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Unione europea, le tre crisi del welfare

04/04/2014

Social compact/
 Gli occhi di Bruxelles sono tutti per il deficit di bilancio. Ma il deficit sociale di molti paesi con i tassi di povertà assoluta che aumentano, la disoccupazione che cresce, le politiche di conciliazione che non vengono neppure più nominate, non produce richiami né ri-pensamenti delle politiche di austerità

I welfare state nazionali in Europa sono attraversati da più di una crisi, non riducibili solo a quella finanziaria. In primo luogo, e forse da più tempo, vi è una crisi di efficacia e appropriatezza a fronte dei mutamenti avvenuti negli assetti famigliari, demografici, di mercato del lavoro ed economici. Questa crisi a sua volta produce tensioni tra il bisogno di innovare e modificare in parte i modelli di welfare consolidati, per renderli più adeguati alle nuove circostanze, e le resistenze che derivano non solo da diritti, e talvolta privilegi, acquisiti, ma dal timore che l’innovazione si traduca semplicemente in una riduzione generalizzata di diritti, senza che ciò produca miglioramenti complessivi e neppure maggiore equità. Si tratta, perciò, anche di una crisi di legittimità. La terza crisi è finanziaria, in un contesto in cui i governi nazionali hanno poco potere decisionale. Questa terza crisi, infatti, è l’esito di tre fenomeni distinti: a) la riduzione delle ricorse a causa della crisi iniziata a fine 2009 e tuttora perdurante; b) l’indebolimento della capacità dei governi nazionali di controllare il flusso delle risorse a causa della globalizzazione e di quello che è stato chiamato footlose capitalism, il capitalismo senza territorio; per i paesi dell’eurozona, gli squilibri creati da un’unione monetaria senza unione politica e fiscale e dall’acuirsi delle divisioni tra i paesi cosiddetti creditori e quelli cosiddetti debitori. Non vi è dubbio che la crisi finanziaria acuisce le prime due, riducendo lo spazio per compensazioni e compromessi. Il ruolo di primo piano che tuttavia ha assunto nel discorso pubblico e nelle decisioni che informano le politiche nazionali ed europee, rischia di mettere in ombra le altre due, o di ridurle a semplici esiti di una mancanza di risorse, senza, quindi, permettere di affrontare i problemi da cui originano, indipendentemente dalla carenza di risorse.

Allo stesso tempo, il ruolo assunto dall’Unione Europea nel dettare le regole per affrontare la crisi ha ulteriormente indebolito lo spazio che hanno le politiche sociali e la costruzione di un modello sociale europeo nella costruzione della Unione.

Ovviamente, sia l’intensità di ciascuna di queste tre crisi distinte, il grado della loro interdipendenza, le risorse per affrontarli variano da paese a paese sulla base non solo della salute delle loro economie e del potere negoziale che hanno all’interno dell’Unione Europea, ma anche della lungimiranza che hanno avuto nel recente passato nell’affrontare la prima crisi. I paesi, infatti, che da più tempo si sono attrezzati per rispondere all’aumento nella partecipazione delle donne al mercato del lavoro, alla richiesta di maggiore eguaglianza tra uomini e donne, ai bisogni provocati dall’invecchiamento, alla necessità di non sprecare le proprie risorse umane creando condizioni di pari opportunità tra i bambini per correggere le disuguaglianze nell’origine famigliare, che hanno capito che un mercato del lavoro mobile e flessibile aveva bisogno di rafforzare e modificare le proprie reti di protezione, sono stati colti meno impreparati dalla crisi, con strumenti più adeguati. Anche se in tutti i paesi vi sono tensioni attorno a se e come ridefinire gli strumenti di welfare.
In questo contesto, non solo le politiche di austerità, ma il discorso con cui sono state argomentate a livello Ue, il diverso uso delle sanzioni e dei richiami che vengono fatti se si sfora il patto di stabilità piuttosto che se non si realizzano gli obiettivi sociali ha fortemente indebolito i welfare state già in partenza più deboli e più bisognosi di riforma, come quello italiano, facendo passare l’idea che il welfare state sia la causa, se non della crisi tout court, del debito pubblico.
 Gli occhi di Bruxelles sono tutti per il deficit di bilancio. Il deficit sociale di alcuni paesi, tra cui l’Italia, con i tassi di povertà assoluta e deprivazione che aumentano, la disoccupazione che cresce, le politiche di conciliazione che non vengono neppure più nominate – benché vistosamente lontani dagli obiettivi di Europa 2020 – non produce né richiami, né ri-pensamenti della politica di austerità.

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