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Cina, la generazione del grande salto

14/07/2010

La nuova classe delle "formiche": giovani, molto qualificati, con forti aspettative di ascesa sociale. Spesso disoccupati o sottoccupati

Ci sono spunti che vanno colti - quando cerchiamo di orientarci nelle complesse vicende sociali e politiche che stiamo vivendo - anche se hanno in apparenza poco in comune con quello che succede da noi e si riferiscono a contesti e situazioni molto diversi dal nostro.

Mi interessa riprendere una notizia che riguarda la Cina: ci sono oggi, leggo, numeri altissimi di giovani che hanno raggiunto un livello di istruzione medio-alto e hanno aspettative di ascesa sociale e di inserimenti occupazionali da “classe media” o, come si dice nell’articolo in Newsweek del (28 giugno/5 luglio 2010) da “white collar”.

Vengono da famiglie contadine che si sono impegnate duramente per realizzare il percorso di studi dei figli puntando per loro, appunto, su una prospettiva di mobilità sociale. Per la maggioranza di queste “formiche” (vengono così definiti) le prospettive sono molto incerte: si dice per esempio nell’articolo che quasi un terzo dei laureati nell’università di Pechino sono attualmente occupati come addetti alle vendite: niente a che vedere con le loro competenze e aspettative. Una parte di questi giovani forse potrà trovare lavoro andando all’estero: hanno studiato le lingue, sono motivati, tutti sono cresciuti con internet. Quelli specializzati in alcuni ambiti - le nuove tecnologie in particolare - sono molto richiesti.

Ma la prospettiva, per numeri altissimi, è la disoccupazione, oppure lavori di basso livello e poco retribuiti (70 dollari la settimana, si dice, che è comunque “un salario decente per gli standard cinesi”). E accettano di vivere in pessime condizioni nelle periferie di Pechino o Shanghai o di altre città in rapidissima espansione (si dice che nell’area di Pechino ci siano almeno sei grandi agglomerati urbani dove soprattutto queste formiche si accontentano di soluzioni “provvisorie”).

Comunque, sulla base dei dati, la lettura che ci viene proposta appare, si potrebbe dire, prevedibile e scontata. A partire dagli anni novanta è raddoppiato il numero degli ammessi all’istruzione superiore, e quest’anno più di 6 milioni sono i “graduati” da università e istituti tecnici. Si è dunque realizzato un “salto” tra la generazione oggi giovane e quella precedente, e questo significa cambiamenti profondi (e bruschi, in parte inattesi) sia nel sistema occupazionale che nel sistema sociale nel suo complesso Pesa senza dubbio la fase attuale di “crisi” ma questo passaggio, e le dimensioni che assume, non può essere riferito soltanto a questa “complicazione” che non era stata anticipata. Va aggiunto che non si è trattato soltanto di progetti e impegno delle famiglie e degli individui, c’è stato un forte investimento di risorse pubbliche, un progetto collettivo.

Se per ora, secondo gli autori dell'articolo, questi giovani si concentrano sull’obbiettivo di “farcela”, di guadagnare, di diventare ceto medio, il fenomeno ha dimensioni tali che non è certo da escludere che possano scoppiare moti di protesta, conflitti e rivendicazioni. Un aspetto, paradossale se vogliamo, è inoltre messo in evidenza: proprio mentre si stanno rendendo visibili questi aspetti (negativi) della trasformazione sociale in atto nel paese, i livelli di reddito della classe operaia sono in crescita. Nell’articolo si parla di “una situazione che potrebbe rivelarsi esplosiva” e si sottolinea come il mondo politico non sottovaluti questo pesante rischio.

Ci sembra, forse, uno dei tanti cambiamenti di una parte del mondo lontana, e tutto sommato, eccezionale: numeri inconfrontabili con quelli della nostra situazione, tempi straordinariamente rapidi, interconnessioni e ricadute che rendono lo scenario complessivo davvero ad elevata imprevedibilità (e rischio). Ma dati recenti dell’Ocse mostrano che non è qualcosa che riguarda la Cina soltanto. Dire “disoccupati” e fornire i numeri –altissimi- non basta. Si tratta di rendersi conto di condizioni specifiche (per fasce generazionali e collocazione sociale, e anche esperienze e aspettative). Si tratta di milioni di persone, milioni di giovani, in molte parti del mondo.

Ha senso cominciare a porla, questa questione, uscendo dalla prospettiva “nazionale” (che certo ci riguarda e ci preoccupa). Provare ad immaginare ridefinizioni e cambiamenti a livello sia economico che sociale, e soprattutto nella direzione di una diversa “cultura” del vivere. Difficile, ma è un impegno a cui non ci si potrà sottrarre.

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