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Semantica della crisi

02/04/2012

Il presunto interesse generale invocato dalle tecno-istituzioni nasconde decisioni politiche che mirano a neutralizzare il conflitto e alla fine del modello sociale europeo

Durante la trattativa tra governo e parti sociali sulla “riforma” del mercato del lavoro, Mario Monti aveva avvertito che nell’avvicinarsi del momento conclusivo sarebbero state dichiarate inaccettabili le “pressioni corporative”. Analoghe espressioni ricorrevano peraltro anche nel confronto tra i diversi attori della vicenda Fiat. Da alcuni commentatori idealmente vicini all’amministratore delegato del gruppo, le resistenze della Fiom erano state considerate pretestuose e accostate ad altre forme di protesta: non solo a quelle dei no-tav, ma anche a quelle dei “forconi”, dei camionisti, dei tassisti. E in tali accostamenti non mancava ovviamente l’impiego dell’aggettivo “corporativo”. Ne faceva uso la stessa Fiom per respingere il tentativo di circoscrivere in spazi “aziendali e corporativi” la rappresentanza sindacale. E l’usavano appunto gli avversari della Fiom imputandole di voler accanitamente tutelare solo una parte dei lavoratori: con un eccesso di settorialità corporativa, da condannare come ostacolo a ogni apertura verso orizzonti sociali più ampi e attuali.

L’aggettivo “corporativo” è uno tra i più equivoci e abusati da sempre. Ma il suo spazio semantico è andato ulteriormente dilatandosi e deformandosi negli ultimi tempi. Gli storici avevano a lungo dibattuto se nell’ordine corporativo dei regimi premoderni risultasse prevalente un accento sugli interessi di ogni singolo settore di attività o al contrario avesse netta priorità l’esigenza di armonizzare tali interessi in una concezione organica dell’ordine sociale. La seconda alternativa appariva prevalente data l’appartenenza delle antiche corporazioni al continuum del sistema gerarchico, più che alla discontinuità conflittuale che avrebbe segnato l’avvento del moderno. Ed è ovviamente discutibile la probabilità di una loro reale riapparizione in questo protratto “declino della modernità”.

In una riconsiderazione storica di questa materia, e del lessico adottato nei diversi contesti, parrebbe emergere la rilevanza del confronto politico tra interessi di diversa natura. Nel terzo decennio del novecento il fascismo italiano, mentre assumeva contorni tecnocratici e diveniva sempre più statocentrico, attribuiva nuovi significati al nascente disegno corporativo e agli interessi in gioco. Pur nel vantare una paternalistica tutela del lavoro dipendente nei diversi settori, la condizionava a una rinuncia al conflitto e al perseguimento dell’“interesse nazionale”: in opposizione non solo agli “eccessi” delle rivendicazioni operaie ma anche alle contrarie rigidità della Confindustria. E poneva così le basi anche per il passaggio a una forma generalizzata ma burocraticamente controllata della contrattazione collettiva. Oggi, in questo scenario globale cui le sovranità nazionali europee si adeguano, un principio di “interesse generale” è invece invocato da tecnocrazie di segno diverso: vere e proprie tecno-istituzioni, seguaci di una mainstream economics che almeno apparentemente teorizza meno stato e più mercato; e che considera superato non solo il contratto collettivo nazionale ma lo stesso meccanismo della concertazione, affermatosi negli anni 70 e 80 del novecento e denominato “neo-corporativo” da alcuni sociologi tedeschi.

Forse è superfluo ricordare come dietro il presunto interesse generale invocato dalle odierne tecno-istituzioni si celi un più ristretto e meno trasparente nucleo di utilità, perseguito con l’appellarsi ai dettami di Bruxelles: dove attraverso il rinvio a verità indiscutibili, a giudizi inappellabili e a decisioni “irrevocabili”, viene decretato il superamento della concertazione e, insieme ad essa, del modello sociale europeo. Se consideriamo quanto risulti oggi scomposta la concreta realtà del lavoro, quanto appaia ridotta in piccoli frammenti l’immagine del suo soggetto storico, la classe operaia, quanto sembri neutralizzato il conflitto mentre vengono moltiplicate le vie di una competizione al ribasso sul costo del lavoro tra diversi, gruppi, nazionalità, generazioni, allora parrebbero meno paradossali molte ambiguità ricorrenti nel linguaggio “quotidiano”. Insomma, non è certo assurdo che i sostenitori della Fiom vedano ancora nell’azione di quel sindacato la difesa di interessi di classe più ampi. Ma non sorprende che dalla controparte la stessa azione possa venir presentata come espressione di una minoranza vieppiù esigua, autoriferita, “corporativa”. I rapporti di forza si mostrano invariabilmente decisivi, in ultima istanza. Oggetto del contrasto è la funzione di un soggetto collettivo (la classe operaia, appunto) che nella storia passata delle società industriali, in particolare lungo il secolo ventesimo, aveva visto crescere le proprie dimensioni e insieme ad esse il proprio ruolo politico. Al punto di poter essere marxianamente configurabile quale “classe generale”. Tutto questo però fino alla svolta drammatica segnata dalla mondializzazione economica, dalla deindustrializzazione dell’occidente e dal rapido prevalere dell’economia finanziaria.

In Italia, nei recenti lavori intorno al progetto di riforma del mercato del lavoro, si discusse molto di flessibilità “in uscita”, molto meno di interventi in grado di favorire realmente l’“entrata”. Nondimeno, la resistenza dei metalmeccanici alle prospettive delineatesi venne presentata come se fosse incompatibile con le esigenze e i diritti rivendicabili da nuovi soggetti quali sono i giovani, i non tutelati, i precari. La non rappresentanza di questi nuovi soggetti apre ovviamente molti interrogativi. Ma è indubbio che il loro futuro non è reso meno oscuro dal maggiore accento sulla più agevole licenziabilità. Tale accento è coerente infatti con la tendenza in corso ormai da vari decenni nei paesi industriali “maturi”, con poche eccezioni tra cui, almeno parzialmente, la Germania. Mi riferisco alla tendenza del mercato azionario, che ha premiato i titoli di aziende dove le decisioni del top management implicavano licenziamenti ampi e veloci; e ciò coerentemente sia con le numerose strategie di downsizing, sia con un maggiore accento sul “breve termine”, sia infine con il principio-guida di una massimizzazione del valore azionario staccata in buona misura dalla performance produttiva. Questa tendenza aveva avuto le sue prime attuazioni negli Stati Uniti. Ma ora è proprio in quel contesto che essa viene denunciata dalla letteratura specializzata nei problemi di gestione dell’impresa come miope, distruttiva e inadatta a un’uscita dalla crisi. Le recenti vicende italiane lasciano supporre che nuove linee di conflitto possano gradualmente coagularsi intorno alle organizzazioni meno docili di fronte a interventi erroneamente flessibilizzanti. E non è escluso che possa aprirsi in tal modo la strada verso un nuovo indirizzo del dibattito legislativo in materia di lavoro.

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