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Editoriale

La fabbrica e il Contratto

08/01/2011

Mi sono chiesto spesso come mai l’Italietta sia entrata a far parte dei G7 a metà degli anni settanta del novecento. La risposta, più che alle forme oscure della diplomazia, pensavo – e penso – fosse legata all’importanza delle tecnostrutture (à la Galbraith) nazionali e in particolare a una di esse, Fiat e alla sua più considerevole produzione: l’auto. Poi di contorno c’era la chimica, gli elettrodomestici, le macchine utensili, i biscotti, i panettoni. Ma era il numero di auto prodotte – a Mirafiori soprattutto – che inseriva, di fatto se non di diritto, l’Italia tra i grandi paesi industriali. I grandi paesi dell’economia mondiale non si potevano classificare altrimenti che con le vetture prodotte: i diplomatici essendo privi di un pensiero più sofisticato.

Il declino di Mirafiori arrivò molto presto, l’Italia perse molte posizioni nella produzione automobilistica, ma la neghittosità dei diplomatici, nonché la douceur de vivre à Venise, à Naples, à Gênes rallentò la sua espulsione finale. Ora che il G7 si svolge alla Caserma della Finanza dell’Aquila quel tempo è finito per sempre e i paesi G sono diventati 20 e i venti paesi si sono ripartiti la produzione mondiale di auto.

Le tecnostrutture, in particolare quella dell’auto, non erano soltanto un elemento di prestigio internazionale per i vari paesi che ne disponevano. Esse si riferivano piuttosto a un vasto sistema produttivo a un insieme di capacità e di interessi di cui l’auto era un aspetto visibile, esportabile, di facile comprensione. Dietro vi era una grande industria, tante industrie minori, un sistema di relazioni sindacali, un pizzico di design, ricerca di prodotti e di processi e quindi scuola, formazione, storia, politica, cultura sociale. Non che l’automobilista svizzero chiamato a scegliere tra R4, Vw, 127 avesse presente tutto questo, ma pensare che per lui vi fosse unicamente una questione di prezzo, tra modelli senza memoria, sarebbe fargli torto.

Nel corso della storia, sia pure della storia minore delle automobili, varie case sono rotolate fuori dal canestro mondiale. Per esempio è avvenuto per le case inglesi: Morris e Austin. Margaret Thatcher non si accontentò di questo capitalistico evento. Trattò con l’industria giapponese e ottenne che si continuasse a produrre automobili, sia pure giapponesi, nel Regno unito. Lo stesso avvenne in Spagna con l’avvento di Vw e Renault. Nel corso dei decenni Fiat ha concentrato tutta l’attività italiana del settore. Questo non ha aumentato il suo senso di responsabilità, ma al contrario le ha suggerito di litigare con governi e sindacato facendo uso di una minaccia: o così o me ne vado. Venti anni fa è stato il caso di Melfi e di una possibile stabilimento alternativo in Portogallo; i casi tuttora aperti di Termini, Pomigliano, Mirafiori sono ben presenti. Questo assorbimento di poteri non ha aumentato l’assunzione di responsabilità di Fiat nei confronti della comunità nazionale. Quando l’uomo Fiat dichiara che l’unica responsabilità che sente è verso i propri azionisti egli immagina di seguire l’economia di Milton Friedman, ciò che è del tutto comprensibile per un dirigente appena venuto al mondo. Friedman però si riferiva a tutti gli azionisti, non solo ad alcuni, privilegiati, componenti di una famiglia che ha fatto il bello e cattivo tempo per un secolo, in Fiat. Diversa la situazione in cui qualche volta azionisti e azioni si pesano e qualche altra si contano soltanto.

Delle tante proposte di lavoro possibili eccone due.

° All’università si usava far studiare il Contratto dei metalmeccanici come testo di appoggio al manuale di diritto del lavoro. Oggi sarebbe opportuno leggere con attenzione il Contratto Mirafiori per conoscere diritti e stato del capitale.

° L’offerta automobilistica italiana è, o sembra, marchionnemente definita, almeno nel medio periodo. Non così la domanda che sembra sfuggirgli in buona misura. Non c’è un cinese, nel mio quartiere, che compri un’auto italiana, neppure per sbaglio. Ma la finanza non vive dei margini sulle auto vendute: ha ben altro di cui occuparsi. Dovremmo ripensare alla domanda possibile, verde, ecologica; inventarla, suscitarla nelle città e nei territori, perfino nelle regioni. Il bene pubblico è il primo passo: un trasporto a zero CO2, legato a una ricerca nazionale, universitaria e pubblica. Una tecnostruttura forte e non profit, capace di farsi valere, di esportare idee e passioni. Potrebbe nascere una vivace domanda di trasporto pubblico: una domanda capace, incredibile dictu, di creare una nuova offerta.

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