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Riforme e supermarket contrattuali

19/09/2014

Il lavoro non è un mercato/La ricetta della progressiva crescita della flessibilità in entrata non ha prodotto altro che più precarietà e più incertezza sulle condizioni lavorative

Da quasi vent’anni si è dato corso ad una serie di riforme per flessibilizzare il mercato del lavoro. Gli interventi si sono concentrati molto sulle norme per gli ingressi, dal Pacchetto Treu del 1997, passando per la Legge 368/2001, per la Riforma Biagi (Legge 30) del 2003, sino alla recente Legge Fornero del 2012, che ha messo mano anche alle regole per le uscite, intervenendo sui licenziamenti individuali e collettivi.

Gli effetti sul mercato del lavoro sono noti. La volontà dichiarata era la maggiore efficacia nel funzionamento del mercato e la riduzione della disoccupazione, di lunga durata e dei giovani in particolare, fenomeni endemici italiani. L’esito delle “riforme parziali” è stato però il dualismo del mercato, cioè la creazione di un mercato parallelo in cui proliferano contratti non-standard dai molteplici profili, che diventano sostituti delle forme contrattuali standard, lavoro subordinato a tempo pieno e senza limiti di durata. È ciò che è diventato noto come “supermarket” contrattuale.

La ricetta della progressiva crescita della flessibilità in entrata, senza alcun intervento organico sul sistema delle protezioni sociali per estendere le tutele ai lavoratori “flessibili”, non ha prodotto altro che più precarietà, più incertezza sulle condizioni lavorative, meno motivazioni sul lavoro, effetti di cui peraltro si lamenta la stessa Ocse nel suo rapporto 2014 sull’occupazione (Employment Outlook 2014: http://www.oecd.org/employment/emp/oecdemploymentoutlook.htm). Queste riforme non hanno favorito l’occupazione ma spesso una sostituzione di lavoro giustamente retribuito e stabile, con lavoro instabile che si perpetua contratto dopo contratto e con retribuzioni in discesa.

Lo riconosce anche un recente rapporto del Ministero dell’Economia e Finanze, nel quale si esaminano gli effetti della riforma Biagi del 2003 e della riforma Fornero del 2012 sul mercato del lavoro. Per entrambe le riforme gli esiti non appaiono incoraggianti:: “[…] considerando complessivamente i risultati deludenti emersi dall’analisi statistica condotta in questa ricerca, che copre un arco temporale di circa 15 anni,. possiamo concludere che le riforme ‘parziali’ della legislazione sul mercato del lavoro hanno avuto l’effetto di accrescere la segmentazione del mercato e i recenti correttivi introdotti non sono stati efficaci nel migliorare l’accesso ad un lavoro stabile né nell’aumentare la probabilità di transizione dal lavoro temporaneo a quello permanente” (Di Domenico G., Scarlato M., “Valutazione di interventi di riforma del mercato del lavoro attraverso strumenti quantitativi”, 2014, pp.80-81). (http://www.dt.tesoro.it/it/eventi/dettaglio.html?resourceType=/modules/eventi/elem_0215.html).

Anche l’Isfol (http://www.isfol.it/) ci racconta che sul mercato del lavoro dal 2007 la situazione è di molto peggiorata. Secondo una recente analisi (a cura di Mandrone, Marocco, Radicchia, 2014: http://www.isfol.it/Isfol-appunti/archivio-isfol-appunti/6-maggio-2014-come-si-e-evoluta-la-flessibilita-con-la-crisi), dopo il 2009 è avvenuto un processo di sostituzione del lavoro standard con lavoro non standard, contratti a termine, a tempo ridotto, a chiamata, lavoro autonomo che fattura ma non incassa. Questi contratti non riescono neppure svolgere la funzione “ponte”, ovvero facilitare il passaggio dal non lavoro al lavoro stabile. È aumentato invece il fenomeno della “trappola” della precarietà, più lavori non standard successivi con scarse possibilità di giungere ad un lavoro standard, ed è anche aumentato il fenomeno del “rimbalzo”, ovvero del passaggio da lavoro non standard allo stato di disoccupazione o di inattività. Infine, anche il lavoro standard non offre certo più le sicurezze della fase pre-crisi, data la crescita della probabilità di perderlo. Si veda il grafico 1.

 

Graf.1 – Il mercato del lavoro nella crisi in Italia (fonte: Isfol, Come si è evoluta la flessibilità con la crisi, 6 maggio 2014: http://www.isfol.it/Isfol-appunti/archivio-isfol-appunti/6-maggio-2014-come-si-e-evoluta-la-flessibilita-con-la-crisi).

L’estremo dualismo sul mercato del lavoro generato dalle passate riforme viene oggi esacerbato dai provvedimenti Renzi-Poletti (Legge 78). Il rischio è quello di accrescere la “trappola” della precarietà da cui è difficile uscire, con un aumento della disoccupazione soprattutto nelle fasi negative del ciclo in cui il lavoro manca perché manca la domanda di lavoro che è – ricordiamolo – domanda derivata dalla domanda di mercato, e quindi dalla domanda effettiva. La revisione delle norme su lavoro a termine e apprendistato rischia di estendere la precarietà o il ritorno verso la disoccupazione e la inattività, in tempo di crisi in cui il lavoro manca perché manca la domanda. Ma ancor più, con questi provvedimenti, il contratto di lavoro subordinato, a tempo indeterminato e pieno, perde definitivamente la caratteristica di contratto prevalente, scalzato dalla molteplicità dei contratti non standard.

A questa situazione, che riflette la condizione depressa dell’economia e la stagnazione della produttività, si vuol rispondere introducendo ulteriore flessibilità in entrata, con un nuovo contratto, a tutele progressive, solo perché con esso si rimaneggiano anche le regole delle uscite, facilitando così licenziamenti e cancellando l’art.18. Con questa politica nessun effetto positivo si è generato sulla produttività nell’ultimo decennio, perché questa può crescere se si innova sui luoghi di lavoro e nell’organizzazione del lavoro, non certo introducendo più precarietà. Ridurre il costo unitario del lavoro, come è avvenuto anche nei paesi periferici dell’Europa (grafico 2), attraverso le riforme del lavoro ha sortito l’effetto di rendere stagnanti le retribuzioni senza effetti positivi su occupazione e neppure su competitività delle imprese.

Graf.2 – Andamento del costo unitario del lavoro nei paesi Ocse indice 2005=1 (fonte: nostre elaborazioni su Oecd Statistics, Economic Outlook, maggio 2014)

Notiamo nel grafico non solo il comportamento dei paesi del sud Europa, ma del Giappone, che persegue una deflazione salariale dagli anni novanta. La deflazione in Grecia, Spagna e Portogallo contiene informazioni utili per questo scorcio della crisi e prospettive future, quella giapponese ha molto da insegnarci. L’andamento decrescente del clup non risente di progressi nella produttività, al suo denominatore, ma della contrazione dei salari, al numeratore.

In Giappone è ciò che ha portato alla deflazione, e lo stesso avviene ora nell’Europa periferica. Ronald Janssen[1] ha pubblicato di recente (http://www.social-europe.eu/2014/09/japanese-deflation/) il grafico che il Governatore della Banca Centrale del Giappone, Haruhiko Kuroda, ha utilizzato nel suo discorso a Jackson Hole il 23 agosto 2014[2]. (https://www.boj.or.jp/en/announcements/press/koen_2014/data/ko140824a1.pdf). Qui lo riprendiamo, per evidenziare come in Giappone sia aumentata la consapevolezza circa i rischi della deflazione salariale (grafico 3), al punto che seguendo l’Abenomics oggi si auspica una crescita dei salari giapponesi, la “wage surprise” come richiesta dal primo ministro giapponese già a gennaio 2014[3] (http://www.project-syndicate.org/commentary/shinzo-abe-unveils-a-concerted-effort-to-raise-japanese-workers--pay-), che accompagni come “terza freccia” le altre due, politica monetaria espansiva e politica fiscale flessibile.

La deflazione salariale contrae i redditi da lavoro, i consumi e la domanda interna, ed a seguire le imprese con stagnazione della domanda ed anche per prezzi in diminuzione rallentano gli investimenti prima, e poi smettono di investire. Il circolo vizioso è così avviato e non si arresta, anzi si autoalimenta, frenando anche la produttività. Abbiamo così la trappola della bassa produttività e quella della deflazione assieme. La riduzione dei costi del lavoro per rendere le imprese più competitive in realtà apre lo scenario della deflazione, e spinge verso il basso anche la produttività, o la sua crescita. Una politica che alla singola impresa appare vantaggiosa, si rivela in verità svantaggiosa. Ecco perché non può che essere definita perniciosa e miope al contempo.

Graf.3 – Deflazione giapponese: crescita di retribuzioni e prezzi in Giappone, 1981-2014 (fonte: https://www.boj.or.jp/en/announcements/press/koen_2014/data/ko140824a1.pdf)

Quanto ancora dovremo aspettare per politiche che accrescono l’investimento in capitale umano, dentro e fuori l’impresa, la qualità del lavoro e l’innovazione? Questi fattori si legano poco con l’instabilità del lavoro e molto più con rapporti lavorativi di lunga durata. Solo allora potremo registrare aumenti di produttività assieme ad aumenti dell’occupazione, incrementi di competitività accompagnati da una crescita della domanda.

 

[1] Ronald Janssen, “Lessons From 15 Years Of Japanese Deflation”, Social Europe Journal, 12 settembre 2014.

[2] Haruhiko Kuroda, “Deflation, the Labor Market, and QQE”, Remarks at the Economic Policy Symposium, 23 agosto 2014.

[3] Shinzo Abe, “Japan’s Coming «Wage Surprise»”, Project Syndicate, 6 gennaio 2014.

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