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Le radici ideologiche di Monti

25/01/2012

Monti rappresenta il trionfo della tecnocrazia e il tramonto della democrazia di massa, sin da quando l'Europa è diventata la cruna dell'ago neoliberista

...a toglier l’ultimo velo alla finzione del mercato come legge naturale provvede, dall’alto del suo scranno di commissario della Commissione europea, il più conseguente dei sacerdoti del vincolo esterno. Mario Monti inizia il suo volo là dove è giunto Padoa-Schioppa, quando ha rilevato che di fatto, i criteri di Maastricht dal 1992 «sono divenuti il catalizzatore della politica economica, in Italia come in altri paesi». Nel mettere in evidenza come l’euro abbia rappresentato la «più grande applicazione di Supply Side Economics, economia dell’offerta, mai realizzata, la più grande spinta alla liberalizzazione ed alla privatizzazione», Monti sottolinea come l’ingresso nell’euro abbia sanato solo alcuni mali dell’economia italiana, ma non l’abbia resa competitiva. Per conquistare il prescritto stato di grazia e mantenerlo, per dotarsi di una struttura economica e sociale capace, senza più l’ammortizzatore della moneta e del suo cambio, di rispondere positivamente agli shock che l’esposizione ad un mercato ipercompetitivo produrrà, v’è bisogno di un «Piano per lo smantellamento delle rigidità, per un'Italia competitiva, con scadenze e meccanismi di verifica», un piano di liberalizzazione, di smantellamento delle rigidità del sistema, del mercato del lavoro, come degli aiuti di Stato, insomma dei vincoli all'economia. Oggi abbiamo bisogno di una «programmazione che dovrebbe distruggere i pezzi di socialismo e di statalismo che ancora ingessano l'Italia»: è proprio il «vincolo esterno», adesso in gran parte rappresentato dal patto di stabilità, che adesso si costituisce in «obbligo internazionale a fare le riforme».

Il dado è tratto. Le parole più esecrate, vitanda verba, fioriscono ora sulla bocca del liberista più conseguente, ad ulteriore riprova del carattere altamente precettivo, molto poco astensionista, della Costituzione disegnata a Maastricht. Per realizzare appieno la libertà del mercato v’è bisogno di intervenire con una specifica programmazione, articolata in scadenze e verifiche. Come già per l’utopia del mercato autoregolato propria del XIX secolo, perseguita sulla base di «una deliberata azione da parte dello Stato», anche per la grande trasformazione allestita da Maastricht per il XXI secolo vale l’insegnamento di Polanyi: ancora una volta «il laissez-faire era pianificato». D’oltralpe, dalle terre di Francia, un neo-liberista professo (Alain Minc) proclama l’indefettibile compito dei dirigenti del secolo prossimo venturo: «il mercato è uno stato di natura della società, ma il dovere delle élites è di farne uno stato di cultura». Dall’altra parte del Reno, quelle che erano sembrate preoccupazioni o ossessioni d’ordine squisitamente economico hanno modo di tradursi in precisi ammonimenti e prescrizioni politiche: a più riprese, si sottolinea che la questione vera dell’Italia nel suo rapporto con l’UEM è nei suoi meccanismi costituzionali, nella centralità così forte attribuita al Parlamento. Urge «cambiare la Costituzione» (Hans Siebert). Di fatto esistono un sesto e settimo criterio di convergenza: riguardano stabilità politica e Welfare, «quel sistema di interdipendenze crescenti che sta dietro Maastricht» e che costringe l’Europa e l’Italia «a stringersi per reggere meglio nuove e difficili sfide globali» (Enrico Letta) ...

L’utopia di una moneta e di un mercato autoregolati, senza Stato, si istituisce come orizzonte di una storica rivincita della cultura liberale. É il trionfo della tecnocrazia, del sapere incorporato in tecniche di governo assunte a principi ultimi del processo di integrazione... Adesso la crisi della politica giunge al punto di delegare alla tecnica la costituzione dei limiti e paletti ultimi: in questo orizzonte, matura uno storico trapasso di ceti e figure, tramonta la democrazia di massa che ha presieduto ai primi cinquant’anni della storia repubblicana ...

Rilevazioni preoccupate dipingono un paese disossato della sua armatura civile, democratica, produttiva, privo di centri di eccellenza e in drammatico declino quanto alla sua capacità d’influenza sulla scena mondiale: un popolo di «volenterosi, ma ultimi della classe» (Mario Deaglio). Al di là delle trasformazioni avvenute nel sistema economico, di più difficile percezione sono i mutamenti prodotti dalla corsa a divenire europei sul modo d’essere degli italiani, o meglio su quell’obbligazione a farli eguali per tenerli uniti che è stata, solo nella storia più prossima, a fondamento del vincolo repubblicano e di una comunità vissuta democraticamente ...Ora imperversa il brusco comando ad adeguarsi o a separarsi. Si torna a disegnare cartografie d’altri tempi: vi campeggia un Mezzogiorno in finibus infidelium. É sul Mediterraneo delle carte Nato o UEO che ora riappaiono le stampiglie: hic sunt leones. Questo il frutto avvelenato e più duraturo di un’ideologia che ha distorto e compresso l’Europa a cruna dell’ago neo-liberista, morso della sua globalizzazione.

brano tratto da Dopo Maastricht. Cronache dall'Europa di fine secolo, Edizioni la Meridiana, Molfetta, 1997, pp. 268-277

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