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15 ottobre
Chi è che non ha futuro?
La crisi e i giovani, dopo il 15 ottobre
Una ragazzina che conosco, pur non essendo ancora in età di andare alla manifestazione del 15 ottobre (e per fortuna), ha detto la sua, vedendo i servizi della vigilia in tv: “E' perché noi non abbiamo futuro”. Mettendo in fondo alla domanda il punto interrogativo che lei non ci aveva messo, i genitori hanno risposto: no, non è vero, ce l'avete.
Mi è tornata in mente questa scena della vigilia, dopo la manifestazione globale del 15 ottobre. Quella mondiale, e la sua declinazione tra le rovine romane. Non è giusto – perché non è vero -, far passare questo luogo comune: non abbiamo futuro. Una frase diventata retorica al punto da essere ripetuta come un fatto assodato da una ragazzina di dodici anni. E' il sistema economico nel quale viviamo che, se continua così, non ha futuro; e chi è messo in maggior sofferenza da questo stato di cose – tutti, ma in particolare i più giovani – ha la necessità fisiologica di cambiarlo. Quindi ha un futuro pieno, parecchie cose da fare, studiare, vedere, far girare, con tutta quella roba che da nativi digitali padroneggiano alla grande.
“The outsiders”, era il titolo dell'Economist a questo grafico qualche tempo fa:
Un grafico impressionante, che dice che la Grande Recessione si è abbattuta soprattutto sui giovani, che hanno fatto da cuscinetto umano sul mercato del lavoro: i loro contratti temporanei e flessibili sono stati i primi a saltare, così come sono entrate in sofferenza tutte quelle fasce di lavoro indipendente non intruppato nelle corporazioni antiche e chiuse. E tra i giovani, le donne più che i maschi soffrono i contraccolpi di una crisi che le lascia fuori dal lavoro o al di sotto del lavoro per il quale si sono qualificate; e le donne più che i maschi soffrono per l'esclusione di fatto e di diritto dalle tutele del welfare. Insomma, senza farla lunga: è scandalosamente evidente l'impatto generazionale di questa crisi, che nel caso europeo si abbatte proprio su quella generazione che con l'Europa unita è nata e cresciuta, una generazione “comunitaria” e non solo per qualche Erasmus, ma per nascita. Perché allora dico che dobbiamo smetterla di dire: “siete (o siamo, a seconda dell'età di chi parla) senza futuro”?
Intanto perché le esagerazioni stancano. E sono pericolose: se non ho futuro, perché mai dovrei preoccuparmi, che so, dei beni comuni, dell'acqua o dell'aria, ma anche di una piazza di Roma o di chi rimpiazzerà il cassonetto che ho bruciato? E poi perché qualcosa è successo, dal 2008 in poi. La crisi finanziaria e poi economica e poi dei bilanci pubblici ha messo a nudo un sistema malato. A posteriori, abbiamo visto che era malato anche nella sua crescita (molti l'avevano visto anche prima, inascoltati e non studiati: parliamo di quella parte del pensiero economico che non si era accucciata sui manuali del luogo comune). Ma insomma, adesso è evidente che è malato. Che la finanza deve tornare a finanziare, a dare credito all'economia e non a far vorticare la speculazione. Che il mercato non può invadere tutte le sfere della vita, che va recintato, e anche laddove resta, quei recinti vanno regolati e controllati, perché non è vero che la somma degli animal spirits al loro interno porterà più benessere per tutti. Che la diseguaglianza non è solo ingiusta ma dirompente. Che non può durare per molto la società dell'1% - l'1% più ricco della popolazione, ricorrente negli slogan del 15 ottobre: ma diciamo pure il 10%, quello che in Italia ha il 45% della ricchezza in mano. Che i poteri dell'economia non possono essere più vasti di quelli della politica, sennò la politica si riduce a seguire l'economia o incerottare le vittime dei suoi danni. Che le risorse sono limitate, e solo tenendone conto si può tornare a immaginare e pianificare un'idea comune e sostenibile dello sviluppo.
Insomma, cose persino ovvie, che sono anch'esse un po' senso comune come quel “non abbiamo futuro” tracimato dalle interviste tv nella testa di una ragazzina piena di sogni, allegria e aspettative. E' vero: la politica non c'è, non segue, o non precede, ma ancora si fa infinocchiare dalle presunte leggi di Wall street. Ma c'è nella pratica quotidiana di moltissime persone, nelle relazioni vecchie e nuove, anche in alcuni “vecchi” luoghi – sindacati, partiti, collettivi – ma soprattutto nei nuovi (lo si è visto in primavera con le amministrative e con i referendum); e nei movimenti, dall'Onda all'Occupy Wall street. Dentro i quali, non si tratta di distinguere tra buoni e cattivi, intesi come persone: ma tra obiettivi buoni e obiettivi sbagliati sì, penso che sia necessario distinguere. Tra cose utili e cose inutili e dannose. Tra politica e non-politica. Tra logica collettiva e narcisismo individuale. Tra sofferenza sociale (ammesso che questo sia: ma esiste un monopolio e un solo stile della sofferenza sociale? Se dobbiamo osservarla e capirla, i posti sono tantissimi, fuori dai cortei) e ribellione politica. A sedici anni, di tutto ciò puoi anche non capire niente, o infischiartene – soprattutto se vivi nel luogo comune che “non abbiamo futuro” -; ma già dopo i venti no. “Se la cultura costa troppo, pensate l'ignoranza”, diceva uno striscione a Valencia: ecco, appunto, ci sono cose che un grande movimento non può permettersi di ignorare – se ne sta discutendo, spero con l'idea di inaugurare davvero un'epoca nuova.
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