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La politica industriale batte un colpo?

13/05/2014

Sotto i colpi della crisi l'Italia ha perso negli ultimi anni il 25 per cento della sua capacità produttiva. Eppure nel Def del governo è assente qualsivoglia ipotesi di orientamento dell’economia europea verso qualcosa di differente da una nuova guerra mercantilista tra i paesi dell’Unione. Una tavola rotonda sulla Politica Industriale in Italia, l’8 maggio scorso, con il viceministro De Vincenti

Mentre il paese ristagna nella palude di una crisi di cui non è dato intravedere la fine e i principali organi di informazione si affannano a trasmettere monotematicamente il rimpallo di proclami elettorali del trio Renzi-Grillo-Berlusconi, un importante opportunità per dibattere su di un tema fondamentale come la politica industriale è stata offerta dalla facoltà di Economia dell’Università La Sapienza di Roma. L’occasione è stata la Tavola Rotonda sulla Politica Industriale in Italia alla quale ha partecipato, assieme ad altri importanti economisti e a vari addetti ai lavori, il Vice Ministro dello Sviluppo Economico Claudio De Vincenti. La sala che ha ospitato l’evento è la stessa da cui, nell’ormai lontano 1994, un economista del calibro di Augusto Graziani metteva in guardia dai rischi di quello che, allora, era il nascente progetto di integrazione economica europea dimostrando una formidabile preveggenza. La significatività del luogo, dunque, e la decennale appartenenza in qualità di docente dell’attuale Vice Ministro al Dipartimento di Economia Pubblica della medesima Facoltà, lasciavano presagire una discussione seria e pregna di contenuti. Le attese dei presenti non sono state tradite e gli spunti per la riflessione sono stati innumerevoli.

Ha aperto il dibattito Mario Pianta il cui intervento ha imposto l’impatto con due diverse tipologie di numeri. Da un lato, quelli terrorizzanti della recessione (25% della capacità produttiva italiana distrutta nel quinquennio 2008-2013) e, dall’altro, quelli, almeno in apparenza, dotati di scarsa connessione con la realtà del recente Documento di Economia e Finanza varato dal governo. A fronte di un paese che ha visto sgretolarsi sotto i colpi della crisi il 25% della sua capacità produttiva, le previsioni governative sembrerebbero altresì prospettare un prossimo futuro roseo (il DEF prevede una crescita del Pil nel periodo 2014-2018 del 7,4%, un punto percentuale in più rispetto a quanto registratosi nel periodo di boom dell’economia italiana ed europea 2003-2007) e caratterizzato da una crescita economica fondamentalmente guidata dalle esportazioni (le mirabolanti previsioni per l’export nostrano sono dell’ordine del 20,8% del Pil per il periodo 2014-2018 a fronte di una prevista riduzione della spesa destinata al personale della pubblica amministrazione, per le pensioni e per gli investimenti pubblici rispettivamente del -12%,-3% e -12% e di una crescita modestissima nelle previsioni per consumi privati e spesa pubblica).

A partire da questi numeri, e dalla difficoltà di condividere l’ottimismo che gli estensori del DEF testimoniano per quanto riguarda l’imminente e salvifico rilancio dell’export italiano, sono giunte le prime sollecitazioni alla platea e al Vice Ministro. L’attenzione si è posta sin da subito sull’assenza nel DEF, oltre che nel dibattito politico preelettorale, di qualsivoglia ipotesi di orientamento dell’economia europea verso qualcosa di differente da una nuova guerra mercantilista a colpi di esportazioni tra i paesi dell’Unione. Peraltro, viene fatto notare come, nell’eventualità di un simile scenario, l’unica area a poter beneficiare di una ripartenza dell’economia europea su queste basi sarebbe quella strettamente legata alla Germania (l’unico paese dell’eurozona che mostra dei cenni concreti di ripresa dell’economia e che ha accresciuto e rinnovato la propria base produttiva nella stessa fase in cui i partner sperimentavano il fenomeno contrario) rischiando di accrescere quelle divergenze tra centro e periferia che hanno condotto alla crisi e che la crisi ha esacerbato.

Quel che viene sottolineato sin dall’inizio della discussione è la totale mancanza fra i propositi politici di chi oggi guida l’Unione Europea e di chi con maggiori chances si candida a farlo per i prossimi anni, di un concetto di politica industriale in cui si riconosca la volontà di invertire la rotta intrapresa sino ad ora. Successivi interventi, come quello del Professor Sterlacchini dell’Università Politecnica delle Marche, hanno posto l’accento sulla necessità di intervenire, guidandolo o in alcuni casi sostituendovisi, in un mercato unico che, lasciato libero di agire e blandito da politiche volte esclusivamente a facilitare la concorrenza tra le imprese, ha dimostrato di saper esporre le popolazioni europee a profonde sofferenze e a grandi rischi per il loro avvenire.

Dalla relazione di Sterlacchini e dal confronto che ne è seguito è emersa, inoltre, una convergenza di opinioni in merito al bisogno di politiche che non siano più religiosamente tese al solo incremento dell’offerta di beni e servizi ma che, al contrario, siano politiche della domanda e per la domanda. In particolare, si è fatto riferimento alla necessità di stimolare lo sviluppo di servizi innovativi, basati sulla diffusione di capitale umano e immateriale specializzato, che siano in grado soddisfare la moltitudine di bisogni nuovi che emergono in modo pressante sul territorio dell’Unione. Da questo punto di vista, il tema della sostenibilità ambientale, della mobilità e quello della cura della persona, con una particolare attenzione alle grandi aree metropolitane, sono sembrati essere una priorità condivisa da tutti i partecipanti alla Tavola Rotonda.

In rilievo è stata posta, inoltre, l’evanescenza del cosiddetto Industrial Compact, il piano per la politica industriale prossima ventura in Europa. La natura debole e prevalentemente declamatoria del patto in questione lo rendono, allo stato attuale, profondamente inadeguato soprattutto se confrontato con un Fiscal Compact la cui cogenza e il cui dettaglio fa, al contrario, temere conseguenze nefaste per i paesi finanziariamente deboli come l’Italia. Su quest’ultimo punto e sulla necessità di un piano di politica industriale europea credibile, in particolar modo dal punto di vista delle risorse dedicate, si sono trovati tutti d’accordo compreso il Vice Ministro De Vincenti. Un’aria nuova dunque? Si fa strada una nuova, vera e credibile consapevolezza in merito alla necessità di una politica industriale che sappia intervenire strategicamente su una struttura economica europea sfibrata e allo sbando? Negli intenti e nelle convinzioni di studiosi e addetti ai lavori sembrerebbe di sì. L’apprensione per la situazione economica generale e per le prospettive future ad essa connesse rende ormai difficile identificare differenze ideologiche o “di scuola” fra la maggior parte degli economisti, tutti unanimi nell’affermare il “così non si può andare avanti”.

Le responsabilità politiche sembrano però depotenziare le velleità relative a un cambiamento strutturale che, tuttavia, appare essere sempre più urgente per immaginare un futuro accettabile per l’Unione Europea. Il Vice Ministro De Vincenti, ha preferito rivendicare le misure di politica industriale condotte sotto la sua direzione in questi mesi, rimanendo evasivo di fronte alle proposte concrete avanzate in apertura e nel corso del dibattito. Una risposta circostanziata ad alcune delle proposte emerse durante la discussione (durante la sua presentazione Mario Pianta ha illustrato alcuni punti programmatici della campagna Sbilanciamo L’Europa! tra i quali, ad esempio, un massiccio piano di investimenti che privilegi i paesi periferici dell’eurozona e che si concentri su ambiente, salute e nuove tecnologie mettendo al centro i soggetti pubblici e prevedendo metodi di finanziamento fortemente progressivi capaci di ridurre le attuali disuguaglianze tra Stati e tra individui) avrebbe imposto al Vice Ministro De Vincenti una critica profonda al sistema di regole fiscali ed economiche attualmente vigenti in Europa e all’indolenza sostanziale del governo italiano rispetto a quest’ultime. Mettere invece in risalto delle azioni politiche, come le operazioni recentemente attuate dal governo tramite il Fondo Strategico, senza considerare la sproporzione tra ciò che sarebbe necessario per invertire la rotta di un paese che veleggia verso il 13% di disoccupazione e la dimensione risibile degli strumenti a disposizione, non dà grandi speranze a chi ambisce, per il futuro più prossimo, ad una politica industriale degna di questo nome e cioè capace di restituire un po’ di speranza.

 

 

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