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Un referendum contro la democrazia
Il prossimo referendum elettorale non sta suscitando l'allarme che dovrebbe. C'è chi è convinto che non si raggiunga il quorum, e chi non si rende conto della gravità della situazione. Che il quorum non venga raggiunto è probabile ma tutt'altro che garantito, data l'adesione al sì del Partito democratico e dato l'interesse oggettivo di Berlusconi alla vittoria dei sì; entrambi i fattori potranno produrre molta propaganda diretta e occulta. Alla gravità della situazione che conseguirebbe da una vittoria dei si è dedicato tutto il resto di questo testo.
1. Su cosa si vota. Come non è abbastanza noto, si voterà per tre referendum. Uno è un referendum civetta, finalizzato al raggiungimento del quorum per gli altri due; in esso si chiede di proibire le candidature di una stessa persona in più circoscrizioni. Con gli altri due, uno per la Camera e uno per il Senato, si chiede che l'attuale cospicuo premio di maggioranza, sufficiente a far raggiungere il 55% dei seggi a chi ha la maggioranza relativa, vada non più alla coalizione, ma alla singola lista che ottenga la maggioranza relativa.
Apparentemente cambia poco rispetto alla situazione attuale. Ma in realtà si tratterebbe di una sostanziosa riduzione della democrazia, come verrà argomentato più sotto.
2. Referendum e sistema maggioritario. A prima vista, ciò che il referendum vorrebbe ottenere è la struttura parlamentare tipica di un sistema maggioritario: meno partiti che nel proporzionale (tendenzialmente due), e una maggioranza con molti seggi e formata da una coalizione di pochissimi partiti, possibilmente anzi da uno solo. Ciò che i promotori del referendum dicono infatti di volere è che i partiti attuali si coalizzino in due (o eventualmente più, ma meglio due) partiti "veri", caratterizzati al loro interno da monolitismo decisionale. Questo ridurrebbe il peso dei do ut des interni alla compagine governativa, e quindi produrrebbe maggiore governabilità. Cito dal sito del comitato promotore: "il sistema elettorale risultante dal referendum spingerebbe gli attuali soggetti politici a perseguire, sin dalla fase preelettorale, la costruzione di un unico raggruppamento, rendendo impraticabili soluzioni equivoche ed incentivando una significativa ristrutturazione del sistema partitico. Si aprirebbe, per l’Italia, una prospettiva tendenzialmente bipartitica, con conseguente eliminazione della frammentazione dentro le coalizioni". Vedremo che ciò è falso; ma anche se fosse vero sarebbe tutt'altro che auspicabile.
3. Maggioritario, referendum e governabilità. E' possibile che ci siano degli elettori (e lettori, scusate il gioco di parole) che credono in buona fede che ciò che i promotori del referendum dicono di volere sia auspicabile. Si sbagliano: la ricerca politologica, sia empirica che teorica, smentisce che il risultato della riduzione del numero dei partiti corrisponda a una maggiore governabilità. Qui sotto riferisco molto brevemente, e schematicamente, i principali risultati di questa ricerca.
Quanto ad oggi sappiamo a proposito delle differenze di governabilità (fra paesi analogamente sviluppati) imputabili alla differenza di sistema elettorale è sostanzialmente quanto segue.
1. I governi dei sistemi maggioritari durano più a lungo. Questo è probabilmente l'unico vero vantaggio di un sistema maggioritario. Tuttavia, non è detto che una maggiore durata sia sempre un vantaggio. Una lunga durata può corrispondere a una scarsa contendibilità, e quindi a scarsi incentivi a governare bene. In ogni caso, come vedremo altre caratteristiche desiderabili più sostanziali non sembrano essere associate alla maggiore durata.
2. Un sistema elettorale maggioritario è associato a una spesa pubblica inferiore rispetto a un sistema proporzionale. Naturalmente, non c'è nessun motivo né empirico né teorico (in particolare non c'è nessuna dimostrazione in questo senso nella scienza economica) per cui ciò corrisponda a una maggiore efficienza del governo; e del resto i guai prodotti da decenni di privatizzazioni e di riduzione dell'intervento pubblico in economia sono sotto gli occhi di tutti.
3. Il passaggio dal sistema maggioritario a quello proporzionale non produce un aumento della spesa pubblica. Inoltre, il caso opposto (forse unico) di passaggio dal proporzionale al maggioritario, e cioè l'Italia negli anni 90, non ha probabilmente propiziato una riduzione della spesa pubblica. Dico probabilmente perché le saltuarie riduzioni che si sono avute sono assai più facilmente ascrivibili ai vincoli europei, ma non si può escludere che in parte siano anche effetto del cambiamento di sistema elettorale.
4. La minore spesa pubblica di un sistema maggioritario è dovuta interamente alla minore frammentazione del sistema politico. Questo è un punto molto importante. Dato e tutt'altro che concesso che una riduzione della spesa pubblica sia auspicabile, essa si produrrebbe solo se il passaggio al sistema maggioritario corrispondesse effettivamente a una riduzione del numero di decisori. Non è affatto certo che ciò si verificherebbe davvero. Una ricerca in corso presso il mio dipartimento (scaricabile come working paper n. 138 del dipartimento POLIS dell'Università del Piemonte Orientale dal sito http://polis.unipmn.it) porta a concludere che probabilmente è sufficiente che i partiti coalizzati mantengano un'autonomia anche relativamente limitata perché la governabilità possa essere inferiore a quella di un sistema proporzionale. Sul piano empirico, un'altra ricerca ha dimostrato che nel caso dell'Italia la frammentazione non si è ridotta con il passaggio dal proporzionale al maggioritario nel 1993 (si veda il working paper n. 60, scaricabile dal sito di cui sopra). Alcune caratteristiche specifiche della struttura politica italiana implicano inoltre ulteriori difficoltà per questa ipotetica riduzione del numero di soggetti decisori; mi permetto di rinviare nuovamente a un working paper del citato dipartimento POLIS, il n.115. Mi scuso per queste autocitazioni, ma se intervengo sul referendum è perché da molti anni la mia ricerca verte proprio sui sistemi elettorali.
5. In un sistema maggioritario la spesa pubblica è più indirizzata a favorire interessi locali e particolari, mentre in un sistema proporzionale è più generalistica. Soprattutto nell'Italia di oggi, questa è una caratteristica negativa del sistema maggioritario ovviamente di grande importanza. E' lecito sospettare che alcuni sostenitori del maggioritario (e del referendum) siano tali appunto per questo motivo.
6. Se per efficienza intendiamo capacità di fornire beni e politiche pubbliche reali, allora non c'è prova di una maggiore efficienza del sistema maggioritario. E' questo il risultato del famoso studio di Lijphart del 1994, che a mia conoscenza nessuno ha osato mettere in discussione. Lijphart intende per efficienza la capacità di produrre servizi pubblici essenziali, come quelli destinati alla tutela della famiglia, o politiche pubbliche essenziali, come la difesa delle minoranze, o di ottenere buoni risultati nelle variabili nacroeconomiche, come la crescita del PIL e l'andamento della disoccupazione; e trova che "il senso comune ha torto quando ritiene che ci siano reciproci vantaggi e svantaggi nel maggioritario e nel proporzionale. La migliore prestazione del proporzionale per quanto riguarda la rappresentatività non è controbilanciata da una peggiore prestazione per quanto riguarda la governabilità [governmental effectiveness]."
Se quindi fosse vero che la vittoria dei sì equivale all'introduzione di un sistema maggioritario, ciò sarebbe più che sufficiente per essere fermamente contrari. In realtà ci sarebbe una differenza significativa, e in peggio: e cioè che il maggioritario obbliga almeno a chiedere il voto sui singoli candidati, e quindi obbliga i partiti a presentare dei candidati almeno un po' credibili. Col sistema che si verrebbe a creare i nomi dei candidati sarebbero irrilevanti, e ciò apre alla strada al massimo di rappresentanza delle lobbies economicamente potenti e al minimo di rappresentanza dei cittadini.
4. Un "errore" fondamentale. Anche ammesso -erroneamente, come abbiamo visto- che (a) il referendum porti veramente a una struttura maggioritaria e (b) che tale logica sia auspicabile, rimane comunque un errore logico fondamentale nell'argomentazione dei promotori del referendum; talmente evidente da far ritenere praticamente impossibile che sia stato commesso in buona fede.
L'errore è il seguente: non c'è alcuna garanzia che la riduzione nominalistica del numero dei partiti corrisponda a una riduzione effettiva del numero delle fazioni e quindi dei decisori. Al contrario, la possibilità di condurre le trattative fondamentali prima delle elezioni, cioè al momento di scegliere le candidature, e del tutto al riparo dall'opinione pubblica, darebbe uno spazio enorme ai ricatti, ai do ut des delle diverse lobbies e soprattutto alla pura e semplice corruzione. Come scrivono in uno studio del 2007 Persson, Roland e Tabellini (autori probabilmente non simpatetici con le idee dell'autore di questo testo), "perché un partito che rappresenta diversi gruppi presenti nella società dovrebbe comportarsi in modo diverso da una coalizione che rappresenta gli stessi gruppi?" In effetti, i vari gruppi di pressione avrebbero tutto l'interesse a mantenere, e anzi ad aumentare, la propria autonomia, onde massimizzare il loro potere di ricatto, sopratutto quello occulto. Anziché avere molti partiti avremo insomma molte correnti; l'unica differenza è che oggi un elettore può scegliere che partito votare all'interno della coalizione, mentre se vincono i sì questo potere gli sarà sottratto. I promotori del referendum sono coscienti di ciò; non a caso parlano di dare la maggioranza dei voti alla lista che ha la maggioranza relativa, e sostengono che ciò porterà "tendenzialmente" a un sistema bipartitico. In sostanza, assisteremo (o meglio, non assisteremo, perché avverrà al riparo della vista degli elettori) a una complicatissima rete di ricatti, manovre, accordi sottobanco, ecc., al termine della quale agli elettori verrà presentato un pacchetto "prendere o lasciare". La trattativa vera avverrà comunque prima delle elezioni; in aperto contrasto con lo spirito della democrazia, per cui gli elettori votano i loro rappresentanti e poi questi rappresentanti trattano per formare una maggioranza.
Questo nel caso che i partiti si coalizzino; se non lo fanno lo scenario è ancora peggiore.
5. Altri scenari. Sono infatti possibili tre scenari. Il più probabile, come abbiamo visto, è che i diversi partiti si uniscano in coalizioni. Questo scenario può facilmente evolvere in un secondo, molto più preoccupante. Le potenti lobbies rappresentate dai e al comando nei grandi partiti-coalizioni avranno tutto l'interesse a mettersi d'accordo per spartirsi il potere, invece di rischiare a ogni elezione di perderlo. La grande coalizione diventerà facilmente una coalizione di centro, che si identificherà sempre più con lo stato, anche perché sarà facilmente in grado di cooptare le frange necessarie a garantire la maggioranza. C'è quindi un rischio reale che il sistema evolva verso un sistema a partito unico, qualcosa a metà fra la Democrazia Cristiana e il PCUS.
Infine, è possibile che i partiti non si coalizzino, come auspicato da Veltroni. In tal caso un partito col 30 % dei voti o anche meno governerà con la maggioranza assoluta, grazie al voto di una maggioranza composta in buona parte da parlamentari che nessuno ha eletto; una situazione che si presta a ogni sorta di degenerazione, e sulla cui validità costituzionale è lecito nutrire seri dubbi. Sull'aspetto della costituzionalità torneremo più sotto.
6. Altri problemi. L'aspetto più propriamente liberticida di una possibile vittoria dei sì è quindi la sottrazione agli elettori di gran parte del potere di scelta dei loro rappresentanti. Ma ci sono altri elementi pericolosi.
Il primo è l'ulteriore distacco che si creerebbe fra classe politica (o "casta"; il termine è sempre meno improprio) e popolo. Abbiamo visto che la segretezza delle trattative sulla formazione delle liste spiana la strada al controllo delle lobbies (fra cui quelle criminali) sulla politica. Ma un altro risultato sarebbe l'apertura di un abisso fra la società civile e i maneggi della politica. Si tratta di qualcosa di molto pericoloso per la democrazia. Come risulta dai sondaggi, fra tutti i paesi dell'Europa Occidentale l'Italia è già adesso quello in cui la democrazia gode del minore appoggio popolare. E' facile prevedere che quando le alleanze fra i partiti si faranno interamente all'oscuro oppure governerà da solo un partito col 30% dei voti questo prestigio scenderà ulteriormente. L'abolizione del voto di preferenza (che, è bene ricordare, non verrebbe reintrodotto se vincessero i "si") ha tolto agli elettori la possibilità di scegliere il loro candidato preferito, e ciò, a giudizio unanime, ha contribuito potentemente a far sì che i candidati vengano "calati dall'alto", e che vengano sentiti come estranei. Se vincono i "si", agli elettori verrà tolto anche il diritto di scegliere il partito preferito. E' ovvio che ciò farà ulteriormente aumentare il distacco fra elettori e candidati. Nel breve periodo, un corollario di quanto sopra è l'ulteriore indebolimento dell'opposizione; infatti è ovvio che la battaglia che il partito democratico avrà combattuto contro la democrazia gli farà perdere ulteriormente consenso. E un paese senza opposizione è un paese in cui la democrazia non funziona tanto bene.
Il secondo è la coerenza fra la proposta del referendum e la strategia berlusconiana. Berlusconi afferma che chi ha la maggioranza deve governare da solo, senza lacci e lacciuoli; i sostenitori del referendum dicono la stessa cosa: a chi ha la maggioranza relativa, anche molto limitata, bisogna dare la maggioranza assoluta, in modo che possa governare da solo. Il sostegno del "si" porta insomma molta acqua al mulino di Berlusconi; l'incoerenza fra l'appoggio al "si" e la critica al personalismo di Berlusconi è palese. Ciò tra l'altro rende la posizione del Partito Democratico nella migliore delle ipotesi incomprensibile.
Infine, a seguito della scomparsa del premio di maggioranza alle coalizioni, le soglie di sbarramento risulterebbero alzate: 4% alla camera e addirittura 8% al senato. La soglia al senato è ovviamente troppo alta, sia rispetto alla necessità di mantenere un'effettiva rappresentatività sia rispetto agli standard mondiali. Inoltre, questa differenza di soglie aggraverebbe il principale difetto della legge attuale, e cioè la possibilità di una maggioranza diversa fra le due camere.
7. Un po' di economia. Ma allora, perché? Perché c'è chi è favorevole al sì? Naturalmente c'è chi lo è perché gli conviene: a molte lobbies politiche, economiche e mafiose conviene che ci sia meno democrazia. E ciò è ovvio: democrazia vuol dire in primo luogo "una testa un voto", e quindi in linea di principio, se funziona bene, è in contrasto con gli interessi di chi preferirebbe "un euro un voto". Ma credo che ci sia anche chi crede in buona fede che sia meglio ridurre (e di molto, come abbiamo visto) la democrazia per motivi non egoistici. Questi motivi sono economici; l'idea è che un sistema più decisionista contribuirebbe a togliere molti degli impedimenti che ostacolano la crescita economica del nostro paese.
Questo argomento ha apparentemente qualche fondamento, ma in realtà è sbagliato, per due motivi fondamentali. Il primo è che la democrazia è un valore in sé, anche economico. Come diceva a suo tempo Sylos Labini, e senza assolutamente volere denigrare i ragionieri, la differenza fra l'economia e la ragioneria è che la ragioneria considera solo i costi e i guadagni monetari, mentre l'economia considera anche quelli non monetizzabili. Ora, la pesante riduzione della democrazia che conseguirebbe alla vittoria dei "si" avrebbe ovviamente effetti deleteri sulla qualità della vita di tutti, in termini di emarginazione, di immiserimento, di corruzione diffusa, di perdita di cultura, di asservimento ai potenti. Questi sono tutti costi, per evitare i quali vale la pena pagare qualche decimo di punto di crescita del PIL.
Ammesso che lo si paghi; e vengo al secondo errore di chi pensa che meno democrazia equivalga a più ricchezza. E' vero che esistono esempi in cui la dittatura (al netto dei costi di cui sopra) ha portato a una maggiore crescita del Pil, come la Germania di Hitler, ma ce ne sono altri, come l'Argentina e la Grecia, in cui è avvenuto il contrario. Non esiste una letteratura conclusiva su quando l'autoritarismo conviene e quando no (parliamo sempre solo del punto di vista ragionieristico); o forse esiste ma io non la conosco. E' certo però che molto dipende dalla capacità con cui i vari potentati economici e le varie mafie riuscirebbero a impossessarsi di quote di potere per usarle per i propri interessi, e da quanto questi interessi sono in contrasto con gli interessi dell'economia nazionale. Oggi in Italia entrambi i fattori opererebbero molto probabilmente contro lo sviluppo dell'economia. E' possibile che qualcuno, penso soprattutto nel PD, voglia in buona fede allontanarsi da un sistema bene o male democratico per avvicinarsi a un sistema più fascista (dando a questo termine il significato tecnico che esso ha), onde avere un miglioramento dell'economia; ma molto probabilmente si sbaglia.
8. Un po' di geografia e un po' di storia. E' utile ricordare che la maggioranza dei paesi democratici adotta un sistema proporzionale; che in Europa solo tre paesi adottano un sistema maggioritario, e cioè il Regno Unito, la Bielorussia e la Francia (quest'ultima però a doppio turno); e che la maggioranza degli studiosi di scienza della politica ritiene che il sistema proporzionale sia preferibile a quello maggioritario. (Chi fosse eventualmente interessato ai dati a suffragio di queste affermazioni li troverà in un mio articolo apparso nel settembre del 2007 sulla rivista elettronica Costituzionalismo, scaricabile dal sito http://www.costituzionalismo.it/articolo.asp?id=251). Soprattutto, è interessante notare che il premio di maggioranza è pochissimo usato; oltre che in Italia esiste solo in Grecia e a Malta. A Malta tuttavia il premio viene concesso solo quando un partito ha già la maggioranza assoluta dei voti, ma non dei seggi; e in Grecia per avere diritto al premio di maggioranza un partito o una coalizione di partiti deve avere almeno il 41.5% dei voti. La possibilità che si avrebbe in Italia di passare dal 30% dei voti o meno al 55% dei seggi non ha riscontro nella geografia elettorale.
Ha però riscontro nella storia. La legge elettorale che risulterebbe dalla vittoria dei "si" ricorda abbastanza da vicino la legge Acerbo del 1923, pensata per garantire una larga maggioranza a Mussolini; essa infatti prevedeva che per avere il premio di maggioranza (che avrebbe portato ai due terzi dei seggi) sarebbe stato sufficiente il 25% dei voti.
9. Un po' di diritto costituzionale. Il testo che risulterebbe dal referendum suscita fondati dubbi di costituzionalità; vedremo che la sua ammissione da parte della Corte Costituzionale non li inficia. L'articolo 56 per la Camera e gli articoli 57 e 58 per il Senato stabiliscono infatti che i deputati e i senatori sono eletti a suffragio universale diretto. Non si parla di parlamentari non eletti (ovviamente con l'eccezione dei senatori a vita) e quindi non sembra vi sia spazio per un premio di maggioranza. Il problema esiste anche con la legge attuale, ma se vincessero i "si" aumenterebbe il numero di parlamentari non eletti. Custodire la costituzione è un dovere anche dei politici, e quindi i politici che favoriscono il "si" tradiscono probabilmente il loro mandato.
Ma allora perché la corte costituzionale ha dichiarato il referendum ammissibile? Leggiamo nella sentenza (punto 6): "Questa corte può spingersi soltanto sino a valutare un dato di assoluta oggettività, quale la permanenza di una legislazione elettorale applicabile, a garanzia della stessa sovranità popolare, che esige il rinnovo periodico degli organi rappresentativi. Ogni ulteriore considerazione deve seguire le vie normali di accesso al giudizio di costituzionalità delle leggi" (sottolineatura aggiunta). Questo passo è la conclusione di un lungo ragionamento che in sostanza significa: la Corte può solo verificare che la eventuale abrogazione non crei dei "buchi" nella legislazione. Non può invece valutare nel merito la costituzionalità della struttura risultante; perché possa fare ciò la legge risultante dovrà essere impugnata nelle forme dovute.
10. E' giusto non andare a votare. Bisogna quindi che i "si" non vincano. L'elettore contrario al "si" può scegliere se votare no o non andare a votare. Come è noto, se i contrari possono comportarsi in modo unanime conviene non andare a votare. Curiosamente, tuttavia, è diffusa l'idea che non andare a votare sia immorale. Questo penultimo paragrafo è volto a sfatare questa idea. Porto quattro argomenti.
a) Essendo in gioco la democrazia -perché questa è la posta in palio- non bisogna andare tanto per il sottile.
b) In uno stato di diritto esistono il lecito e l'illecito, non il "vale" e "non vale". Se la legge consente di trarre vantaggio dal non andare a votare, non c'è motivo di non farlo.
c) Se i contrari non vanno a votare, ciò equivale a dire che il "si" per vincere deve avere la maggioranza non dei votanti ma degli aventi diritto. Poiché il referendum è una garanzia per il caso che il Parlamento deliberi contro la volontà della maggioranza degli elettori, ciò non sembra sbagliato.
d) Non andare a votare non costituisce necessariamente una scelta tattica. Io per esempio sono molto contrario a che una norma così importante per la democrazia come una riedizione della legge Acerbo venga approvata da una platea di elettori disinformati sulla base di un testo elaborato a colpi di bianchetto. In altri termini, il rifiuto di votare può benissimo essere una scelta politica, di pari dignità che l'essere per il sì o per il no. Stando così le cose, non è vero che la possibilità di non votare dia un indebito vantaggio al "no"; è invece vero che l'esistenza di due gruppi di contrari al "sì" fa sì che se questi gruppi non si coordinano siano i "sì" ad avere un vantaggio indebito. Mi spiego con un esempio numerico. Supponiamo che ci siano quattro gruppi di elettori: quelli che non vanno a votare perché si disinteressano, che sono il 24.9% degli elettori; quelli che non vanno a votare perché sono contro il referendum (e quindi a fortiori sono contro il "si"), che sono il 25%; quelli che sono per il no, che sono il 25%; e quelli che sono per il sì, che sono il 25.1%. Se i due ultimi gruppi vanno a votare il "si" vince, nonostante che il "no" abbia l'appoggio di quasi due terzi degli elettori che hanno operato una scelta, e il "si" solo di appena più di un quarto degli elettori totali. Un risultato di questo tipo, palesemente ingiusto, può essere evitato solo se i contrari al referendum, in contrasto con la loro preferenza reale, vanno a votare per il "no", oppure se i fautori del "no", in contrasto con la loro preferenza reale, non vanno a votare. Non c'è alcun motivo per cui la prima alternativa sia più giusta eticamente della seconda.
La legge attuale è fatta male: contiene una grossa ambiguità, e cioè appunto che non considera che ci sono due tipi di elettori contrari alla proposta, quelli che sono per il no e quelli che sono contro il referendum. Fino a quando non sarà modificata -per esempio imponendo che il "si" per vincere debba avere il voto del 50% più uno degli aventi diritto, oppure che debba avere il 50% più uno dei voti espressi ma anche il voto di almeno il 25% più uno degli aventi diritto (che è la condizione minima attuale per la vittoria del sì)- non c'è alcun motivo, né morale, né politico, né legale per lasciare che questa ambiguità avvantaggi i "sì".
11. Conclusioni. la vittoria del "sì" al referendum creerebbe un serio pericolo per la democrazia. Il raggiungimento del quorum è improbabile, ma possibile; molto dipenderà da quanto i partiti principali e i mezzi di informazione che a loro fanno riferimento si impegneranno. La strategia migliore per chi sia contrario al "sì" è non andare a votare; non c'è alcun motivo per non farlo.
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