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I salotti buoni votano Matteo

20/02/2015

RenzItaly/La riforma delle banche popolari, il ruolo del finanziere Serra e i sottoscrittori del premier. Il rapporto privilegiato del governo Renzi con la finanza privata nella sua versione più spregiudicata

“C’è oggettivamente oggi sull’Italia un grumo di connessioni internazionali, dinanzi al quale il governo non ha una risposta. Su Renzi si sta esercitando una pressione molto forte, da parte dell’oligopolio finanziario, non più filtrata da Napolitano” (in quel momento dimissionario). Con queste parole Giulio Sapelli, docente di storia economica all’Università di Milano, ha commentato a fine gennaio la riforma delle banche popolari – fortemente voluta anche da Banca d’Italia. Il decreto, che la Costituzione vorrebbe motivato da criteri di urgenza (“Abbiamo usato questo strumento perché volevamo dare un segnale”, è stata la spiegazione del ministro dell’economia Pier Carlo Padoan), prevede la trasformazione delle popolari da società cooperative a società per azioni, perdendo il principio di “una testa, un voto” e favorendo gli investitori più grandi.

A seguito dello scardinamento di un principio che da decenni proteggeva il sistema cooperativo, il valore dei titoli delle principali banche popolari quotate a Piazza Affari è esploso. La Consob – autorità di controllo della Borsa guidata dall’ex Forza Italia Giuseppe Vegas – ora indaga sull’esistenza di un “circuito dell’informazione privilegiata” che avrebbe garantito plusvalenze effettive e potenziali per almeno 10 milioni di euro in corrispondenza dell’annuncio di Renzi. Un’ipotesi di insider trading che vede in prima linea l’andamento di Banco Popolare (+14,9% nel solo 19 gennaio, contro una media del +8,5% per le altre quotate): secondo le ricostruzioni, trattando l’1% del capitale totale tra il 2 e il 16 gennaio e chiudendo la posizione tra il 19 e il 23 gennaio, un intermediario estero avrebbe guadagnato da solo 3,5 milioni di euro.

Davide Serra, il finanziere vicinissimo a Renzi a capo del fondo londinese Algebris, è stato convocato a Roma dalla Consob dopo la notizia di una serie di investimenti di Algebris proprio su Banco Popolare e quella, categoricamente smentita dall’interessato, di una riunione londinese per coordinare investimenti sulle banche cooperative italiane in prossimità del decreto. Un imbarazzo che va ad aggiungersi a quello per la presenza, tra le banche interessate dal decreto, della Popolare dell’Etruria e del Lazio, il cui vice-presidente è Luigi Boschi – padre dell’omonima ministra Maria Elena, detentrice di un piccolo pacchetto di azioni della stessa banca.

Questi episodi sono segnali che mettono in luce il rapporto privilegiato del governo Renzi con la finanza privata nella sua versione più spregiudicata. Un’altra fonte d’informazione viene dagli elenchi dei finanziatori della Fondazione Open, che ha pagato le campagne elettorali del premier fiorentino. Sono disponibili i nomi dei donatori del 70% degli 1,9 milioni di euro raccolti da Renzi. Un terzo del totale – oltre 600 mila euro – viene dai settori della finanza o dell’immobiliare e solo 300 mila euro sono venuti da imprese manifatturiere. Oltre a Davide Serra (principale finanziatore con 175 mila euro), l’elenco annovera l’ex presidente Fiat Paolo Fresco, alcune fiduciarie, il salotto buono milanese (Carlo Micheli in testa) e quello fiorentino. Le imprese quotate in borsa che sono riconducibili direttamente o indirettamente ai finanziatori del premier sono cinque: Acea, Terna, Sias, Intesa San Paolo e Intek. Vediamo come sono andate le loro quotazioni. Dal 13 febbraio 2014 (dimissioni del governo Letta) a metà gennaio 2015, queste imprese hanno avuto ritorni di mercato quasi 7 volte superiori agli altri titoli quotati a Piazza Affari, mentre nell’anno precedente si muovevano insieme al resto del mercato. Il loro andamento “anormale” non significa tuttavia che il governo si sia adoperato attivamente per favorire queste aziende, può riflettere semplicemente il “vantaggio di posizione” di queste imprese così vicine al premier. Stessa storia per la Banca dell’Etruria, che nei 45 giorni successivi alla nomina di Renzi a segretario del Pd ha registrato un rendimento del 53% più alto rispetto a quello atteso.

A reggere queste relazioni privilegiate di Matteo Renzi con la finanza c’è l’“uomo dei poteri forti”, Marco Carrai, che con Alberto Bianchi (spedito da Renzi a Enel) e Luca Lotti (sottosegretario tuttofare all’editoria) forma il nucleo centrale del potere economico renziano. Attorno a Carrai, che quando passa a Roma viene ospitato nell’ufficio dell’ex amministratore delegato di Telecom Bernabé – con il cui figlio è socio del fondo lussemburghese Wadi Ventures –, c’è il colorato mondo dell’aristocrazia e dell’alta borghesia toscana: i Frescobaldi, gli Antinori, i Bassilicchi, Lorenzo Bini Smaghi e il cugino Jacopo Mazzei. Di quelli cui, nei tempi migliori, venivano staccati i cedolini della Banca Federico del Vecchio, oggi controllata da Banca Etruria. Un miscuglio di “nuovo” e di vecchissimo, che sa usare la politica per riprodurre il privilegio.

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