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Cheap China addio, le nuove sfide di Pechino

11/10/2013

Il rallentamento cinese segnala il tentativo di passare da un modello basato sulla produzione di merci a basso prezzo ad uno fondato su qualità, innovazione e ricerca

Da qualche tempo l’economia cinese rallenta la sua corsa. Dopo che per trent’anni il tasso di sviluppo medio del pil si era collocato intorno al 10%, con delle punte che in un anno erano arrivate sino al 14% ed oltre, il 2012 segna una crescita “solo” del 7,8% e il 2013 dovrebbe registrare, forse a fatica, un 7,5%.

Parallelamente, si fanno sentire ancora una volta, come ormai da una trentina di anni, molte voci che profetizzano l’imminente crollo del sistema. Nel frattempo il governo ha evitato di sostenere la crescita con misure di stimolo rilevanti come aveva invece fatto nel 2008, quando una forte iniezione di risorse aveva fatto di nuovo decollare un’economia che sembrava avviata ad un notevole rallentamento.

Perché la frenata

Le ragioni dell’attuale frenata sono per la gran parte di origine interna più che internazionale, apparentemente peraltro più frutto delle deliberate politiche del governo che delle forze del mercato.

In relazione ai problemi più immediati, la riduzione nei tassi di crescita va messa in relazione allo sforzo dell’amministrazione di rallentare una bolla immobiliare che si andava formando soprattutto nelle grandi città, di mettere sotto controllo un’inflazione che minacciava di debordare e un sistema finanziario che stava allargando eccessivamente le maglie del credito.

Potrebbe sembrare che il rallentamento sia di tipo congiunturale e che il paese possa tornare nell’immediato futuro a crescere come nel periodo precedente. Ma, in realtà, una serie di ragioni fanno pensare che esso possa anche essere ormai un dato abbastanza permanente.

Intanto la frenata è da attribuire anche alla estrema difficoltà di governare adeguatamente una crescita che aggiungeva ogni anno all’economia una quantità di pil pari grosso modo a quello complessivo di un paese come l’Italia.

Per altro verso, il paese sta in questi anni cercando, con qualche difficoltà, di cambiare per la gran parte il suo modello di sviluppo rendendolo più sostenibile nel lungo termine; in effetti, secondo le stesse parole di Wen Jiabao, già primo ministro, quello cinese è “instabile, squilibrato, male coordinato e insostenibile”.

La Cina sta sforzandosi di passare da un modello basato sugli investimenti e le esportazioni ad uno basato ancora sugli investimenti (ma a livelli più moderati di prima) e soprattutto sui consumi interni; da un modello che aveva al centro il settore industriale ad uno che vede una progressiva crescita di quello dei servizi; da un modello basato sulla produzione di merci a basso prezzo ad uno in cui si mettono in campo prodotti a valore aggiunto sempre più elevato, con un sistema fondato sulla qualità, l’innovazione, la ricerca; da un modello in cui la crescita era basata sui bassi salari e sull’abbondanza della manodopera, ad uno in cui la manodopera si fa più rara soprattutto nelle zone costiere ed essa costa sempre di più; da un modello centrato sullo sviluppo costiero ad uno in cui gli insediamenti industriali sono sempre più collocati anche verso l’interno del paese; ancora, inoltre, con la necessità di portare avanti la costruzione di uno stato sociale di almeno sufficiente spessore, con quella di governare un inquinamento ormai insostenibile, con quella di disporre di un sistema finanziario molto più sofisticato di prima e di combattere infine efficacemente la corruzione.

È finita ormai l’epoca della cheap china, come riassume in poche parole qualcuno.

Per altri versi si tratta di governare adeguatamente un’economia che ormai tende a diventare la più importante del pianeta. Per il National Conference Board quella cinese avrebbe già superato quella statunitense come dimensioni del pil, mentre per il Fondo Monetario Internazionale dovrebbe farlo entro il 2016 e per altri esperti bisognerebbe aspettare qualche anno in più. Ma ormai ci siamo.

Le difficoltà del cambiamento

Il passaggio da un modello ad un altro non appare facile e presenta indubbiamente diverse difficoltà, sia sul piano “tecnico” che su quello “politico”, anche se non appare possibile separare nettamente i due piani.

Sul primo aspetto, ricordiamo come, di fronte ad un certo andamento riflessivo delle esportazioni, gli investimenti negli anni abbiano acquisito un peso ancora più rilevante. La loro crescita è stata spinta da un forte aumento del credito, mentre ha prodotto peraltro molti sprechi.

Incidentalmente, va sottolineato che il rapporto tra il livello del credito totale al sistema e il pil è passato dal 115% del 2008 al 173% nel 2012 (Davies, 2013), con uno sviluppo molto sostenuto.

Oltre agli investimenti in eccesso, la crescita del credito ha portato ad un forte aumento dei prestiti dubbi, che oggi, secondo alcune fonti, potrebbero ammontare al 20% del pil. Peraltro, tale crescita non ha portato tutti i frutti sperati sullo sviluppo dell’economia, al contrario che nel 2008.

Un freno all’aumento del credito potrebbe portare però ad un forte diminuzione degli investimenti; tale diminuzione non sarebbe adeguatamente compensabile, se non con il tempo, dalla crescita dei consumi. Essi sono in parte ancora oggi frenati, nella loro crescita pur evidente, dalla diseguale distribuzione dei redditi e dalla conseguente carenza di potere di acquisto della gran parte dei cinesi, oltre che dai buchi dello stato sociale, ciò che induce gli abitanti a risparmiare in maniera molto elevata.

Per altro verso, la caduta degli investimenti potrebbe portare ad una diminuzione dei profitti delle imprese, con conseguenze negative su vari fronti. Ancora, se gli enti locali e le imprese statali smettessero di investire tanti soldi in nuovi edifici e in nuove strade, ponti ed uffici, l’economia potrebbe fermarsi.

L’ideale sarebbe di arrivare comunque a consumi che incidano sino al 60-65% del pil,vicini quindi a quelli dei paesi più ricchi e ad investimenti che si ricompongano intorno al 35%-40% del pil. Questo cambiamento comporterebbe naturalmente una diversa distribuzione del reddito nazionale, con una diminuzione dell’incidenza dei profitti ed un aumento di quella dei salari.

Sul fronte più “politico”, per governare il settore finanziario e indirizzarlo ai nuovi compiti il governo si scontrerebbe con gli interessi delle grandi imprese pubbliche e delle grandi banche; nell’accrescere eventualmente il livello dell’imposizione fiscale, per sostenere un miglioramento del sistema del welfare e le spese per l’ambiente, il governo si dovrebbe confrontare con gli interessi delle classi più agiate; i nuovi orientamenti del potere centrale urterebbero in parte con gli interessi della periferia; una seria lotta alla corruzione incontrerebbe ancora le resistenze dei ceti privilegiati. E così via.

Sembra anche potersi intravedere, intanto, una tendenza ad un maggior affidamento alle forze del mercato, ciò che di nuovo risveglia dei forti interessi contrari.

Ricordiamo a questo proposito, tra l’altro, l’esperimento di Shangai, appena avviato al momento della stesura di queste pagine e i cui contorni precisi non appaiono peraltro ancora chiari. Si tratta comunque della creazione di una zona franca nella grande città costiera, caratterizzata apparentemente da una piena libertà di commercio, dall’abbattimento di tutte le barriere alla fissazione dei tassi di interesse attivi e passivi, dalla libertà di movimento dei capitali, dalla convertibilità della moneta. Solo in un prossimo futuro sarà possibile capire i contorni reali di tale iniziativa.

Sia sul fronte politico che su quello tecnico i problemi quindi da affrontare appaiono molto rilevanti.

Una visione pessimistica delle cose

È sottolineando forse eccessivamente i problemi che la classe dirigente del paese ha di fronte che qualcuno ha in mente una visione molto meno ottimistica della situazione. Così, ad esempio, E. Chancellor (Chancellor, 2013) trova delle similarità tra il blocco dello sviluppo giapponese negli anni novanta e quello attuale della Cina. Sia il Giappone che la Cina hanno adottato per l’autore il cosiddetto modello di crescita “asiatico”, consistente nel suscitare lo sviluppo economico attraverso alti livelli di investimento e le esportazioni. Le imprese industriali sono agevolate con capitale abbondante e a buon mercato, mentre le esportazioni sono aiutate con un tasso di cambio basso, ciò che rende anche difficoltose le importazioni. Si incoraggia il risparmio a scapito dei consumi.

Questo modello tende però con il tempo, per Chancellor, a generare investimenti in eccesso, bassa domanda, bolle del credito e del settore immobiliare, cattiva allocazione del capitale. Gli eccessi di risparmio cinesi sono stimati dall’autore come pari al 10% del pil, contro quelli del Giappone che avevano raggiunto al massimo il 4%. Gli investimenti sono arrivati al 50% del pil, quasi il doppio che in Giappone, mentre il livello dei consumi è sceso ad un terzo del pil.

È difficile secondo Chancellor riuscire a smontare questo modello in maniera ordinata. Nel caso giapponese questo è avvenuto con un collasso negli investimenti e nello sviluppo economico, piuttosto che con una crescita nella spesa per consumi. Anche il sistema del credito cinese appare fragile come quello giapponese nei tardi anni ottanta. In ambedue i casi il credito veniva distribuito secondo connessioni politiche o secondo le linee della politica industriale. Il Giappone e la Cina hanno socializzato il rischio finanziario e le perdite sui crediti bancari sono state nascoste sotto il tappeto. Sarà molto difficile, secondo Chancellor, ribilanciare l’economia cinese. Dopo la crisi il Giappone è passato attraverso due decenni di stagnazione e la Cina sarà fortunata ad evitare tale destino.

Conclusioni

Chi scrive, e non è il solo, appare invece ragionevolmente ottimista sullo sviluppo degli eventi.

Il gruppo dirigente cinese ha saputo superare in passato difficoltà anche più forti di queste. Ricordiamo, ad esempio, le grandi trasformazioni ed i grandi sviluppi degli ultimi 35 anni. In pochi decenni 600 milioni di persone sono uscite dalla povertà e 500 milioni di abitanti si sono trasferiti dalla campagna alla città. Negli ultimi anni il renmimbi è stato rivalutato fortemente nei confronti del dollaro e delle altre valute, mentre il costo del lavoro è cresciuto a ritmi molto elevati. Tutte queste ed altre importanti novità sono state gestite in maniera adeguata dalla classe dirigente del paese.

Per altro verso, la disponibilità di vaste risorse finanziarie, nonché di opportunità di sviluppo molto importanti (si pensi alle necessità legate al trasferimento di altre 300 milioni di persone dalle campagne alle città nei prossimi anni) sono alcuni degli atout che il paese può mettere in campo.

Ma, naturalmente, solo gli eventi futuri mostreranno come saranno andate veramente le cose.

 

Testi citati nell’articolo

-Chancellor F., Graveyard for investments white elephants, The Financial Times, 5 agosto 2013

-Davies G., China faces a difficult credit bubble work out, www.ft.com, 8 luglio 2013

 


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