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Ecologisti vs economisti

31/10/2014

L'aria che tira/Nicholas Georgescu Roegen, Kenneth Boulding e Herman Daly nel 1973, per l'American Economic Association scrissero: «Dobbiamo inventare una nuova economia il cui scopo sia la gestione delle risorse e il controllo razionale del progresso»

Economisti ed ecologisti non si sono mai stimati troppo. Se depuriamo il dissenso dalle accuse ingenerose rimane negli uni la convinzione che a furia di proteggere la sacralità della «natura» non si sarebbe mai usciti dalle caverne, mentre gli altri replicano che continuando a distruggere la natura si finirà ben presto nelle stesse caverne di prima.

Gli uni dicono agli altri che non hanno studiato; replicano i secondi che studiare le cose sbagliate nei libri sbagliati è ancor peggio. Un dissenso che non ha fine. Ancora recentemente Vandana Shiva, ecologista rinomata, è stata presa di mira con una punta di disprezzo dagli avversari, non per la sua lezione, ma per qualche bollo universitario mancante nel suo curriculum.

Era il 1973 in ottobre quando Nicholas Georgescu Roegen, Kenneth Boulding e Herman Daly scrissero il loro Manifesto, firmato da altri duecento economisti, per la riunione annuale dell'American Economic Association in agenda due mesi dopo.

Il testo, brevissimo, è stato ripubblicato varie volte, per esempio nel 2006 da «Capitalismo Natura Socialismo», (Jaca Book a cura di Giovanna Ricoveri), un'antologia degli scritti della rivista Cns. Ecco quel che i tre suggerivano: «Nel corso degli ultimi due secoli gli economisti sono stati portati sempre più spesso non solo a misurare, analizzare e teorizzare la realtà economica, ma anche a consigliare, pianificare e prendere parte attiva nelle decisioni politiche. Noi invitiamo i colleghi economisti ad assumere un loro ruolo nella gestione del nostro pianeta.

Dobbiamo inventare una nuova economia il cui scopo sia la gestione delle risorse e il controllo razionale del progresso e delle applicazioni della tecnica, per servire i reali bisogni umani, invece che l'aumento dei profitti e del prestigio nazionale o le crudeltà della guerra».

Difficile dire meglio di così. Come si può capire, Barry Commoner era d'accordo. Il «controllo razionale del progresso e della tecnica» era una scelta indispensabile per garantire la stessa sopravvivenza umana.

In uno scritto di Commoner della fine degli anni ottanta e poi letto e riletto fino agli anni recenti: «Una valutazione del progresso ambientale: la ragione del fallimento» (Economia & Ambiente, novembre dicembre 2012) si trova una chiave interpretativa che tutti possono fare propria: «Quando un inquinante è al punto di origine, può essere eliminato; una volta che è prodotto, è troppo tardi. Insomma, l'inquinamento ambientale è quasi una malattia incurabile; può solo essere prevenuto. ...L'approccio convenzionale è quello per cui queste tecnologie che sono altamente produttive dal punto di vista economico, generalmente hanno un serio impatto sull'ambiente».

Più avanti si legge: «Ciò porta a pensare che tali tecnologie debbano essere usate come mezzi per lo sviluppo economico, in modo che la qualità ambientale possa essere raggiunta solo aggiungendo ad esse i mezzi di controllo dell'inquinamento».

È possibile farlo, oppure sono controindicazioni i costi aggiuntivi alla produzione vera e propria? Commoner esamina il caso dell'industria del petrolio. «L'industria petrolchimica è ugualmente famosa per il suo successo economico, essendo cresciuta negli Stati Uniti, ad esempio, fino a 250 miliardi di dollari in meno di 40 anni. Ciò che è meno noto è che fare un serio sforzo per rettificare i difetti ambientali dell'industria significherebbe distruggere letteralmente la sua vitalità economica.

L'industria petrolchimica genera circa 300 milioni di tonnellate di scorie tossiche ogni anno, il 90% delle quali viene introdotto nell'ambiente in un modo o nell'altro: nei pozzi, nelle lagune di superficie, nei serbatoi. Solo l'uno per cento delle scorie viene distrutto, che è l'unico modo per assicurarsi che queste sostanze altamente pericolose e che durano a lungo non si accumulino e alla fine minaccino gli esseri viventi. Insomma, l'industria petrolchimica è profittevole solo perché è riuscita, finora, ad evitare di pagare il suo conto all'ambiente».

Gli economisti dovrebbero applicarsi a questi problemi, ma lo fanno troppo poco. La casa-madre di tutti gli economisti, la World Bank, funziona assai spesso come megafono delle compagnie petrolifere, non solo, ma fa anche profittevoli collette per i maggiori investimenti che trasformano il globo in uno spazio attraversato per ogni dove da strade e ponti, gallerie e viadotti, stazioni di rifornimento e oleodotti e ne fanno l'ambiente adatto per auto e camion, considerando quasi il genere umano come un inutile, ingombrante, sopramobile.

Non tutti gli ecologisti sanno arrivare fino in fondo, ma si fermano a un compromesso che considerano insuperabile, originato dal buonsenso.

Solo che è il buonsenso della serie, famosa dai tempi del Maggio francese, del sindacalista che si rivolge nervosamente all'attivo dei suoi che lo ascoltano senza fiatare. «Insomma, cosa volete?» e alla risposta: «Fare la rivoluzione», replica a sua volta: «Impossibile. I padroni non ci staranno mai!»

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