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Per una sociologia della laicità

13/11/2008

La laicità è componente essenziale della nostra modernità. Ha bisogno di uno spazio pubblico, per sé e non in contrapposizione a qualcos'altro

Propongo di parlare della laicità sociologicamente. “Pensare sociologicamente” - una dimensione della società o un’esperienza del vivere - è la prospettiva suggerita da Pierre Bourdieu con riferimento in particolare alla politica. Suggerisce che sia bene, la politica, pensarla “non solo politicamente, ma sociologicamente”. Un passaggio importante.

Non abbiamo lavorato, noi sociologi, a una “sociologia della laicità”. Contributi che di questa dimensione della nostra società tengono conto ce ne sono, naturalmente: si analizza la secolarizzazione, si affrontano le questioni del pluralismo religioso nelle nostre società. Ma il percorso che propongo è diverso. Mi interessa che si riconosca la laicità come dimensione - scontata, ovvia, legittimata - nello spazio pubblico: non necessariamente in rapporto a, per differenza (dalla Chiesa cattolica, le religioni al plurale, lo stato, le istituzioni ).

Mi interessa che quando si dice pluralismo (e in genere si aggiunge “religioso”) la dimensione,lo spazio, i soggetti della laicità, ci siano. C’entra con l’idea di democrazia, con il funzionamento di un sistema democratico.

Dunque propongo di collocare la dimensione della laicità in un contesto storico e sociale ben preciso, il nostro; e di collegarla alle condizioni e ai processi sociali e storici del presente, e a noi come soggetti, attori sociali, e a condizioni e processi della nostra vita quotidiana. Si può fare riferimento a questa prospettiva senza entrare nei temi che generalmente, nella situazione italiana, si associano alla presenza della Chiesa cattolica: le iniziative, la presenza mediatici, le interferenze, i privilegi. E senza entrare nel dibattito sulla politica e i partiti (e i loro rapporti, appunto, con il Vaticano).

Laici non significa essere “privi di valori”. E non significa ironizzare su comportamenti che non sono congruenti con questa chiave di lettura, e in qualche misura incomprensibili. Che si possa avere bisogno di “pregare” , di sollecitare interventi che siano fuori della “normalità” del proprio vivere, “miracoli” dunque, io l’ho colto con emozione, mi viene da dire, entrando una sera nella basilica del Santo a Padova. In una chiesa dove da bambina avevo visto le cerimonie tradizionali celebrate da una gran folla c’erano poche persone. Però silenziose, concentrate, devote. Erano quasi tutti immigrati. Trovavano lì un’occasione per manifestare il loro credo, per affidarsi, per sperare.

La società "post-tradizionale", la "modernità riflessiva"

Nello studio del mondo contemporaneo si è aperta la prospettiva che definisce la società in cui viviamo come “post- tradizionale”. L’altro termine è “modernità riflessiva”: e dunque noi, gli “attori sociali”, capaci di elaborare opinioni e convincimenti e di prendere posizione nelle diverse circostanze del nostro vivere; competenti, responsabili.

La laicità, dato ed esperienza della modernità riflessiva, non vista dunque per rivendicare spazi di libertà in astratto, ma come ambito –privato e pubblico- del nostro vivere quotidiano. Noi, donne e uomini, di diverse generazioni ed esperienze e progetti di vita, capaci di elaborare opinioni e convincimenti e di prendere decisioni; competenti, responsabili. Non per contrapporci a precetti e verità definiti altrove, ma per starci, nel nostro vivere, consapevolmente.

Il continuare ad imparare, legittimato e insieme richiesto, è è una dimensione irrinunciabile in quella che definiamo come “la società del lifelong learning”, un contesto – e una fase storica- caratterizzati appunto da questo dato: che siamo in grado di (e tenuti a) continuare ad apprendere per tutto il corso del nostro vivere.

Da un passato in cui si delegavano certezze e saperi e anche scelte quotidiane ad autorità o esperti o detentori di verità (i filosofi, i medici, il clero, e naturalmente coloro che in varie forme esercitavano il potere) siamo passati, oggi, ad essere riconosciuti come “soggetti”. L’ordine “post- tradizionale” corrisponde alla fase storica che viviamo: siamo “liberati dal monitoraggio del nostro agire da parte di strutture esterne” . Non accettiamo di essere sottoposti ad “agenzie di controllo”. Dunque ci facciamo carico della responsabilità di non affidarci ai saperi di altri.

Non accettiamo di sentirci vincolati da principi di verità che autorità superiori credono di possedere e impongono. Mano a mano che nel vivere si affrontano passaggi ed eventi e rischi, non si può non sottoporre a verifica quel che si sa (o che si crede di sapere); analizzare criticamente, e in certi casi dis-mettere, credenze e convinzioni, portando anche il peso e la responsabilità di tutti gli elementi di incertezza (e di rischio) propri della fase attuale.

Dunque ci si fa carico di decisioni e scelte. Un'opportunità che per la prima volta nella storia degli umani ci viene riconosciuta. Emergono aspetti di libertà; ma anche di responsabilità. Dei tanti contributi che descrivono questa dimensione del vivere contemporaneo alcuni accenni soltanto.

Un passaggio di Ulrich Beck ci descrive “impegnati in un permanente mettere in discussione, rivisitare, aggiornare le nostre conoscenze… che richiedono verifiche e una continua messa a punto”. E Anthony Giddens: "…Di continuo dobbiamo fare i conti con dati che mettono in dubbio ciò che sappiamo -e che ci richiedono di acquisire, in parallelo, conoscenze e competenze…"Non abbiamo altra scelta che scegliere come vivere e come operare".

Condizioni di vita e processi di cambiamento pongono la grande maggioranza di noi di fronte a circostanze che non hanno confronti con dati del passato. Dunque imparare, e imparare in età adulta in particolare, come componente fondamentale del vivere, non come esperienza di pochi (così è sempre stato nel passato) ma per tutti. E non è un accumulare saperi acquisiti e immagazzinare sistemi di conoscenze ben consolidati, non nelle istituzioni e nei termini tradizionali.

Una trasformazione di scenario straordinaria, con forte significato anche simbolico. Certo ci si deve guardare da letture semplificanti. Del complesso di trasformazioni che il vivere nella modernità comporta si è partecipi in modi e con esiti molto diversi, ed è evidente che le condizioni che favoriscono l' apprendere non hanno per tutti le stesse implicazioni e lo stesso significato. Non è detto che si impari sempre; e per di più l'imparare non equivale ad acquisire capacità di informazione critica, ad essere in grado di anticipare il futuro, ad agire in modo razionale.

Succede a molti di essere disorientati, angosciati, o anche incapaci di reggere questo aspetto del vivere. Dunque si cercano sicurezze, si ritorna a valori del passato, si ricostituiscono appartenenze totalizzanti: il desiderio di mettere nelle mani di altri non solo le scelte più importanti, ma quelle quotidiane, si riflette spesso in pratiche neo-comunitarie, in manifestazioni di fondamentalismo.

Il senso (e la fortuna) di essere laica

Un “pezzo” cruciale lo trovo nella mia esperienza di donna. Non penso che questo riguardi me soltanto. Per le donne della mia generazione molto è stato possibile mettere in gioco, con decisioni difficili e anche, in certe circostanze, drammatiche. Cogliere gli aspetti di apertura, le potenzialità di cambiamento.

Insieme, le scelte nella vita quotidiana e lo spazio della sfera pubblica. Non delegare ad altri. Essere responsabili.

Mi sono data come criterio di non affidarmi al sapere di altri e di non sentirmi vincolata dai principi di verità che autorità superiori credono di possedere, e impongono. Ho così messo a punto e organizzato il mio modo di procedere: per tentativi, con incertezze e dubbi.

C’entrava però anche il piacere di scoprire alternative: di stili di vita e abitudini e pratiche culturali. Ho via via capito che ci sono tanti modi – ugualmente ragionevoli, legittimi- di pensare, e dunque di vivere. Essere soggetti della modernità: alla ricerca del senso e del valore delle cose che viviamo: nell’ambito privato e individuale e nello spazio pubblico. Di difficoltà anche.

Aver vissuto da laica la considero una fortuna. Le cose che contano nella mia vita ho cercato di affrontarle con le mie risorse. Mi è estranea l’idea di attenermi ai precetti di intransigenti depositari di certezze e verità. Mi riguardano i temi della “buona morte”, i diritti da attribuire alle unioni di fatto, scelte come l’aborto e la procreazione assistita; la questione dell’insegnamento della religione nelle scuole; molti altri ancora.

Un programma di lavoro

Collocarsi in questa prospettiva significa riconoscere, oggi, uno spazio che nelle società del passato era negato. Significa costruire (e legittimare) uno spazio pubblico della laicità come componente essenziale della “nostra modernità”, un percorso di approfondimento e di proposta, un programma di lavoro.

Non banalmente, lo dico così - ed è al contesto italiano che mi riferisco - in contrapposizione a convincimenti, verità, precetti che ci vengono trasmessi e imposti. E non caratterizzato da continui accomodamenti e condanne (reciproche), da rinvii, da omissioni e silenzi.

E’ altro. E' il pluralismo come contesto del riflettere e dell’agire. Andare oltre il sistema binario (contrapporre religione e laicità, credenti e agnostici, i principi della Costituzione e i valori che hanno le loro radici nella tradizione della chiesa cattolica, e così via). Per me, un programma di lavoro per i prossimi anni. La dimensione internazionale ed “europea” - quello che chiamo l’effetto-eco (politiche, messaggi, iniziative) - certo ci è di aiuto.

Scherzando, infine: l’Unione Europea ha proposto in passato (scelgo alcuni esempi) “l’anno europeo contro il razzismo”, l’”anno della società della conoscenza”; nel 2007, l’anno delle “pari opportunità per tutti”. Non penso che ci possa essere un “anno europeo della laicità” (dato che tutto sommato in molti paesi non ce n’è bisogno).

A me basterebbe che avessimo, in futuro, un anno italiano della laicità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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