche limitata – del debito pubblico a livello europeo; una fornitura diretta di credito alle imprese da parte della Bce (o della Banca europea degli investimenti: ora le medie imprese italiane pagano interessi bancari del 10%, il doppio che in Germania). Ma, in particolare per l’Italia, è necessario un rapido intervento della politica, che riesca a far uscire l’economia dalla recessione e avviare un nuovo sviluppo. Tutto questo è assai poco probabile che si realizzi, ma le conseguenze delle mancate azioni potrebbero essere drammatiche.

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