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La tecnologia da sola non basta

25/11/2008

Investimenti nelle Ict contro la crisi? Non sono sufficienti non si investe anche nell'organizzazione. Per rendere più flessibile l'impresa, non i suoi dipendenti

In un articolo su questo sito Davide Arduini sostiene la tesi che per uscire dalla crisi occorre investire essenzialmente nelle ICT, argomentando che questo tipo di investimento sarebbe stato uno dei principali fattori alla base del differenziale di crescita economica, occupazione e produttività tra gli Usa e i paesi europei nella seconda metà degli anni novanta.

Se si osservano i dati della tabella 1, Arduini potrebbe avere forse qualche ragione. In effetti gli Usa hanno avuto nel tempo un tasso di accumulazione in ICT superiore alla media dei paesi europei.

 

 

Tab. 1 - Investimenti in ICT

 

Quote medie annue in ciascun periodo degli investimenti in ICT rispetto al PIL (a prezzi correnti)

 

 

Periodi

 

 

Italia

 

 

Francia

 

 

Germania

 

 

Spagna

 

 

Regno Unito

 

 

Stati Uniti

 

 

 

 

 

(in €)

 

 

(in €)

 

 

(in €)

 

 

(in €)

 

 

(in £)

 

 

(in $)

 

 

1991-1995

 

 

1,8

 

 

1,6

 

 

2,1

 

 

2,0

 

 

2,4

 

 

3,1

 

 

1996-2000

 

 

2,1

 

 

2,3

 

 

2,2

 

 

2,5

 

 

3,3

 

 

4,2

 

 

2001-2005

 

 

1,9

 

 

2,5

 

 

2,0

 

 

2,1

 

 

2,9

 

 

3,8

 

 

Fonte: OECD, Productivity database, July 2007

 

Tuttavia uno sguardo agli andamenti di lungo periodo della produttività totale dei fattori (tabella 2) sembra suggerire una situazione più articolata e complessa.

 

 

Tab. 2 - Andamento di lungo periodo della produttività totale dei fattori, 1985-2005

 

Variazioni % medie annue in ciascun periodo

 

 

Periodi

 

 

Italia

 

 

Francia

 

 

Germania

 

 

Regno Unito

 

 

Stati Uniti

 

 

Giappone

 

 

1991-1995

 

 

1,2

 

 

1,1

 

 

n.d.

 

 

1,6

 

 

1,5

 

 

0,7

 

 

1996-2000

 

 

0,3

 

 

1,4

 

 

1,3

 

 

1,5

 

 

1,4

 

 

1,3

 

 

2001-2005

 

 

-0,6

 

 

0,9

 

 

0,7

 

 

1,3

 

 

1,7

 

 

1,4

 

 

∑ % 1996-2000

 

 

1,5

 

 

7,0

 

 

6,5

 

 

7,5

 

 

7,0

 

 

6,5

 

 

∑ % 2001-2005

 

 

-3,0

 

 

4,5

 

 

3,5

 

 

6,5

 

 

8,5

 

 

7,0

 

 

∑ % 1996-2005

 

 

-1,5

 

 

11,5

 

 

10,0

 

 

14,0

 

 

15,5

 

 

13,5

 

 

Gap 1996-2005

 

Italia rispetto a:

 

 

-

 

 

-13,0

 

 

-11,5

 

 

-15,5

 

 

-17,0

 

 

-15,0

 

 

 

 

Fonte: OECD, Productivity Database, July 2007 (n.d. = non disponibile).

 

Infatti, a parità di investimenti in ICT la dinamica cumulata della TPF (produttività totale dei fattori) è marcatamente diversa. Per esempio, ci si può chiedere se le ICT da sole siano in grado di spiegare perché gli Usa hanno un’accelerazione nella loro TFP nel primo quinquennio del presente secolo rispetto al quinquennio precedente, mentre il Regno Unito – che ha lo stesso profilo di investimenti in ICT degli Usa – registra una decelerazione. La risposta sembra risiedere nel diverso tasso di investimento nei cambiamenti organizzativi degli Usa rispetto al Regno Unito e nei lag temporali: mentre gli USA hanno incominciato ad investire già negli anni ’80 in ICT e in cambiamenti organizzativi (inseguendo il modello della lean production giapponese), il Regno Unito si è limitato a fare, e solo a partire dagli anni ’90, investimenti che sono stati essenzialmente in ICT. E in quest’ultimo periodo i dati segnalano puntualmente una dinamica divergente nella TFP dei due paesi.

 

Lungo la stessa linea di ragionamento, diverse ricerche1 portate a termine in questi ultimi anni in vari paesi industrializzati, sul tema della produttività, hanno documentato che gli investimenti in nuove tecnologie (ICT) non danno luogo ai rendimenti attesi se non vengono attuati, simultaneamente, cambiamenti tanto nel disegno organizzativo delle imprese quanto nelle pratiche lavorative. Ciò che serve per consentire alle nuove tecnologie ICT di poter esplicitare tutti i loro effetti è ben riassunto nello studio della Commissione Europea del 1997 (Partnership for a new work organization); precisamente: (1) una reingegnerizzazione del disegno organizzativo dell’impresa, con l’abbandono della configurazione basata sulle funzioni per adottarne una basata sui processi; (2) adozione di una progettazione del lavoro basata sulla squadra (con poteri alla stessa) e conseguente riduzione/contenimento dei livelli gerarchici; (3) creazione di gruppi interfunzionali per attività di problem solving; (4) coinvolgimento e consultazione dei singoli lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali; (5) l’adozione di sistemi dei suggerimenti dal basso con incentivi economici; (6) costruzione dei ruoli di polivalenza e policompetenza; (7) rotazione strategica della manodopera (con affiancamento nelle fasi iniziali); (8) valutazione periodica della performance individuale; (9) incentivi di breve (per apprendere e sviluppare le competenze) e infine (10) incentivi di lungo (con carriere in diagonale). L’insieme di questi cambiamenti deve avvenire simultaneamente, e contestualmente all’introduzione delle nuove tecnologie, affinché il loro sinergico operare dia luogo a risultati significativi.

 

Le verifiche presenti nella letteratura internazionale provano che i risultati attesi di questi cambiamenti sono costituiti da:

 

  1. maggior produttività, più elevata redditività e più cospicui salari;

     

  2. una crescita (implicita) delle competenze dei lavoratori, una maggior workplace satisfaction e un maggior commitment dei lavoratori stessi; nonché:

     

  3. maggior propensione dell’impresa all’innovazione sia dei prodotti sia dei processi.

     

 

Nonostante diverse evidenze empiriche documentino la superiorità economica delle nuove forme organizzative, la loro diffusione non è avvenuta – o non sta avvenendo – in modo lineare, per effetto anche di non poche resistenze e ostacoli. Questi ultimi sono stati, fra l’altro, ben documentati dallo studio della Commissione Europea del 2002 (New Forms of Work Organisation: the Obstacles to Wider Diffusion), e riguardano precisamente idiosincrasie dei manager e degli imprenditori e resistenze sindacali. Questi aspetti sono stati anche oggetto in diversi paesi europei di programmi di politica industriale volti al loro superamento e ad una più ampia diffusione e sviluppo della nuova organizzazione del lavoro. Per un elenco di questi programmi si rinvia a Leoni (2008, cap. 9, appendici).

 

L’Italia è fra i pochi paesi che hanno ignorato la potenzialità dell’organizzazione flessibile e del pieno sviluppo delle risorse umane in termini di abilità e competenze, preferendo anzi percorrere una strada opposta, quella della flessibilità del rapporto di lavoro (legge Treu del 1997 e legge Biagi del 2003), anziché quella della flessibilità ‘interna’ dell’impresa. Il riscontro di questa nostra tesi è costituito dalla scarsa diffusione, rispetto ai nostri competitor, delle nuove configurazioni organizzative ad alta performance, precisamente quelle indicate dalla Commissione Europea. E il prezzo che il paese sta pagando in termini di gap di produttività (tabella 2) sta diventando davvero pesante e inconcepibile.

In una seconda argomentazione Arduini richiama in causa la dimensione d’impresa, ma anche su questo punto sembra opportuno un ulteriore momento di chiarezza. La specializzazione produttiva italiana, caratterizzata da piccole imprese operanti in settori tradizionali, a basso contenuto tecnologico e a bassa intensità di manodopera qualificata, è stata più volte indicata come il fattore esplicativo delle difficoltà di tenuta delle quote di esportazioni, penalizzate da una dinamica dei prezzi influenzata pesantemente da una scarsa produttività dell’apparato produttivo. Le analisi di Foresti et al. (2006, p.90, tab. 4) quantificano tre effetti: (i) dimensionale, (ii) settoriale e infine (iii) competitivo. Quest’ultimo è rappresentato da quella parte di deficit di produttività che sarebbe attribuibile, a parità di struttura settoriale e dimensionale, alla specificità dell’impresa media italiana. Questi autori dimostrano che, prendendo a riferimento la matrice media (settori-dimensioni) di Francia, Germania e Regno Unito, e ponendo uguale a 100 il differenziale della dinamica della produttività del periodo 1996-2002, il fattore settore-dimensioni spiega solo il 18% di tale differenziale. Rimane quindi ancora da spiegare l’82% del peggioramento del deficit della produttività e questo nonostante i ponderosi provvedimenti di politica economica tesi alla flessibilizzazione del mercato del lavoro, i diversi e ripetuti interventi di riduzione del costo del lavoro attuati dalle varie Leggi Finanziarie annuali, e le consistenti iniezioni di tecnologie ICT di cui alla tabella 1 sopra riportata.

Proprio le argomentazioni qui avanzate (ed altre, sviluppate in Leoni, 2007 e Acocella e Leoni, 2007) hanno convinto gli scriventi e Leonello Tronti a stendere un manifesto per un patto sociale per la produttività che propone una doppia (complementare) triangolazione, la prima tra investimenti in ICT, cambiamenti organizzativi e nuove pratiche di lavoro, la seconda tra Associazioni datoriali, Associazioni sindacali e Governo per uno «scambio politico» fra moderata crescita del salario reale e crescita degli investimenti in ICT e in capitale organizzativo, tanto nel mondo delle imprese private quanto nella miriadi delle organizzazioni pubbliche.

 

Nel concludere, sembrerebbe insipienza non fare tesoro in questo momento di crisi strutturale della pregnante tesi di Kenney e Forida (1993), secondo cui il sistema di produzione lean (anche nell’accezione di formule applicative variegate) ha la prerogativa di mobilitare l’intelligenza di un più ampio numero di lavoratori e di creare una nuova sintesi, qualitativamente migliore, tra lavoro manuale e lavoro mentale rispetto al modello tradizional-fordista. E questo è proprio ciò che, in un contesto di continui cambiamenti, di elevata volatilità e di incertezza sostanziale, sia agli individui che alle organizzazioni produttive in quanto tali, viene maggiormente richiesto, vale a dire un’attività cognitiva e comunicativa (Cainarca e Zollo, 2001), ovvero una competenza distintiva nella sfera delle analisi e delle interpretazioni dei fatti economico-produttivi nonché delle interazioni fra i vari soggetti coinvolti. E il patto proposto mira proprio a creare un luogo di lavoro con queste caratteristiche. Va da sé che il patto dovrebbe essere sorretto da numerose altre politiche pubbliche, in primis da una opportuna riforma del sistema educativo lungo le linee suggerite da pochi, ma attenti, osservatori come ad esempio, Aldo Schiavone (Repubblica, 12.10.2008)

 

Riferimenti bibliografici

 

Acocella N., Leoni R. (a cura di) (2007), Social Pacts, Employment and Growth. Reappraisal of Ezio Tarantelli's Thought, Physica-Verlag, Heidelberg.

 

Leoni R. (2007), Il crollo della produttività in Italia: le mancate complementarità tra nuove tecnologie, cambiamenti organizzativi e coinvolgimento dei lavoratori, Quaderni Rassegna Sindacale – Lavori, n. 4.

 

Leoni R. (a cura di) (2008), Economia dell’innovazione. Disegni organizzativi, pratiche lavorative e performance d’impresa, Franco Angeli, Milano.

 

Leoni R. (2009), Adozione dei nuovi disegni dei luoghi di lavoro, pratiche innovative di lavoro e produttività d’impresa. Un’introduzione, in Albertini S., Leoni R. (a cura di), Innovazioni organizzative e pratiche di lavoro nelle imprese industriali del Nord, Franco Angeli, Milano (in corso di stampa).

 

1 Tutti i riferimenti bibliografici di questo scritto sono recuperabili in Leoni (2007, 2008 e 2009).

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