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L'Abruzzo da una panchina
Fa male pensare adesso alla parola che più associavo all'interno dell'Abruzzo, alla bellissima città dell'Aquila, alle sue frazioni, ai borghi antichi, al paesaggio naturale che la circonda. La parola era: intatto. Almeno considerato come contraltare alle brutali edificazioni della costa adriatica trasformata in un unico serpentone di seconde case, o alle valli piene di centri commerciali e case nuove tirate su come si sa. Anche questa è geografia d'Abruzzo: le piccole americhe dei grandi centri commerciali, del megacinema, l' orribile moderno; e la sostanza agricola, contadina e anzi montanara del capoluogo, quella conca che si apre dopo un'ampia curva sulla Roma-L'Aquila stretta tra il Gran Sasso e i parchi nazionali più selvaggi del Paese, ma con il suo cuore d'arte. Facce, anche, geografia umana. E facce anziane soprattutto. Facce attonite come tutte le facce di fronte all'inconcepibile, un terremoto, il mondo che si scuote e crolla giù. Attraversare un secolo intero e poi guardarlo da una panchina, una coperta addosso. Eppure quelle facce, queste facce, sono anche loro, com' era il centro del centro d' Italia, in qualche modo intatte. Magnificamente intatte. Nel senso di non corrotte. Dure, forse - non c' è una lacrima, la disperazione è per così dire tutta interna. Attente, è la parola giusta. E pare di vedere, in queste facce e in questi sguardi diritti, qualcosa di simile alla saggezza e all' orgoglio. Facce d' Abruzzo, gente di terra, legata alla terra, che pure il mondo l'ha percorso in lungo e in largo, ma che di terra riconosce solo quella. Una patria generosa protetta dalla distanza. 99 piazze, 99 fontane, 99 chiese, questo si diceva de L'Aquila, accettandone quell' essere intatta. Come quelle facce che guardano dritto, senza una lacrima, nel giorno del dramma.
* Pubblicato sul Corriere della Sera l'8 aprile 2009
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