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E ora un G6 (miliardi)

03/04/2009

Tutto il pianeta ha guardato con il fiato sospeso al vertice dei capi di governo di Londra del 2 aprile, scrutando tra le decisioni del G20 quella che potrebbe aumentare la possibilità di trovare un posto di lavoro, di rifinanziare un mutuo, di accedere ad un credito per una piccola impresa e, nelle parti più povere del mondo, addirittura mandare a letto i propri figli con la pancia piena.
Tante speranze e tanti timori, ma è il G20 l’istituzione adatta per affrontarli? Sotto il profilo della legittimità, il G20 non ne ha alcuna. Non ha neppure un impiegato, non ha una sede e tanto meno uno statuto. I manuali di relazioni internazionali non sanno, infatti, come trattarlo, nel mezzo tra una organizzazione internazionale e una prassi più formalizzata dei normali canali diplomatici. Nonostante il nome, non ha neppure 20 stati membri: ne ha solamente 19, a cui si aggiunge di rinforzo il rappresentante dell’Unione Europea. I governi membri non sono certamente dei pesi piuma: rappresentano, come loro stessi spesso ci rammentano, l’85 per cento della produzione mondiale, l’80 per cento del commercio e due terzi della popolazione. Ma questi sono titoli meramente quantitativi, e ci dicono ben poco sulla legittimità. Al Bangladesh non basta avere una popolazione sei volte maggiore a quella dell’Arabia Saudita per far parte del gruppo. Il continente africano è rappresentato solo dal Sudafrica. Ma il G20 difetta di logica anche per quanto riguarda il reddito: Spagna, Iran, Taiwan, Olanda e Polonia hanno un Prodotto interno lordo superiore a quello di Arabia Saudita, Argentina e Sudafrica ma non sono tra gli invitati. Altri paesi cruciali per l’architettura finanziaria mondiale, quali la Svizzera per il suo sistema bancario e gli Emirati Arabi per gli assetts di cui dispone in Sovereign Wealth Funds, sono anch’essi assenti.
Come si deve sentire quel terzo della popolazione del mondo i cui rappresentanti statali non sono stati neppure invitati al Vertice? Ci sono ben 173 stati del mondo che sono rimasti fuori dalla porta. Si tratta di un terzo della popolazione mondiale che ha tutti i problemi degli altri due terzi, e spesso molti altri ancora, ma in questa occasione non hanno voce in capitolo.
Sempre meglio del G8, si potrà obiettare, che raggruppa i governi di solo il 14 per cento della popolazione mondiale e tutti nel Nord del mondo. Si può sostenere che allargare la riunione e farne un G192, una sorta di Assemblea Generale dell’ONU in gita scolastica, renderebbe l’incontro più rappresentativo ma anche inconcludente perché non ci sarebbe la possibilità di prendere decisioni effettive. La crisi dei mercati finanziari ha bisogno di messaggi forti, e questi possono provenire solo da quei governi che hanno le risorse per darli. Ma i paesi che hanno il portafoglio pieno non sembrano interessati a dare questi messaggi, forse perché non hanno avuto il mandato per agire a nome di tutti.
Pensato inizialmente per essere una camera di compensazione rispetto al G8 dando una tribuna anche ai paesi del Sud, il G20 è rimasto da una parte intrappolato in una logica inter-governativa e dall’altra nel rappresentare interessi troppo divergenti per raggiungere un consenso.
Il Documento preparatorio del padrone di casa, il governo inglese ( http://www.londonsummit.gov.uk/en/summit-aims/ ), richiede di scongiurare il protezionismo e di chiudere quanto prima il Doha Round, senza tuttavia indicare quali concessioni dovrebbero fare i paesi più ricchi a quelli più poveri. Supplica di riaffermare gli obiettivi in termini di Assistenza Ufficiale allo Sviluppo, senza però indicare come. L’unico punto qualificate, a testimonianza che l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca ha qualche effetto nell’arido linguaggio dei Vertici internazionali, è il riferimento ad una “low-carbon recovery”.
Per quanto vago sugli strumenti, oggi il G20 ha cambiato radicalmente la propria agenda rispetto agli anni passati. Richiede di aumentare la regolazione sui mercati, mentre per anni e anni ha dibattuto della trinità liberalizzazioni - privatizzazioni - deregolamentazioni. Riconosce finalmente che i mercati sono fallibili e che è necessario un maggiore intervento pubblico. Richiede di riformare il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, aumentando le risorse disponibili e modificando le quote. Rivendica la necessità di aumentare l’assistenza ufficiale allo sviluppo anche come strategia di sostegno della domanda.
Tutte cose giuste, ma che non sono affatto originali: i contestatori dei vertici, le organizzazioni non governative e studiosi indipendenti hanno, infatti, perorato le stesse politiche, e molto prima. Ma piuttosto che essere dibattute da capi di governo e ministri dell’economia, tanta saggezza è stata lasciata affissa sui cartelli delle manifestazioni che si svolgevano sotto le finestre dei vertici. Se queste idee avessero ricevuto la dovuta attenzione, forse la crisi finanziaria si sarebbe potuta evitare o non avrebbe avuto l’intensità odierna. Oggi le stesse proposte sono riassunte nel documento comune delle organizzazioni non governative “Put People First. Ensuring a response to the economic crisis that delivers democratic governance of the economy” ( http://www.putpeoplefirst.org.uk/ ) e c’è da sperare che i tecnocrati che partecipano al Vertice siano diventati oggi abbastanza umili da leggere il documento. Ma è veramente un peccato che nessuno dei 35.000 manifestanti che hanno marciato a Londra il 28 Marzo abbia la possibilità di illustrare queste proposte al Vertice.
L’incapacità del G20 di proporre soluzioni dipende in gran parte dalla sua natura istituzionale. Non c’è alcuna prova che bisogni scegliere tra legittimità ed efficienza. Se si volesse un vertice veramente efficiente, bisognerebbe mandare a casa quasi tutti i partecipanti e lasciar discutere ad oltranza il G2: il debitore (gli Stati Uniti) e il creditore (la Cina). Ma se uno dei due danzatori fa un passo falso, ne verrebbe travolta l’intera economia mondiale, e questo sembra giustificare la necessità di avere un consesso legittimo per prendere decisioni.
In un pianeta in cui si richiede sempre di più accountability (parola inglese che possiamo tradurre con rendicontabilità) nella politica mondiale ( http://www.oneworldtrust.org/index.php?option=com_content&view=article&id=114&Itemid=144 ) non è immaginabile che i problemi di tutti vengano affrontati in vertici che sono al di fuori della logica democratica. Oggi c’è chi suggerisce non solo di sottoporre le istituzioni di Bretton Woods ad una radicale riforma, ma anche di farle controllare da un Parlamento mondiale direttamente eletto (si veda, ad esempio la “Call for Global Democratic Oversight of International Financial and Economic Institutions” della Campaign for the Establishment of a United Nations Parliamentary Assembly ( http://www.wfuna.org/atf/cf/%7B84F00800-D85E-4952-9E61-D991E657A458%7D/Statement%20EN_form.pdf ).
Quando i mercati erano ancora in piena euforia, Frences Stuart e Sam Dawns avevano suggerito di creare un Economic Security Council ( http://www3.qeh.ox.ac.uk/RePEc/qeh/qehwps/qehwps68.pdf ) come organo delle Nazioni Unite e con peso politico paragonabile a quello del Consiglio di Sicurezza. I seggi avrebbero dovuto essere elettivi e i paesi membri scelti in base alla loro popolazione, reddito e capacità di contribuire alla stabilità finanziaria. La differenza fondamentale tra questa proposta e l’attuale G20 è che ogni governo avrebbe il mandato di agire nell’interesse di tutti e non solo in quello del proprio paese. Oggi che la crisi ha messo in ginocchio Wall Street e la City, c’è solo da sperare che il Vertice di Londra scopra che la mancanza di democrazia è un lusso che non ci possiamo più permettere. E il modo migliore per riconoscerlo è quello di convocare il prima possibile un genuino Vertice G6-miliardi.
Daniele Archibugi è l’autore di "Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica", Il Saggiatore, Milano, 2009.

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