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Ilva, il punto di non ritorno

27/05/2013

I due ordini di sequestro emanati in pochi giorni da parte della Procura di Milano e di Taranto rendono necessario l’intervento della mano pubblica. Obiettivo: nazionalizzare l’intero gruppo Riva Fire e affidarne la gestione ad un management responsabile

Le notizie degli ultimi giorni riaprono anche drammaticamente l’interesse dell’opinione pubblica per un caso che sembrava per il momento messo in sordina. È ancora una volta la magistratura da sola che cerca di portare avanti un dossier per molti aspetti cruciale per il paese.
Dopo che la procura di Milano ha ordinato nei giorni scorsi il sequestro di un miliardo e 200 milioni al gruppo Riva per frode fiscale e truffa allo stato, ora la gip Patrizia Todisco, accogliendo una richiesta della procura di Taranto, ha emesso un secondo ordine di sequestro, questa volta per ben 8 miliardi e 100 milioni. Il magistrato ha cioè deciso di bloccare la somma corrispondente a quello che appare come l’illecito profitto ottenuto dai Riva nel tempo con il mancato rispetto delle leggi per la tutela dell’ambiente, della popolazione, nonché della salute dei lavoratori. Il magistrato si riserva anche di intervenire in futuro per quanto riguarda i danni inflitti all’ambiente.

Ricordiamo peraltro che il valore di mercato dell’intero gruppo Riva Fire non raggiunge probabilmente la cifra sopra indicata. Per valutare meglio la situazione attuale e le prospettive dello stabilimento di Taranto e dell’intero gruppo Riva Fire ricordiamo alcuni dei punti salienti della questione.

L’azienda, la magistratura, il governo

Il gruppo Riva Fire è controllato interamente dalla famiglia Riva attraverso una complessa rete di società collocate in diversi paradisi fiscali; secondo i magistrati inquirenti, e secondo anche delle segnalazioni della Guardia di Finanza, queste società sarebbero servite anche per riciclare clandestinamente una parte delle risorse finanziarie del gruppo.

A leggere in particolare le cronache giudiziarie, il gruppo ha continuato ad inquinare per molti anni il territorio di Taranto e dintorni nella più assoluta impunità, assicurata anche a lungo dalla complicità sostanziale delle autorità centrali e locali e di una parte del sindacato.

Sembrerebbe che siamo arrivati ormai ad un punto in cui si impone obbligatoriamente una drastica opera di risanamento tecnico e finanziario, che temiamo che potrebbe però essere vanificata ancora una volta da un intervento maldestro della politica, cosa che non può peraltro mai essere esclusa nel nostro paese.

Ricordiamo soltanto, a questo proposito, il fortunatamente breve soggiorno del signor Clini alla testa del ministero dell’ambiente durante il governo Monti, soggiorno caratterizzato principalmente dal fatto che egli dettava di frequente delle roventi dichiarazioni alla stampa contro l’operato della magistratura.

Ambiente, occupazione, qualità delle produzioni

La proprietà dell’Ilva, aiutata nell’ombra dagli altri attori sopra citati, ha cercato nei mesi scorsi, con un certo successo, di accreditare l’idea che ci sarebbe un contrasto tra l’opera di bonifica ambientale del sito di Taranto e l’occupazione nello stesso stabilimento.

In realtà la situazione di molti grandi gruppi internazionali e l’analisi delle tecnologie di disinquinamento disponibili nel mondo indica che ambiente e lavoro possono tranquillamente coesistere.

Per altro verso, nei mesi scorsi, sotto l’incalzare degli interventi della magistratura, è bastato che la proprietà riducesse drasticamente l’ammontare fisico dei magazzini materie prime e che sia stata più attenta di prima nel manipolare gli stessi materiali nei giorni di vento, perché l’emissione di particelle inquinanti si riducesse per qualche tempo,in una rilevante misura, prima di ogni intervento strutturale con i relativi investimenti.

Un risanamento dell’impianto, del resto, contribuirebbe anche a migliorare notevolmente la qualità delle produzioni e quindi a rendere più competitiva l’azienda su di un mercato dove essa tende da molto tempo a perdere colpi sotto l’incalzare della concorrenza. Lo stabilimento di Taranto deve affrontare comunque una sostanziale ristrutturazione dal momento che gli impianti sono molto vecchi.

La situazione competitiva del gruppo e il mercato dell’acciaio

Ma risanare non basta; si deve prevedere una politica di sviluppo più complessiva che affronti i molteplici problemi strategici, organizzativi, finanziari del gruppo, giunto ormai alla fine del suo percorso almeno nei suoi attuali assetti.

In effetti il gruppo Riva tende a perdere quote di mercato; per altro verso, esso concentra gran parte delle sue vendite nel nostro paese, dove nel 2011 si collocava il 62,7% del fatturato, mentre il resto era frazionato in pochi altri paesi europei. E questo in un settore sempre più internazionalizzato. Anche sotto i colpi della crisi, i bilanci degli ultimi anni hanno mostrato un rilevante deterioramento.

Va ricordato anche che in passato, in un mercato che peraltro cresceva fortemente, il management e la proprietà hanno perseguito delle politiche da “cortile di casa”, potendo contare sulla docilità delle autorità pubbliche e puntando più sulla speculazione sulle materie prime che su strategie concorrenziali sofisticate.

Il settore è ormai dominato nel mondo da pochi grandi gruppi che, anche per superare una caduta della redditività e l’esistenza un rilevante livello di capacità produttiva inutilizzata, stanno portando avanti delle strategie di internazionalizzazione, di integrazione verticale, di riduzione dei costi, cui la Riva Fire fatica a star dietro. Il gruppo solo nel 2005 era decimo nella classifica mondiale dei principali produttori, mentre nel 2011 era retrocesso al ventitreesimo. A livello di singoli paesi, oggi la Cina controlla più del 45% della produzione mondiale di acciaio.

Il governo e la risposta dei Riva

Il governo precedente, sotto l’incalzare della magistratura e anche per devitalizzarne l’azione, ha emesso qualche mese fa un provvedimento (Aia) volto ufficialmente a risanare i problemi ambientali dell’impianto di Taranto. Tale provvedimento aveva il merito di fissare delle regole per l’intervento e anche di determinare delle scadenze, per altro verso blande, per le azioni relative. Tra i molti difetti dell’editto ricordiamo soltanto che esso non prevedeva una struttura di direzione lavori, con competenze tecniche specifiche, per controllare passo passo il rispetto del programma, accontentandosi di nominare un cosiddetto garante, un magistrato di Cassazione, senza competenze tecniche. Inoltre le sanzioni previste in caso di mancato rispetto delle norme erano piuttosto deboli e molto vaghe.

L’azienda, poi, ha messo a punto un cronoprogramma degli interventi che per la verità appariva già all’inizio come largamente insufficiente e che prevedeva interventi al ribasso – stimando nella sostanza la spesa relativa intorno ai 2 miliardi di euro –, alcuni dei quali improbabili. Un’azione seria avrebbe richiesto circa 4 miliardi.

Sembra poi che anche tale cronoprogramma non sia stato quasi per nulla rispettato, come ha poi segnalato lo stesso garante sulla base delle analisi tecniche dell'Ispra. Tutto questo ancora una volta nel sostanziale disinteresse del governo.

Va ricordato infine che in crisi non solo c'è solo l’Ilva, ma anche un altro complesso nazionale di rilievo operante nel settore, il gruppo Lucchini, in difficoltà da molto tempo e già commissariato.

Cosa fare

Appare evidente che a questo punto, vista la situazione, non resta che l’intervento pubblico. Il governo dovrebbe provvedere da subito al commissariamento del gruppo, unica azione giuridica attivabile immediatamente, mentre si dovrebbero poi avviare le mosse per arrivare a una nazionalizzazione dello stesso. Ci potrebbero essere nell'immediato dei problemi finanziari. Si potrebbe comunque coinvolgere nel tempo, se fosse necessario, la Cassa Depositi e Prestiti. Più in generale, andrebbe ripensato complessivamente il posizionamento e l’organizzazione dell’industria siderurgica nel nostro paese, con eventuali integrazioni tra i vari gruppi e qualche chiusura pilotata.

Ma va anche sottolineato che ormai l’Italia farà comunque difficoltà a gestire nell'ambito solamente nazionale un’azienda di quelle dimensioni in un mercato siderurgico come l’attuale, per cui appare opportuno cercare al più presto un’alleanza, anche nel capitale, con qualche altro gruppo, presumibilmente asiatico.

In questo quadro l’arrivo dei “cinesi”, che molti paventano, dovrebbe essere invece visto come un’opportunità da cogliere senza indugi.

 


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