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La crisi di legittimazione della Ue

06/07/2015

La crisi finan­zia­ria si è via via tra­sfor­mata in una crisi demo­cra­tica di legit­ti­mità delle isti­tu­zioni della unione stessa. E un gruppo di decisori chiuso, autoreferenziale e non democraticamente controllato ha assunto un peso sempre maggiore a livello anche domestico

Movi­menti sociali hanno da tempo espresso il loro soste­gno per un’altra Europa. Il loro quasi una­nime soste­gno al No alle pro­po­ste della Troika al refe­ren­dum in Gre­cia dice molto delle ripe­tute fru­stra­zioni della spe­ranza di costruire una Europa sociale e dal basso. Infatti, le pro­te­ste con­tro l’austerity hanno affer­mato, sem­pre più chia­ra­mente ed espli­ci­ta­mente, che l’evoluzione dell’Europa sta andando nella dire­zione oppo­sta: sem­pre più un’Europa dei mer­cati (finan­ziari) e sem­pre più una Europa in cui isti­tu­zioni non respon­sa­bili demo­cra­ti­ca­mente fanno ricorso al ricatto e alla paura per imporre deci­sioni impo­po­lari. La loro dia­gnosi sulle respon­sa­bi­lità della UE con­verge con i risul­tati di molte ricer­che recenti che indi­cano come la crisi finan­zia­ria si sia tra­sfor­mata in una crisi demo­cra­tica di legit­ti­mità delle isti­tu­zioni della unione stessa.

Innan­zi­tutto, la crisi è stata affron­tata a livello euro­peo attra­verso l’imposizione di deci­sioni da parte di isti­tu­zioni sem­pre meno trasparenti – il par­la­mento ha visto la sua visi­bi­lità ridursi fino a scom­pa­rire men­tre hanno acqui­stato potere buro­cra­zie e gruppi infor­mali (dalla Banca Cen­trale Euro­pea alle varie isti­tu­zioni eco­no­mi­che e finan­zia­rie), poco con­trol­la­bili demo­cra­ti­ca­mente e addi­rit­tura in alcuni casi privi di regole di fun­zio­na­mento interno. Un gruppo di deci­sori chiuso, auto­re­fe­ren­ziale e non demo­cra­ti­ca­mente con­trol­lato ha assunto via via mag­gior peso a livello non solo euro­peo, ma anche locale, accre­scendo il defi­cit demo­cra­tico. La Banca cen­trale Euro­pea, voluta indi­pen­dente da con­trolli demo­cra­tici, e le tec­no­cra­zie Ecfin, vin­co­late a visioni mone­ta­ri­ste hanno acqui­sito enorme potere gra­zie alla capa­cità di deci­dere se creare moneta e come distribuirla.

Deci­sioni, prese in modo ben poco tra­spa­rente, sono state poi impo­ste su governi demo­cra­ti­ca­mente eletti, che hanno così perso sovra­nità. Ciò è avve­nuto soprat­tutto in Irlanda, Por­to­gallo, Gre­cia e Cipro, costrette a fir­mare, in cam­bio di pre­stiti, memo­randa con det­ta­glia­tis­sime indi­ca­zioni sulle poli­ti­che di auste­rità da adot­tare. Ma come è avve­nuto anche in Ita­lia e Spa­gna, che pur non essendo entrate in pro­ce­dure di pre­stito straor­di­na­rie, sono state costrette a una ade­sione pre­ven­tiva a dure misure di ridu­zione della spesa pub­blica, attra­verso piani di tagli al wel­fare, dere­go­la­men­ta­zione del mer­cato del lavoro, pri­va­tiz­za­zioni e tas­sa­zione indiretta.

Nel pro­cesso di gestione della crisi, la UE ha ulte­rior­mente ristretto la dia­let­tica demo­cra­tica tra governo e oppo­si­zione, espli­ci­ta­mente richie­dendo che – come in Irlanda o Portogallo – tutti i par­titi prin­ci­pali accet­tas­sero le misure di auste­rità impo­ste loro in cam­bio di pre­stiti. Nella stessa dire­zione, la Ue ha favo­rito governi così detti tec­nici (come in Ita­lia e Gre­cia) soste­nuti da grandi coa­li­zioni, con l’effetto di una crisi pro­fonda di interi sistemi di par­tito, inca­paci ormai di rap­pre­sen­tare i loro cit­ta­dini e inca­paci al tempo stesso di poli­ti­che efficaci.

Le poli­ti­che orien­tate al libero mer­cato con­tro misure di pro­te­zione sociale sono state inol­tre impo­ste con un espli­cito rifiuto di un nego­ziato equo tra le parti sociali. Sotto la minaccia – spesso esa­ge­rata ad arte – di un default, è stato chie­sto infatti ai sin­da­cati di accet­tare poli­ti­che di libe­ra­liz­za­zione e dere­go­la­men­ta­zione, che affer­mano una logica di mer­cato in aree prima pro­tette. Quando i sin­da­cati si sono oppo­sti, l’indicazione delle isti­tu­zioni euro­pee ai governi nazio­nali è stato di pro­ce­dere senza e con­tro i rap­pre­sen­tanti dei lavo­ra­tori. In que­sto senso, la Ue è inter­ve­nuta rispetto al potere dei vari gruppi e classi, pre­mendo per poli­ti­che ostili sia ai lavo­ra­tori che ai ceti medi.

In que­sto pro­cesso, dalle poli­ti­che mone­ta­rie il potere deci­sio­nale delle isti­tu­zioni euro­pee si è sem­pre più esteso alle poli­ti­che finan­zia­rie e, quindi, a quelle sociali. Non a caso, tra­sfor­ma­zioni isti­tu­zio­nali emerse durante la crisi, ma desti­nate ad avere effetto di forte limi­ta­zione sulla spesa sociale nel lungo periodo, sono andate nella dire­zione di accre­scere il potere di impo­si­zione di pro­bità fiscale, attra­verso un con­trollo non solo sul rag­giun­gi­mento di alcuni para­me­tri, ma anche sui modi con cui rag­giun­gerli. In que­sta dire­zione sono andate le misure con­te­nute nei così detti Six-Pack, Fiscal Com­pact e Two-Pack che hanno aumen­tato enor­me­mente le capa­cità di con­trollo e imple­men­ta­zione delle isti­tu­zioni euro­pee verso gli stati mem­bri, a pre­scin­dere dalle loro con­di­zioni eco­no­mi­che e di bilan­cio. Così, nel dicem­bre 2011, il Six-Pack ha accre­sciuto la esten­sione e la forza del con­trollo così come il potere di san­zione verso gli stati mem­bri, spe­cial­mente se appar­te­nenti alla Euro­zona. Nel 2012, il Fiscal Com­pact ha impo­sto misure ancora più strin­genti, incluso l’obbligo per gli stati mem­bri di discu­tere con com­mis­sione e con­si­glio euro­peo ogni mag­giore riforma di policy con poten­ziali effetti sul bilan­cio pub­blico. Infine, nel 2013, il Two-Pack, ha ulte­rior­mente accre­sciuto la capa­cità di sor­ve­glianza ed imple­men­ta­zione, attra­verso tra l’altro una sor­ve­glianza pre­ven­tiva dei bilanci nazio­nali da parte di Ue e Euro gruppo.

Que­sti svi­luppi non solo hanno effetti sui movi­menti sociali in tempo di auste­rità ma rischiano anche di rima­nere sfide per­ma­nenti alle domande di poli­ti­che sociali anche in futuro. Se i piani di aggiu­sta­mento strut­tu­rale nel sud del mondo erano pre­sen­tati come tem­po­ra­nei, la svolta verso una Ue sem­pre più orien­tata al mer­cato e sem­pre meno ai diritti dei cit­ta­dini dell’Unione è stata strut­tu­rata in pro­ce­dure deci­sio­nali e isti­tu­zioni desti­nate a durare. Que­sto vuol dire anche che, se 15 anni fa, la Ue pre­sen­tava per i movi­menti sociali pro­gres­si­sti un misto di oppor­tu­nità e sfide, che pre­mia­vano stra­te­gie di pres­sione mul­ti­li­vello, oggi e per un pre­ve­di­bile futuro le isti­tu­zioni euro­pee diven­tano un tar­get ine­vi­ta­bile quanto dif­fi­cile da influen­zare piut­to­sto che un poten­ziale alleato. La con­sa­pe­vo­lezza di que­sta evo­lu­zione può spie­gare per­ché, men­tre all’inizio della grande reces­sione la pro­te­sta era rima­sta pre­va­len­te­mente dome­stica, la mobi­li­ta­zione per un No al refe­ren­dum in Gre­cia si è espressa in tutta Europa. Se sicu­ra­mente le pro­te­ste sono state mosse da soli­da­rietà verso le sof­fe­renze del popolo greco, vi è però anche una cre­scente con­sa­pe­vo­lezza della impor­tanza di que­sta bat­ta­glia per la giu­sti­zia e la dignità di tutti i cit­ta­dini europei.

il manifesto 6 luglio 2015

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