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Banche 2012. N. 2: che cosa farne?

28/12/2011

L'industria bancaria non è come le altre, per la natura del rischio e per le dimensioni senza limiti. Ecco perché l'autoregolamentazione è un'illusione

Nella prima parte di quest'articolo si è parlato delle criticità dell'istituto dei bonus come meccanismo di remunerazione dei manager delle banche, non solo e non tanto dal punto di vista etico ma sotto il profilo tecnico, della gestione del rischio.

La linea di difesa a favore dei banchieri e dei gestori del denaro (altrui, si badi bene e non proprio!) è che l’attività bancaria è una attività ad alta professionalità, per cui se non adeguatamente (qualunque cosa significhi) remunerata, comporterebbe l’esodo dei talenti migliori.

Ma maggiori profitti significano, maggiori rischi, quindi gli attuali sistemi retributivi ad incentivo adottati dalle banche sono distorsivi, in quanto accentuano l’assunzione di rischi.

Ora si può obiettare che non esiste attività economica priva di rischio e che, probabilmente, lo stesso profitto sia una funzione correlata positivamente al rischio.

La nostra tesi è che il rischio nel settore bancario sia di natura diversa dal rischio delle altre attività economiche. Per queste ultime il rischio è legato all’attività di introdurre innovazioni, che significa realizzare degli investimenti i cui risultati finali potrebbero non coincidere con le aspettative.

Il rischio dell’attività finanziaria non è un rischio da innovazione, ma un rischio da insolvenza, dipendente cioè dalla esecuzione di un contratto.

Gli imprenditori, potendo, evitano i rischi da insolvenza (pensiamo a settori come la grande distribuzione) oppure sono disposti a pagare un prezzo per eliminarlo (commissione pro soluto). In altre parole mentre in genere il rischio da insolvenza è un rischio da evitare, per le banche è la loro ragione d’essere! Inoltre per le banche il rischio di insolvenza è un multiplo della valore della transazione; multiplo che paradossalmente cresce quanto più il costo unitario della transazione (interesse) è basso, cioè meno generatore di profitti.

Se poi il rischio viene misurato dagli stessi manager incentivati a perseguire livelli sempre più elevati, comportamenti di moral hazard si tradurranno, per forza di cose, nella sottovalutazione sistematica dell’ammontare del rischio assunto. Se, infine, teniamo conto come molti prodotti finanziari siano tecnicamente complessi (molto spesso questo termine è sinonimo di poca trasparenza – come è successo per ‘l’impacchettamento’ delle rate dei mutui subprime) allora anche il ricorso a valutatori esterni del rischio, come le agenzie di rating, è inefficace (anche nell’ipotesi che le agenzie di rating fossero soggetti veramente indipendenti, senza rischio di conflitti di interessi con il soggetto valutato).

La dimensione del mercato del credito

Un terzo elemento che differenzia l’industria bancaria dagli altri settori economici, è rappresentato dalla dimensione del mercato.

Forse il sogno di ogni impresa è quello di riuscire a vendere quantità crescenti dei beni o servizi prodotti. Il limite all’investimento è, in ultima istanza, rappresentato dalla quantità di beni e servizi che si presume il mercato possa assorbire.

Questo limite, per così dire, naturale all’espansione, non colpisce l’industria bancaria. Quello che una banca vende – l’uso del denaro – ha sostanzialmente una domanda quasi illimitata. Il limite non è rappresentato dalla quantità vendibile, ma del rischio sopportabile da parte della banca.

Mentre nell’economia reale il limite all’espansione è rappresentato dalla potenzialità della domanda, nell’economia finanziaria è rappresentato dall’assunzione del rischio. Ma il rischio sopportabile è un valore difficilmente misurabile (anche escludendo l’apparizione del cigno nero di Taleb) come abbiamo già spiegato. La sua misurabilità è inoltre condizionata da un sistema retributivo incentivante distorsivo: maggiori rischi comportano maggiori profitti e maggiori profitti comportano maggiori bonus per i dirigenti. Per aumentare i bonus, sottovalutare i rischi diventa un sistema quanto mai semplice.

L’economia finanziaria si muove quindi all’interno di un circolo vizioso quanto mai pericoloso.

 

Conclusioni

La differenza fra l’industria bancaria e qualsiasi altro settore di attività di produzione di beni e servizi, ci sembra porti inevitabilmente alla conclusione che il mercato non sia in grado di autoregolamentare la produzione dell’industria del credito.

Il sistema bancario prima degli anni ’80 in molti paesi aveva prodotto radicate forme di oligopolio, le cui inefficienze erano scaricate sui clienti. Deregolamentare questi aspetti dell’attività bancaria, ha sicuramente prodotto vantaggi per i clienti. Ma quando la deregolamentazione ha invaso la mancanza di controlli sulla quantità e qualità delle operazioni di investimento svolte, la situazione attuale era già scritta negli atti di deregolamentazione degli anni ’80: anzi può solo stupire quanto tempo sia stato necessario per arrivare alla situazione di oggi!

Alcuni critici del sistema bancario hanno avanzato proposte per un ritorno all’antico, differenziando per esempio l’attività delle banche commerciali dalle banche di investimento o anche proponendone la nazionalizzazione.

Regolamentare gli impieghi bancari rispetto al loro patrimonio ha, come ratio, quella di difendere i depositanti dall’essere travolti dalla diffusione di rischi sistemici.

I vantaggi della nazionalizzazione del sistema bancario ci sembrano più oscuri ed i sostenitori di questa tesi dovrebbero, a mio avviso, spiegarlo con maggiori dettagli, perchè la nazionalizzazione delle banche di per sé non incide sulla caratteristica del rischio connesso alla produzione bancaria, così come abbiamo cercato di spiegarlo.

Aldilà di queste valutazioni, l’unica cosa certa è quanto il sistema bancario (oltre ogni buona intenzione di Basilea ennesima) sia delicato per essere lasciato alla autodeterminazione del mercato.

PS: La tesi finale di questo articolo, cioè che sia necessario regolamentare le attività finanziarie è probabilmente di larga condivisione.

Per arrivare a questa conclusione ho però seguito un percorso che potrebbe suscitare perplessità.

La regolamentazione che ha caratterizzato le attività finanziarie sino agli anni ’80, secondo molti storici americani, è stata la conseguenza di una spinta populista, che nasce già nell’800 e si rafforza durante la grande depressione degli anni ’30. I principali limiti regolamentativi hanno riguardato, per le banche commerciali, l’espansione territoriale, l’assunzione di partecipazioni o impieghi a lungo termine, per le banche di investimento la raccolta di depositi presso il pubblico e per i fondi pensione il limite per gli investimenti azionari.

Il tentativo delle banche commerciali di autoregolamentare il rischio assumibile attraverso gli accordi di Basilea non sembra abbia prodotto i risultati necessari: Basilea II non era ancora andata a regime che già si è cominciato a discutere di Basilea III!.

Credo sia molto complesso riproporre sistemi di regolamentazione basandosi solo su forme di indignazione morale.

La mia ambizione (forse eccessiva) è stata di contribuire a ricercare una base razionale per sostenere un nuovo processo di regolamentazione, basandosi su quelle che ho ritenuto essere elementi profondamente distintivi dell’industria finanziaria rispetto alle altre forme di attività economica.

 

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Commenti

Per le banche regole, regole e poi ancora regole

Splendidi questi due articoli di Antonio Zanotti sull'industria finanziaria. Mi pento e mi scuso per averli letti in ritardo a causa del periodo festivo. Ne traggo alcune conclusioni, qualcuna ovvia. La prima è che le banche sono imprese troppo rivolte all'interesse pubblico perché le si lasci incondizionatamente in mano ai privati. La seconda è che urge specie in Italia una profonda riforma bancaria. Su quali principi? In breve: a) elevare il rapporto tra patrimonio e impieghi per tutelare i depositanti mettendoli al riparo dalla voracità e dalle follie degli amministratori delle banche; b) separare e dunque specializzare le banche tra banche commerciali e banche d'investimento evitando i rischi delle cosiddette banche universali; c) stabilire limiti alle sofferenze ammissibili in rapporto ai crediti concessi pena la decadenza degli amministratori; d) rafforzare e promuovere le banche attive sui mercati locali, le banche di dimensione e operatività minori, che stabiliscono rapporti più diretti con la clientela degli affidati di cui si conosce il merito al credito. Che tutto ciò passi per la nazionalizzazione delle banche, non credo che sia una conseguenza necessaria. Che si riducano gli amministratori al ruolo di funzionari ben pagati ma pagati molto meno di quanto oggi accade, immuni però dalla tentazione di avventurarsi su grandi, opache operazioni, mi appare ragionevole. Cesserebbe lo scandalo di avventurieri che lucrano benefici legati a risultati fittizi e che una volta congedati incassano cifre scandalose per la buonuscita. Oggi la loro buonuscita è astronomicamente legata alla cattiva riuscita della loro dissennata gestione.