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L’America Latina è meno diseguale

25/04/2015

Sdebitarsi/Il socialismo del XXI secolo e i governi progressisti hanno migliorato le condizioni di vita nel continente E persino il debito pubblico è diminuito ovunque

Alla recente Cumbre de Las Americas tenutasi a Panama, Obama si è presentato con uno spirito nuovo verso il Cono Sur. Quello che tradizionalmente era il giardino di casa, vittima abituale dell’imperialismo yanquí, finalmente diventa un interlocutore del Presidente Usa nella nuova strategia di dialogo, come testimoniato dall’apertura verso Cuba (e parallelamente verso l’Iran che di molti paesi dell’area è alleato), dalla nomina di un delegato speciale per appoggiare il negoziato tra il governo colombiano e la guerriglia delle Farc e naturalmente dalla regolarizzazione degli immigrati latinos negli Usa.
Tuttavia, il panorama che si è trovato di fronte era desolante: se Obama stesso non gode di grande popolarità in casa, il consenso dei principali leader regionali è in picchiata, con pochissime eccezioni.
Il gigante regionale brasiliano è travolto dallo scandalo di corruzione legato a Petrobras che minaccia di essere il più grande fallimento industriale della storia, Michelle Bachelet (Cile) è stata profondamente toccata da uno scandalo di corruzione che risale all’epoca di Pinochet, il Messico è attraversato da una crisi profonda dopo lo scandalo dei desaparecidos di Ayotzinapa, l’Argentina è in preda a convulsioni politiche per gli affari opachi dei Kirchner (e della recente morte del pubblico ministero che indagava su un presunto insabbiamento da parte del governo), il Peru affronta una grave crisi politica legata a presunto spionaggio, il Venezuela è sull’orlo di una guerra civile e persino Evo Morales, sebbene riconfermato, ha perso la roccaforte indigena di El Alto, segno di discontento nella base. Che cosa succede all’America Latina?
La vulgata racconta di un continente diviso tra la nuova sinistra bolivariana (il Mercosur allargato di Argentina, Brasile, Uruguay, Paraguay, Bolivia e Venezuela) e un blocco di destra che difende le ricette neoliberali (l’Alianza del Pacifico di Colombia, Cile, Messico e Peru).
Se stiamo ai dati, il Sudamerica degli anni zero è un Paese meno diseguale e più ricco: la crescita reale cumulata del Pil dal 2000 al 2013 (dati Cepal) è stata del 50% per la regione, e del 64% in Argentina, del 50% in Brasile, del 70% in Colombia, Cile ed Ecuador, del 100% circa in Peru. L’occupazione nei principali Paesi è aumentata in media di due punti percentuali (dal 2004) e l’informalità urbana si è ridotta dai due ai quattro punti.
L’indice di Gini, che misura la disuguaglianza del reddito, è sceso ovunque (sebbene ancora a livelli altissimi in comparazione internazionale): di sei-sette punti in media dal 2000 al 2013 per i Paesi del Mercosur allargato e di quattro in media per quelli dell’Alianza del Pacifico. Dal punto di vista debitorio, in termini quantitativi la situazione sembrerebbe tutt’altro che allarmante: il debito pubblico è diminuito per tutti i Paesi (persino per il Venezuela è stabile) nel decennio e tranne per il caso del Brasile (60% del Pil) è in termini quantitativi molto ridotto, e quello esterno si è ridotto sensibilmente fino al 2008 per poi stabilizzarsi. Per quest’ultimo, il livello per i paesi "neoliberali" varia tra 13 (Cile) e 30 punti di Pil (Messico, Peru e Colombia), mentre la situazione è in attivo per Argentina, Bolivia e Venezuela e debitoria per Uruguay (10%), Paraguay (40%) e Brasile (30%). In realtà è il futuro che si prospetta oscuro.
Il Sudamerica è la dimostrazione lampante che i vincoli di compatibilità macroeconomici che si sbandierano come patente di responsabilità sono una legittimazione dell’ordine internazionale esistente. Tutti i Paesi hanno ridotto la disuguaglianza per la semplice ragione che, come accadde nel secolo breve europeo, esisteva un’alternativa di sistema. Per quanto raffazzonato e contraddittorio possa sembrare il socialismo del XXI secolo, le fasce più povere vedevano un cambio e chiedevano risultati. Tutti i Paesi hanno così definito politiche soprattutto orientate all’istruzione, nella forma dei trasferimenti focalizzati e condizionali, con il bollino della Banca Mondiale.
Il risultato è stato positivo perché, nel panorama desolante, permettere a un bambino di mangiare regolarmente migliora le performance scolastiche e a lungo termine la produttività. Nessun Paese ha però delegittimato il modello estrattivista come canale d’inserzione nei mercati internazionali: sull’onda dell’esplosione del prezzo del petrolio (Venezuela e Colombia), del gas (Bolivia), delle merci agricole (Argentina, Brasile, Cile), dell’oro (Colombia e Peru) e del rame (Cile) questi Paesi sono cresciuti e hanno finanziato le politiche sociali. Nessuno tuttavia ha fatto politiche industriali, riducendo ovunque la diversificazione dell’economia. Con l’inversione dei prezzi internazionali delle commodities e in attesa che l’irrigidimento della politica monetaria Usa cambi la destinazione dei flussi internazionali di capitali, questi Paesi non hanno come finanziare l’import né la politica sociale.
Lo spazio fiscale sarebbe immane, visto che nessuno riesce a raccogliere più del 3% del Pil con le imposte dirette sulle persone, ma politicamente è impraticabile. Con i livelli di concentrazione del reddito presente nella regione, le imposte andrebbero destinate a quell’oligarchia che controlla l’esercito, molte regioni interne e naturalmente i principali mezzi di comunicazione, che l’ipocrita opinione pubblica occidentale si sbraccia a difendere contro i bavagli. E guarda caso l’unica strada alternativa rimane la deflazione interna, cioè l’austerità, che cancellerà con un colpo di mano i progressi di questo decennio.

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