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Copenhagen-Rosarno, i volti della crisi

20/01/2010

Le crisi che attraversano il mondo sono intimamente correlate. La crisi ambientale, quella economica, alimentare, democratica e sociale sono legate reciprocamente. Tagliano il pianeta in modo trasversale e si rinforzano a vicenda.

Nonostante la COP15 di Copenhagen sia stata l’ennesima cronaca di un fallimento annunciato, per tanti movimenti ha rappresentato l’occasione per affermare, a gran voce, che i cambiamenti climatici non sono un problema ambientale, ma di giustizia. La società civile globale, ormai nell’ombra da alcuni anni, è tornata a farsi sentire e lo ha fatto componendo quel puzzle che la politica ed i principali mass media si rifiutano di accettare: cioè, che il nostro sistema economico, fondato sul miraggio della crescita economica senza limiti, sulla dittatura del PIL e sulla competizione internazionale, è il principale responsabile di questa ‘tempesta perfetta’ di crisi globali.

Tutti i principi fondanti dell’economia moderna, dal vantaggio comparato dell’economia di mercato alla produzione centralizzata, ci spingono a strangolare il pianeta per perpetuare ingiustizie e squilibri. Per decenni abbiamo lasciato fuori dalla porta tutte le cosiddette ‘esternalità’ del sistema, ovvero gli effetti indesiderati delle interazioni economiche, dal degrado sociale a quello ambientale. Le tante teorie ‘ufficiali’ ci hanno continuato a raccontare che lo sviluppo economico è in grado di assorbire e neutralizzare gli effetti indesiderati. Siamo stati così bravi che abbiamo convinto anche i paesi del ‘sud globale’ ad abbracciare questa filosofia. Ma poi si è infranto il sogno. Perché nel mondo reale le esternalità hanno cominciato a rientrare dalla finestra ed ora la valanga non sembra arrestarsi. Questo modello economico non è il migliore dei mondi possibili, come in troppi continuano a credere e come viene ancora insegnato nelle nostre università. È un gran colabrodo che cade a pezzi. Come una vecchia automobile che perde carburante ad ogni metro e che, nonostante tutto, ci ostiniamo a guidare.

La nostra società si regge solo perché si fonda su una nuova schiavitù, in cui una minoranza viene nutrita, curata ed accudita da una maggioranza cui resta poco o nulla. La rivolta di Rosarno ne è l’esempio più recente, ma siatene sicuri, non sarà l’ultimo. Dopo anni di soprusi ed emarginazione, questi braccianti non riescono più neppure a sopravvivere con le briciole e gli avanzi che gli vengono lasciati. La crisi economica globale li ha investiti di ritorno. Anche qui, in quello che una volta si chiamava impropriamente ‘il primo mondo’, non c’è più lavoro, neanche sottopagato. Gli viene detto che le arance nordafricane e latinoamericane sono più convenienti di quelle calabresi. E quindi, se vogliono tenersi i loro miseri 20 euro al giorno, devono rimboccarsi le maniche e fare concorrenza nientedimeno che ai loro paesi di origine. È questa l’assurda spirale che ci ostiniamo a chiamare libero mercato.

 

I ribelli di Rosarno sono venuti in Italia perché hanno creduto nel nostro modello di sviluppo. Lo stesso modello di sviluppo che ha devastato i loro paesi di origine, sacrificati sull’altare dell’approvvigionamento energetico, e che ora gli sbatte la porta in faccia. In fuga da una crisi sociale e politica, si ritrovano irretiti nella crisi economica. E saranno sempre loro, le loro famiglie ed i loro territori a pagare il conto più salato della crisi ambientale che distrugge i raccolti, provoca siccità e riduce il cibo. Fregati due volte: senza un paese dove tornare e senza un futuro.

 

Sono questi i volti delle crisi. Gli attivisti di Copenhagen, che hanno gridato la loro rabbia sotto la neve e gli spartacus di Rosarno, che si sentono perduti. Uniti da un destino comune.

 

L’autore è promotore della campagna ‘Global Reboot’, resettiamo il sistema.

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