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Fiscal compact: un problema di democrazia

29/06/2014

Dietro la facciata di di previsioni economiche “oggettive”, si celano spazi di discrezionalità amplissimi e zone grigie, dove il controllo democratico è assente

Il “patto di stabilità e crescita”, come noto, impone vincoli ai disavanzi degli Stati membri dell’Unione Europea e obblighi di riduzione dello stock del debito. È opinione piuttosto diffusa che questi impegni siano insensati e, soprattutto, insostenibili; peraltro, nelle pieghe del “patto di stabilità” vi sono alcuni margini di flessibilità che potrebbero addolcire la amara pillola dell’austerity di marca europea. Questi margini di flessibilità, però, sono tutt’altro che trasparenti e sollevano un serio problema di democrazia. Per capirlo, occorre addentrarsi nei meandri tecnici del patto di stabilità.

Come in un gioco di specchi, il “patto di stabilità” si sdoppia in due atti diversi e intrecciati tra loro. Quello comunemente chiamato “fiscal compact” è un trattato internazionale, non un atto normativo dell’Unione Europea, e lega dal 2012 quasi tutti gli Stati membri, tranne il Regno Unito e la Repubblica Ceca (la quale ha però dichiarato di recente l’intenzione di aderire). Il secondo “patto di stabilità”, invece, è un complesso di norme contenute nel Trattato e in alcuni regolamenti, resi più stringenti nel 2011, in cui è contenuto anche il parametro di riferimento per calcolare il deficit massimo per ciascuno Stato Membro cui rinvia anche il fiscal compact (1) (l’“obiettivo di bilancio a medio termine”).

La definizione puntuale dell’obiettivo di bilancio a medio termine per ciascuno Stato membro è rimessa al Consiglio e per l’Italia tale obiettivo è il pareggio di bilancio “in termini strutturali”. Sul piano del debito pubblico, invece, il fiscal compact prevede che gli Stati membri che abbiano un rapporto debito/PIL superiore al 60% debbano ridurlo di 1/20 all’anno. Si tratta di un obiettivo difficile da realizzare, almeno nelle condizioni attuali di bassa crescita e (relativamente) bassa inflazione. Nelle pieghe del trattato, però, troviamo un singolare rinvio all’art. 2 di uno dei regolamenti del “patto di stabilità” comunitario (2), in cui si dice, tra l’altro, che il ritmo di riduzione del debito può variare tenendo conto di fattori di vario genere, con un giudizio dato caso per caso dalla Commissione, secondo una “valutazione globale equilibrata”. Tra gli elementi di cui la Commissione può tenere conto spiccano “l’influenza del ciclo economico sul ritmo di riduzione” e l’attuazione di politiche di crescita “in una strategia comune della UE”.

Consiglio e Commissione, quindi, sono chiamati a fare valutazioni e a prendere delle decisioni che impattano direttamente sui limiti di spesa dei singoli stati e sul ritmo di riduzione del debito pubblico. Il problema maggiore, però, non risiede nella trasparenza e nella legittimazione democratica delle istituzioni comunitarie, ma nelle grandezze economiche che stanno alla base delle loro valutazioni. In altri termini: il problema politico si nasconde dietro a una questione cognitiva.

Il patto di stabilità, infatti, ruota attorno al concetto di deficit (o avanzo) “strutturale”, ossia una valutazione che tenga conto del ciclo economico. Per calcolare l’impatto del ciclo occorre sottrarre dal Pil potenziale di un certo paese, ossia il Pil che quel paese avrebbe se tutti i fattori produttivi fossero utilizzati al massimo e senza creare inflazione, il suo Pil effettivo (c.d. output gap). Il Pil potenziale, a sua volta, è inversamente correlato alla disoccupazione strutturale di un certo paese, la quale potrebbe essere calcolata in base a diversi parametri e secondo diverse metodologie, che implicano tutte un certo grado di discrezionalità e soggettività (3).

Ma chi compie queste valutazioni che hanno impatti importanti sulle capacità di spesa dei governi nazionali? Il criterio per calcolare il Pil potenziale viene approvato dall’ECOFIN e viene periodicamente discusso e rivisto, con la cooperazione del Comitato di Politica Economica (CPE), che dal 1974 coadiuva il Consiglio fornendo analisi e valutazioni economiche. Il CPE è composto da tecnici di ciascuno Stato Membro, in maniera tale che le decisioni, anche quelle apparentemente tecniche, siano fornite di una qualche, sia pur blanda e indiretta, legittimazione politica. Il CPE, a sua volta, ha costituito sette gruppi di lavoro, composti da economisti esperti di specifici settori, tra cui vi è l’Output Gap Working Group, che si occupa specificamente dei criteri per calcolare l’output gap, che vengono periodicamente rivisti. L’anno scorso, ad esempio, i criteri di calcolo dell’impatto del ciclo sul Pil sono stati cambiati, anche se questo non dovrebbe produrre effetti significativi sul calcolo della componente ciclica, ma solo sul calcolo separato di entrate e uscite strutturali (4). Sta di fatto che qualsiasi variazione dei criteri di calcolo proposta dall’Output Gap Working Group e poi approvata dal CPE e dal Consiglio, potrebbe avere un impatto sui limiti di spesa che i singoli governi hanno a disposizione, come lo stesso DEF ammette.

Formalmente, non si tratta di scelte politiche, ma di valutazioni meramente tecniche. In realtà, dietro la facciata di algide regole formali e di previsioni economiche “oggettive”, si celano spazi di discrezionalità amplissimi e zone grigie, dove il controllo democratico è assente. Quella che altrimenti sarebbe una mera descrizione della realtà o una previsione sul futuro, al contatto con le norme del “patto di stabilità” si trasforma inesorabilmente in una stringente prescrizione, dando corpo agli obblighi di realizzare il pareggio di bilancio e di ridurre il debito pubblico. A sua volta, scelte politiche vengono legittimate da grandezze, quali il Pil potenziale e la disoccupazione strutturale, presentate come dati oggettivi, ma che in realtà implicano un certo grado di discrezionalità, se non di arbitrarietà. E, quindi, anche tali grandezze sono espressione di scelte politiche.

 

1 Regolamento n. 1466/97, art. 2-bis

2 Regolamento 1467/97, modificato dal Regolamento n. 1467/11.

3 Si vedano: Fazi, “Ma Renzi lo conosce il fiscal compact?”, old.sbilanciamoci.info 1.04.2014 e Fantacone, Garalova e Milani, “Una previsione europea difficile da accettare”, www.lavoce.info 31.03.14.

4 In particolare, per calcolare la componente ciclica sul Pil si moltiplica l’output gap per un fattore di “elasticità’” del bilancio statale rispetto al ciclo economico. Dal 2013, questo fattore è stato ridotto (semi-elasticità). V. Documento di economia e finanza 2014, pag. 37.



 

 

 

 

 

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