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Einaudi e il manifesto
Una storia attuale
La solidarietà tra i dipendenti della casa editrice Einaudi le ha permesso di sopravvivere a una crisi profonda, salvaguardando la vita dei lavoratori e un ricco patromonio culturale
Mi è capitato di attraversare una riduzione del personale molto più grave di quella affrontata ora dal manifesto durante il commissariamento della Einaudi. Si sommavano i problemi di bilancio (anche del falso in bilancio per cui Giulio Einaudi e il suo direttore Santoni furono condannati, e poi amnistiati, con l’ultima amnistia della Repubblica), e mutamento tecnologico. Einaudi faceva quattro giri di bozze e aveva una piccola pressa nel seminterrato per fare la prova delle copertine e poterle cambiare, correggere, senza telefonate e corse in tipografia. Aveva un numero sconsiderato di fattorini, una dozzina, perché materialmente doveva far ruotare vorticosamente le cambiali che si faceva scontare in numerose banche, per un controvalore totale di 15 miliardi di lire, metà del fatturato. Era chiaro che nulla di tutto questo poteva sopravvivere, quale che fosse l’esito del percorso di risanamento, perché non ci sarebbero state più le corse da una banca all’altra e perché era arrivata la fotocomposizione, seguita a ruota dai dischetti, dal tempo programmato per la preparazione dei testi, dall’affidamento agli autori della congruità delle traduzioni e del formato.
La solidarietà di noi dipendenti fu molto alta, incluso l’ufficio del personale e tutta la redazione. Erano in ballo due cose: 1) la sopravvivenza della casa editrice come nucleo ideativo completo e relativamente autonomo; 2) la difesa della vita dei lavoratori. I dipendenti di un’azienda ritenuta inaffondabile pensano che il proprio lavoro sia stabile: magari fanno un figlio; un mutuo; comprano qualcosa a rate. Sanno però, se non sono ciechi, che il mondo dell’editoria sta cambiando, che nessuno fa quattro giri di bozze. Ma, appunto: i quattro giri di bozze non li faceva nessuno anche prima; la Einaudi è la Einaudi, che fa i margini giusti, le legature che non si imbarcano, le copertine perfette; che ha comprato i classici Ricciardi – il muro che anche i banchieri devono scalare per essere all’onor del mondo, come diceva Mattioli.
I cambiamenti avvenivano fuori, non lì. Se c’era un luogo in cui i dettagli materiali, l’oggetto libro, nel caso, erano importanti; in cui tutti conoscevano l’importanza dei disegnatori, dei grafici, dei correttori, del settore commerciale, quello era la Einaudi. I dipendenti della rateale, che funzionava con le rate fisse, da allungare nel tempo se il cliente faceva acquisti nuovi, erano formati a pensare di stare diffondendo la cultura in Italia, non di stare ripianando i debiti con l’inflazione a due cifre e le rate fisse i debiti non li ripiani – o aumentando i profitti. Roberto Cerati, direttore commerciale, l’inventore dell’azienda-partito, molto prima dell’invenzione del partito-azienda, è rimasto direttore commerciale con Berlusconi ed è ora, ultraottantenne, direttore generale. Nessuno ha mai pensato che non sapesse promuovere i libri. Personalmente avevo cambiato lavoro e città per non fare il sindacalista. Tornai a fare il delegato sindacale, come all’Agip mineraria, perché, per curiosità e per caso (per il suggerimento di un economista giovane che mi aveva ricordato che anche i conti d’ordine fanno parte del bilancio) avevo capito dove stava il buco maggiore, ero sicuro che non saremmo usciti dalla crisi immutati, non facevo parte di nessuna delle cordate che si stavano posizionando per ricollocarsi nella gestione della nuova proprietà, non mi importava di finire fuori, come tutti i correttori e tutti i fattorini, e molto altro.
I nostri fini erano: far vivere il catalogo Einaudi, sotto qualsiasi padrone; salvare la prospettiva di vita di noi tutti. I fini erano ambedue indispensabili, non solo concettualmente o moralmente, ma anche sindacalmente, perché la redazione, i consulenti, gli autori, che erano la nostra forza, non volevano correre il rischio di sfasciare tutto solo per le rate della casa della correttrice Tal dei Tali; ma anche i correttori e i fattorini non volevano prendere la porta con la coda tra le gambe per la maggior gloria della cultura, o dei consulenti, e a proprio danno.
Il nostro compromesso fu quello di guadagnare tempo – anni di tempo – con la cassa integrazione a rotazione. Non per lasciare imprecisato il nome e cognome degli «esodati», come si dice adesso, perché era chiaro che i fattorini e i correttori sarebbero usciti tutti, ma per avere un po’ di soldi veri, subito, per tutti. Allora, ma anche adesso in molti casi, la cassa integrazione veniva deliberata in fretta ma pagata dopo anni e anni, se l’azienda non poteva scambiare i soldi della cassa con i contributi da pagare all’Inps. La Einaudi non aveva abbastanza dipendenti residui per fare lo scambio; e l’Inps, in ogni caso, non lo pagava da un decennio. Si poteva solo ruotare per avere pagato il tempo lavorato, per anni; in attesa di vedere arrivare, forse, la cassa integrazione. La cosa funzionò anche perché la continuità del catalogo, la unità dell’azienda, richiedevano il concordato preventivo; saltavano nel caso di libri in tribunale. E se i dipendenti avessero fatto causa per i ritardi negli stipendi i libri sarebbero finiti in tribunale. Non interessa a nessuno, ma a me fa impressione ancora adesso: alcuni dipendenti (correttori, fattorini) ritenevano di avere il dovere morale di denunciare, con danno dell’azienda ma soprattutto proprio, perché c’era un reato, e i reati si denunciano. Io mi consultai con avvocati (sempre Bianca Guidetti) e giudici per essere sicuro di non stare incitando i lavoratori di Torino al lassismo e alla corruzione. Questa è stata la classe operaia italiana, non solo metalmeccanica ma anche tipografica e cartaia. Alla fine, naturalmente, ognuno andò per la propria strada: i fattorini e i correttori uscirono; qualcuno trovò lavoro nella scuola; qualcuno in altre case editrici, qualcuno fece l’editore in proprio, come Donzelli e Zamorani, qualcuno salì, qualcuno scese. Nessuno restò con le rate sul gozzo. Forse la situazione del manifesto è molto diversa; ma i fini mi sembrano gli stessi: far uscire il giornale con il nucleo degli assolutamente indispensabili; salvare la vita di tutti.
Questo articolo è già stato pubblicato nell'edizione del 1° aprile del manifesto
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