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Addio al Pil
Dall'introduzione all'VIII Rapporto Quars
L’affermazione del Pil come cartina di tornasole per lo sviluppo di un paese risale al secondo dopoguerra, un momento storico in cui una crescita economica senza precedenti si traduceva in un aumento significativo degli standard di vita della popolazione. Nell’era del consumo di massa, l’accresciuta disponibilità di beni e servizi, dopo le privazioni sofferte durante la guerra, sembrava essere il traguardo di una vita felice, e il Pil simbolo e misura di un livello di benessere sempre maggiore. Anche il dibattito sui limiti del Pil e sulla distinzione tra crescita economica e i concetti di benessere e sviluppo viene però da lontano. Lo si potrebbe addirittura far risalire al momento stesso della invenzione del Pil da parte di Kuznet nel 1934, che presentando il nuovo indicatore al congresso americano, affermava “Il benessere di una nazione (…) non può essere facilmente desunto da un indice del reddito nazionale”. Un passaggio fondamentale avvenne, poi, esattamente 20 anni fa, quando Amartya Sen e l’Undp presentarono l’Indice di Sviluppo Umano che sanciva l’era della multidimensionalità dello sviluppo. L’Isu combinava allora e combina tuttora, solo con qualche lieve modifica, un insieme di indicatori relativi al reddito, alla salute e all’educazione nella creazione di un indicatore composito. La capacità che questo indicatore ha di “raccontare”, attraverso una misura sintetica, un’idea di sviluppo basata su una visione multidimensionale non ha eguali, soprattutto per l’importanza mediatica e la diffusione che l’Isu ha avuto in tutto il mondo. La classifica che ne scaturisce cattura sia l’attenzione dei media che quella del pubblico: sebbene non sia privo di criticità metodologiche, è innegabile che questo indicatore abbia aperto la strada a un dibattito molto acceso, offrendo lo spunto per la costruzione di ulteriori indicatori. Gli anni novanta hanno, infatti, visto proliferare nuovi indicatori sviluppati principalmente in ambito accademico.
Volendo sintetizzare in poche righe due decenni di dibattito e centinaia di indicatori sviluppati, si può dire che la ricerca si è articolata attorno a tre questioni principali. La prima, probabilmente la più importante, riguarda le variabili di cui tenere conto quando si decide di trovare una misura per il benessere, lo sviluppo, il progresso e la loro sostenibilità (può sembrare banale ma la scelta di variabili è strettamente connessa al modello sociale, economico e ambientale che si vuole rappresentare). La seconda questione ha natura metodologica e si chiede se sia necessario costruire un indicatore sintetico mediaticamente efficace (ovvero un indicatore che concentri tutta l’informazione in un solo numero come il Pil) o se sia invece più coerente rappresentare il fenomeno in termini disaggregati attraverso un set di indicatori.
La terza, infine, anch’essa di natura metodologica, ruota intorno alla scelta del metodo di eventuale aggregazione: se sia quindi più opportuno continuare lungo la scia del Pil, che usa i prezzi come pesi, misurando il progresso in termini “monetari” e correggendo il Pil secondo obbiettivi ampi di benessere, o sia necessario stabilire un sistema di pesi anch’esso alternativo tenendo conto di aspetti e indicatori non monetizzabili. Nel nuovo millennio il dibattito ha subito un’accelerazione, influenzando sempre di più il dibattito politico ed economico, grazie ad iniziative prestigiose come il Global Project “Measuring the Progress of Societies” dell’Ocse, la conferenza Beyond Gdp tenutasi nel 2007 al Parlamento europeo, la commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi “Measurement of Economic Performance and Social Progress” formata da 5 premi Nobel e numerosi altri accademici di fama internazionale, e la comunicazione dell’agosto 2009 in cui la Commissione europea ha illustrato cinque interventi chiave per integrare gli indicatori di progresso nei sistemi ufficiali di statistiche usati dalla politica. Oggi il dibattito si è allargato ulteriormente, dal G20 al primo ministro inglese Cameron, dall’Aspen Institute al presidente americano Obama, dal Corriere della Sera al New York Times.
La crisi finanziaria, poi, ha dato il colpo di grazia al paradigma della crescita. L’attenzione spasmodica alla creazione di valore, seppure solo finanziario, ha fatto perdere di vista alcuni fondamentali dell’economia che più del Pil significano benessere. È lo stesso rapporto Stiglitz a mettere in luce come si sarebbe potuto intervenire alla radice della crisi se si fosse prestata attenzione alla distribuzione del reddito, ai consumi delle famiglie, alla ricchezza, o anche a semplici aggregati macroeconomici già presenti in contabilità nazionale come il reddito disponibile delle famiglie. Dal 2000 quest’ultimo si è ridotto del 4% per il quintile più povero della popolazione a fronte di una crescita del 9% del Pil pro capite: ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. Di fronte ad un sistema sempre più insostenibile dal punto di vista economico (le continue crisi finanziarie, la dipendenza dalla volatilità dei mercati), sociale (la crisi colpisce soprattutto le categorie più esposte: giovani, donne, precari, immigrati, lavoratori a basso reddito) ed ambientale (si guardi agli effetti dei cambiamenti climatici), ci si è accorti di aver preso male la mira, e che il Pil non era tutto. Aggiustare il tiro vuol dire definire nuovi obiettivi e nuovi indicatori che ci dicano dove stiamo andando, vuol dire ridefinire le priorità e far sì che queste siano condivise. Esiste, però, una consapevolezza che accomuna tutti quelli che a vario titolo si occupano di misurare il benessere e la sostenibilità: anche se gli esperti dovessero mai accordarsi su una misura condivisa questo non sarebbe la garanzia di un passaggio a nuove politiche e a nuovi obiettivi. Non è quindi solo una questione di metodo ma anche e soprattutto una questione culturale e politica. Occorre quindi favorire il passaggio da una discussione prettamente tecnica ad un’azione di natura politico-culturale che abbia efficacia sulle scelte istituzionali, normative ed economiche. È necessario a tal fine costruire dei luoghi di confronto e discussione per arrivare a definire le priorità in un’ottica di benessere e per cercare di ottenere un maggiore impegno da parte delle istituzioni affinché le politiche, guidate da indicatori diversi, si prefiggano obiettivi diversi. Negli Stati Uniti tale luogo sembra formarsi attorno all’organizzazione State of the Usa.
In Italia per ora si è mossa -insieme ad altre iniziative- la campagna Sbilanciamoci che, consultando un ampio gruppo di rappresentanti della società civile, delle università e delle istituzioni ha redatto un documento dal titolo “Benessere e sostenibilità” (scaricabile da old.sbilanciamoci.org) che sollecita governo e istituzioni ad adottare un approccio rinnovato nell’uso degli indicatori economici, sociali e ambientali al fine di monitorare costantemente cosa succede nel paese in termini di benessere e sostenibilità. Il tavolo di lavoro promosso da Sbilanciamoci! non si propone in questa fase di definire l’elenco degli indicatori da utilizzare, ma attraverso proposte di carattere tecnico e di carattere culturale propone un percorso da seguire nei prossimi mesi per mettere le istituzioni in grado di affrontare la sfida del superamento del Pil rendendo espliciti gli obiettivi internazionali che dobbiamo raggiungere sul piano sociale e ambientale, dotando il bilancio dello stato di indicatori che monitorino gli effetti delle politiche, sviluppando una contabilità satellite ambientale, sociale e di genere, rafforzando la produzione di dati da parte dell’Istat, sensibilizzando i media e, infine, rilanciando un processo pubblico di coinvolgimento di tutti i principali attori del paese. Il documento prevede richieste specifiche rivolte al governo, al parlamento, agli enti locali e all’Istat tra cui: rafforzare il lavoro dell’Istat sugli indicatori di benessere, recepire in Italia le indicazioni della Commissione Stiglitz, far vedere la luce ad un Bilancio dello stato corredato da un set di indicatori sociali ed ambientali condivisi e oggetto di dibattito pubblico, varare finalmente la legge sulla contabilità ambientale. Sempre in quest’ottica di ridefinizione degli indicatori da utilizzare per indirizzare e monitorare le politiche, si inquadra il lavoro che la campagna Sbilanciamoci! realizza ormai da otto anni attraverso l’elaborazione del Quars (Qualità Regionale dello Sviluppo), un indicatore composito che misura la qualità dello sviluppo delle regioni italiane. Sbilanciamoci! ha deciso di proporre una definizione delle priorità attraverso un processo di consultazione della società civile italiana, ed in particolare delle organizzazioni aderenti alla campagna, che in questo modo forniscono le priorità attraverso la scelta del set di indicatori. Si tratta di indicazioni importanti legate ad alcuni temi fondamentali: l’ambiente e il welfare, i diritti civili e l’economia, il lavoro e la partecipazione. Il Quars, infine, rappresenta uno strumento utile per due ordini di ragioni. Innanzitutto perché permette al policy maker di monitorare e indirizzare lo sviluppo del territorio in un quadro di sostenibilità del benessere. In secondo luogo, l’approccio utilizzato rende il Quars uno strumento capace di catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica su una serie di temi fondamentali per il benessere di un territorio, ma che troppo spesso vengono messi in ombra da un approccio economicista.
Testo tratto dall'introduzione all'VIII Rapporto Quars, che sarà presentato a Roma il 16 dicembre
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