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Come la finanza ha rotto il compromesso tra capitalismo e democrazia

06/12/2012

La crisi di oggi è la crisi dell’Età del capitalismo finanziario, nata con la liberalizzazione dei movimenti di capitali e l’ascesa della finanza. Un modello che ha rotto il compromesso tra capitalismo e democrazia e messo nell’angolo la politica. Un’anticipazione dalle conclusioni del volume di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini “Il film della crisi. La mutazione del capitalismo” (Einaudi, 2012)

La tesi centrale di questo libro è che la crisi in cui sono immersi i Paesi occidentali nasce dalla rottura di un compromesso storico tra capitalismo e democrazia. La fase successiva a questa rottura può essere definita come l’Età del Capitalismo Finanziario e costituisce la terza mutazione che il capitalismo ha attraversato dall’inizio del secolo precedente.

La prima fase è un’Età dei Torbidi che si è verificata tra l’inizio del secolo e lo scoppio della Seconda guerra mondiale.

La seconda fase è costituita dalla cosiddetta Età dell’Oro: un’intesa tra capitalismo e democrazia fondata su due accordi fondamentali. Il primo comprendeva la libera circolazione delle merci a cui faceva da contrappeso il controllo politico dei movimenti dei capitali che assicurava un ampio spazio all’autonomia della politica economica dei governi e alle rivendicazioni dei lavoratori. Il secondo traeva ispirazione da una nuova teoria dell’impresa manageriale, che la rappresentava come una complessa realtà sociale focalizzata non solo sul profitto ma anche sull’impegno verso una serie di obiettivi sociali rendendo la grande impresa privata una vera e propria comunità.

La terza fase segna appunto una rottura dell’Età dell’Oro e si realizza attraverso la liberazione dei movimenti di capitale che permette di scatenare una vera e propria controffensiva capitalistica. Questa mossa, attuata all’inizio degli anni ‘80 dai leader degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, determina un mutamento fondamentale nei rapporti di forza tra capitalismo e democrazia e tra capitale e lavoro e apre la strada alla formidabile espansione del capitalismo finanziario nei Paesi occidentali.

La controffensiva capitalistica maturò in seguito ad una serie di eventi che influenzarono l’evoluzione dell’economia mondiale negli anni Settanta. Anzitutto le crisi petrolifere che si risolsero in una “stagflazione”, cioè in una combinazione di inflazione dei prezzi al consumo e di deflazione della domanda, e alimentarono massicci investimenti dei petrodollari nei mercati finanziari mondiali. Accanto ai due shock petroliferi, ebbero un peso rilevante la pressione esercitata dai sindacati dei lavoratori; la competizione sempre più intensa tra l’economia americana in declino e le economie europee in ascesa; nonché una serie di movimenti di opinione che cambiarono sostanzialmente le caratteristiche fondamentali del pensiero economico e che si concretizzarono dapprima nella rinascita di un nuovo liberismo economico e poi nel mutamento dell’ideologia politica. In tale ambito ebbe un peso significativo l’influenza esercitata dalle nuove tesi neoautoritarie della cosiddetta “Trilaterale”[1] .

L’insieme di questi elementi creò le condizioni per scatenare una vera e propria controffensiva che spinse il capitalismo a rompere il compromesso storico con la democrazia determinando l’involuzione del sistema economico verso le forme più rozze rappresentate dalla massimizzazione del profitto nel breve periodo, dalla possibilità di tenere i lavoratori sotto il ricatto delle delocalizzazioni produttive e dalla capacità di sfiduciare i governi che perseguivano politiche economiche non gradite.

Ecco la mutazione fondamentale di natura essenzialmente finanziaria che dà origine alla crisi attuale. Essa attribuisce alla grande impresa privata e al capitale un potere assolutamente sproporzionato rispetto agli altri fattori della produzione, soprattutto al lavoro. Di qui il manifestarsi di una gigantesca diseguaglianza tra la remunerazione dei capitali e quella dei lavoratori. Una diseguaglianza che avrebbe provocato fatalmente una depressione della domanda e quindi una crisi economica di grande portata se non fosse intervenuta la mossa vincente del capitalismo finanziario: il ricorso massiccio e generalizzato al credito promosso dalle banche private e favorito dalle politiche economiche dei governi neoliberisti.

L’indebitamento delle famiglie e delle imprese che ne risultò venne sistematicamente rinnovato così da rendere il nuovo capitalismo finanziario un sistema nel quale i debiti non si rimborsano mai. Una scommessa chiaramente insostenibile eppure incentivata dai governi contro ogni logica. Le onde del debito che si accavallano l’una sull’altra tuttavia si infrangono fatalmente prima o poi sulla riva e la crisi, per lungo tempo evitata, investe il sistema economico tanto più violentemente quanto più e’ stata ritardata. Quello che veniva presentato dalla retorica neocapitalistica come il miracolo della nuova economia finanziaria che prometteva una crescita senza fine esente da fluttuazioni economiche, si muta in una crisi caratterizzata da un alto grado di indeterminatezza e di iniquità.

L’altissimo livello raggiunto dall’indebitamento privato, il predominio della finanza sull’economia reale e la debolezza delle democrazie e degli Stati nei confronti del capitalismo finanziario hanno esasperato gli eventi trasformando una situazione di difficoltà nella più grave recessione dalla Grande Crisi del 1929.

Successivamente, l’intervento pubblico non è stato capace di determinare l’inversione ciclica e di rilanciare una crescita in grado di autosostenersi. La strategia che ha guidato l’intervento dello Stato ha mirato semplicemente a trasformare il debito privato in debito pubblico con la speranza che l’economia ripartisse, evitando di toccare i meccanismi che per trent’anni hanno alimentato l’espansione del capitalismo finanziario e il divario crescente nella distribuzione del reddito. Il ricorso allo Stato, considerato non più come un disturbatore ma come un salvatore del mercato, ha permesso di evitare il collasso finanziario delle banche e delle grandi imprese private. Ma la sostituzione dell’indebitamento pubblico a quello privato ha messo in grandissima difficoltà le finanze di tutti i Paesi avanzati e, in special modo, dei Paesi europei più deboli, scaricando i costi della crisi sulle categorie “innocenti”: i contribuenti e i lavoratori. Nel Vecchio Continente la situazione si è ulteriormente aggravata poiché i governi, nel mezzo della crisi, hanno deciso di dare la massima priorità al risanamento delle finanze pubbliche. Al contrario, tutti gli sforzi avrebbero dovuto essere focalizzati sulle politiche economiche per rilanciare la domanda e l’occupazione.

Insomma, la fase del capitalismo finanziario, che secondo la propaganda avrebbe dovuto garantire un’epoca di sviluppo illimitato, non ha portato con sé maggiore efficacia ed efficienza economica, bensì un rallentamento della crescita, un continuo aumento del divario tra ricchi e poveri e un’accentuata fragilità finanziaria, che ha messo a rischio la stessa sopravvivenza del sistema capitalistico. A questo punto, se i conflitti generati dalla crisi dovessero peggiorare, la recessione potrebbe tramutarsi in una depressione prolungata se non addirittura in una “nuova Età dei Torbidi”.

Ci vuole dunque un’inversione della politica economica per ridimensionare il potere del capitalismo finanziario e per restituire allo Stato e alla democrazia le leve del finanziamento dello sviluppo, specialmente durante una fase di crisi. Serve esattamente il ritorno a una condizione dell’Età dell’Oro quando si era realizzata la libera circolazione delle merci ma non quella dei capitali. Il nuovo approccio di politica economica è particolarmente urgente in Europa dove gli obiettivi di sviluppo civile devono tornare ad avere la priorità sui risultati finanziari speculativi di breve e di brevissimo periodo. Così sarà possibile promuovere una crescita sostenibile e un più alto grado di eguaglianza e di consenso sociale.

 

[1] La Commissione Trilaterale è un gruppo di studio non governativo e non partitico fondato il 23 giugno 1973 per iniziativa di David Rockefeller, presidente della Chase Manhattan Bank, e di altri dirigenti e notabili, tra cui Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski.

 

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lati

Grazie, Mario.

Commissione trilaterale

Da quello che mi ricordo e approfondito su internet il termine trilateral sintetizza una visione del mondo nel quale il potere è distribuito in tre macro aree: il Nord-america, l’Europa e la parte dell’Asia che dà sul Pacifico (inizialmente il Giappone, ora anche la Cina e altri paesi sviluppati). Ciascun lato della “Trilateral commission” è rappresentato da un numero equivalente di membri; dei 120 esponenti europei, 18 sono italiani.

risposta a Stefano

Grazie davvero. Sì, l'intento reazionario è chiaro.

risposta a Livia

sono stato un po' sbrigativo mettendo la definizione di Wikipedia: mi sembrava sintetica ed efficace. Però anche io non so da cosa deriva trilaterale. Ma è chiaro l'intento reazionario.

P.S.

Ah, e senza copiare le note da Wikipedia, please!!!

democrazia e capitalismo

Comprerò sicuramente il libro. Bisognerebbe adottarlo a scuola e leggerlo in piazza, nelle case, nei teatri... anzi perché non farlo? una lettura a teatro, con attori capaci? Servirebbe in questo momento in cui diffondere questa consapevolezza prima delle elezioni è la cosa più importante!
P.S.: perché "trilaterale"? Quali erano i lati? Su questo sito c'è un ottimo glossario, ma spesso si dimentica quanto sia importante portare i concetti fondamentali alla portata di chi nella vita fa altro, ma non vuole chiudere gli occhi davanti a quello che accade nel mondo...
e se poi gli autori accettassero anche di leggere i commenti, quando ce ne sono, sarebbe il massimo.

economia e gatuità

http:/www.pina-antigone.blogspot.it/2012/09/economia-e-gratuita.html

Ho trascorso tutta l'estate a casa, tra i lavori domestici e l'intreccio di fili colorati di parole. Fin dal mattino anelavo alla sera, a quel fresco che, finalmente, settembre ci ha regalato. Soltanto nell'ultimo scorcio di agosto, mi sono regalata qualche giorno di “divertimento”.

Sospesa tra la terra e il cielo dell'Umbria, ho ascoltato il cambiamento incessante della vita che si percepisce più distintamente quando in un intervallo di tempo, seppur minimo, si gode di un altro spazio. Mi sono allora ritrovata a Trevi, dove si teneva un convegno promosso dall'associazione Ore Undici http://www.oreundici.org/. Mi aveva trascinato lì il fascino delle parole chiave oggetto dell'incontro: Passione e Tenerezza. (http://www.oreundici.org/incontrin/2012/convegno_estivo_2012.shtml )

Tra le relazioni che ho ascoltato, tutte interessanti, una mi ha addirittura commossa. Quella dell'economista Luigino Bruni, che ha trattato “I bisogni e il desiderio dell'uomo al centro dello sviluppo economico”. Sappiamo tutti quanto l'Economia sia oggi l'argomento più discusso dei media e della vita quotidiana. Troppo in fretta sono andati in circolazione termini tecnici che non ci sono ancora chiari. Anzi, proprio l'incompetenza linguistica nell'ambito economico - incompetenza che in realtà equivale ad ignoranza e, quindi, a incomprensione dei fenomeni economici - alimenta in noi un senso di angoscia e di sfiducia.

Ebbene, il professor Bruni, con chiarezza e sentimento, ha raccontato l'economia come il luogo “delle passioni, dei bisogni, dei desideri, dei vizi e delle virtù umane”. La narrazione era appassionatamente sostenuta dal suo amore per la lingua e la letteratura. Proprio come un esperto narratore ha creato una storia con un punto di massima tensione: fino a pochi anni fa, nell'era dell'economia industriale, pur nella “eterogenesi dei fini”, tra il ricco e il povero sussisteva una reciprocità di interessi, in virtù della quale “il vizio del ricco diventava una virtù”. La Nuova Economia, invece, ha interrotto questo rapporto, generando lo squilibrio economico che attualmente ci spaventa. Ma Bruni non si è limitato ad una disamina storico - economica e ad illustrare come l'economia attraversi pure tutta la storia della Chiesa, a partire dall'idea del “giusto prezzo” sorta nei monasteri benedettini. Egli è stato anche in grado di individuare e spiegare con pacatezza e sentimento il fenomeno più doloroso del nostro tempo: “la dicotomia tra economia del dono ed economia del profitto”.

Occorre qui intendere che l'atto del “donare” è connaturato alla nostra vita, necessariamente protesa allo scambio. Senza il “dono” è impensabile la vita sociale. Anche il lavoro contiene un margine di “dono” che non potrà mai essere del tutto quantificato o ridotto a mero profitto. È il “plusvalore” della “gratuità” che ci fa umani.

L'affermazione di Bruni che mi ha commossa e ha rafforzato in me la convinzione che l'uomo non sarà mai ridotto a merce è, pertanto, questa: “L'uomo è gratuità”. A questo punto il relatore non ha tralasciato di ricorrere all'etimologia di “gratuità”. Il vocabolo deriva dal latino “Gratia”, greco “Χάρις (Chàris), e designa “Grazia, Bellezza, Armonia”. Inoltre, dal greco “Charis” è derivato il latino “Caritas” (con la perdita dell'aspirazione) che si divide tra il campo semantico dell'Economia e quello dell'Amore. Nel senso di Amore, Caritas equivale al greco ἀγάπη (agàpē), ovvero “amore incondizionato”.

Da questo momento in poi ho trascurato il taccuino e la penna e mi sono abbandonata all'ascolto con “passione e tenerezza” per me e per tutti gli esseri umani. Basta l'amore per cambiare il mondo. Se lavoro con amore, il mondo cambia, in qualsiasi mansione io sia impegnata. Ma quel di più che fa l'Amore non può essere quantizzato. Bruni ha detto bene: nessun dirigente o datore di lavoro dovrebbe rivolgersi ad un dipendente dicendogli: “che vuoi di più? per questo lavoro io ti pago”. Questa affermazione manca del riconoscimento di quella “gratuità”, ovvero “grazia” ovvero “amore” impagabili. Sicché, come ha ribadito Bruni, senza riconoscimento non c'è quella riconoscenza, della quale noi, esseri umani, abbiamo pur sempre bisogno, in nome di quella reciprocità del dono che dovrebbe rifondare il consorzio umano nell'era globale. Ma, per questa grandiosa opera, è necessario il contributo responsabile degli individui che, come ha affermato ancora l'economista, devono scoprire il loro δαίμων (dàimōn). Questo vocabolo greco unisce il campo semantico del sacro nel senso di “destino” inteso come “vocazione”, con quello economico della “giusta distribuzione” .

Si ritorna così ad un antico invito: “conosci te stesso”. E questa conoscenza, di per sé appagante, ci restituisce la sacralità della nostra unicità. Il senso di pienezza vissuto nell'atto di riconoscersi non verrà meno neanche se saremo costretti a svolgere un lavoro lontano dalle nostre aspirazioni a causa della contingenza economica. Ma non per questo smetteremo di ascoltare la nostra vocazione. Vorrei concludere però con questa postilla: al “conosci te stesso” corrisponde reciprocamente il “riconosci l'altro".
In una società fondata su “riconoscimento e riconoscenza” sarebbero valorizzate le vocazioni e le competenze per un benessere condiviso, ben più vantaggioso di quello ristretto ed iniquo della “economia del profitto”. Forse la nostra Italia, e non solo, soffre la decadenza per aver misconosciuto e disprezzato il sacro dàimōn di ogni essere umano.