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L'economia dell'io. O del noi?
La manovra di Tremonti è fatta per un io individualista, proprietario e profittatore. I referendum hanno invece spinto per un noi fatto di legami sociali e reciprocità. Un libro di Roberta Carlini racconta le resistenze al ventennio liberista
La manovra di Tremonti, con gli abili equilibrismi per lasciare i soldi ai ricchi dietro una spruzzata di populismo, è fatta su misura per l’economia dell’io – un io individualista, proprietario, profittatore – espressione tanto dell’illusione liberista di far coincidere interesse individuale ed efficienza generale, quanto dell’affannosa tutela dei privilegi tipica del berlusconismo. Con all’orizzonte le nubi della crisi finanziaria europea che ha già travolto la Grecia, le azioni del governo e questo modo di vedere l’economia appaiono clamorosamente inadeguati. Non sono in grado di affrontare la crisi finanziaria e non sono più in sintonia con una società impantanata nella recessione e impoverita dagli egoismi. I referendum di giugno hanno visto emergere una nuova responsabilità verso la collettività e verso il futuro, che ha spinto gli italiani a scegliere la gestione pubblica dei beni comuni (come l’acqua) e rifiutare (per la seconda volta) l’energia nucleare. Potrebbero essere i segni di un paese che riscopre l’economia del noi, fatta di legami sociali e reciprocità, meno ingiusta e insostenibile. Una spinta che ha segnato il voto al referendum, ma che viene da lontano, dalle pratiche di solidarietà e cooperazione che si sono rinnovate in tutto il paese, e sono rimaste invisibili ai media, ai mercati, alla politica.
Arriva al momento giusto la mappa per esplorare questo cambiamento, offerta dal nuovo libro di Roberta Carlini, L’economia del noi. L’Italia che condivide (Laterza, 2011, 122 pp. 12 €). Il libro è una guida alle alternative economiche di piccola scala, alla portata di tutti, ma è anche una riflessione su come la sfera delle relazioni sociali si può sovrapporre a quella del mercato, disegnando la possibilità di un’economia giusta. L’inchiesta racconta decine di esperienze che cambiano i modi di consumare, abitare, investire, lavorare, usare il web. Ci sono quelle dei 700 gruppi d’acquisto solidale d’Italia, il microcredito della periferia di Firenze e la finanza alternativa, la lotta per un’economia legale in terre di mafie, l’auto-ricostruzione di un paese dopo il terremoto dell’Aquila, la scoperta del co-housing con famiglie che condividono alcuni spazi di abitazione, la scommessa di dar casa agli immigrati nelle grandi città, la mutualità e l’auto-aiuto, il co-working tra giovani professionisti precari, le iniziative che hanno diffuso energie rinnovabili e il fotovoltaico, le attività in rete con open source e condivisione gratuita dei contenuti.
Tutte hanno in comune il principio della condivisione, prezioso soprattutto in tempi di recessione: mettere in comune le capacità, i pochi soldi, il proprio tempo permette a tutti di stare meglio e fare di più. Tutte hanno un sapore piacevole, quello di recuperare (almeno un po’) il controllo su come si vive e si lavora. Tutte richiedono una grande fatica per metterle in piedi, coinvolgere altri, trovare il difficile equilibrio tra efficienza e giustizia.
Il libro – vivace e sintetico – ha il pregio di mostrarci cos’è rimasto del bel paese in Italia, i volti di chi ha resistito a trent’anni di neoliberismo con piccole pratiche quotidiane, di chi affronta le macerie lasciate dalla corsa ai consumi e all’individualismo, dall’illusione della ricchezza facile e dalla realtà di una crisi difficile. Roberta Carlini, già vicedirettore del manifesto, si muove dal punto di osservazione di sbilanciamoci.info, il sito di cui è coordinatrice, con uno sguardo attento ai piccoli passi dell’”altraeconomia” e alla critica della “grande” economia. Un fronte, questo, che ha esplorato l’anno scorso curando il libro Dopo la crisi(Edizioni dell’Asino) con le proposte concrete di trenta economisti europei e americani per uscire dalla recessione.
Nei micro-ritratti presentati da L’economia del noi colpisce l’estrema frammentazione delle esperienze: solo in un piccolo gruppo sperimentato può nascere la fiducia reciproca e l’impegno comune che consente di condividere un’avventura economica, la cura dei figli o una rivolta contro la mafia. È certo un limite alla loro possibilità di crescere, ma anche il segno che possono diffondersi ovunque ci sia la preziosa risorsa della cooperazione.
Colpisce l’eterogeneità delle forme organizzative: ci sono gruppi informali, associazioni, cooperative, imprese come le altre, una differenza rispetto al passato, in cui la natura “diversa” dell’attività si rifletteva in modelli cooperativi o non profit.
Colpisce la loro piccolissima dimensione economica; la maggior parte delle iniziative offre beni, servizi e lavoro con risorse molto inferiori al valore che può avere un piccolo appartamento, e stupisce che in un’Italia comunque piena di ricchezza non ci sia praticamente nessuno che riconosca il rilievo di questi sforzi e ne finanzi la crescita.
Colpisce infine la loro capacità di innovazione sociale, la varietà – e ci sono molte altre esperienze di solidarietà sociale, produzioni culturali, iniziative ambientali, attività in rete meriterebbero di essere raccontate. Colpisce la loro capacità di evolversi: un gruppo di acquisto nato a Milano per risparmiare nella frutta e verdura apre la strada ad aziende di produzioni biologiche capaci di esportare in tutta Europa. A Palermo dalla rivolta contro il racket nasce la rete di “Addio pizzo” che raccoglie 10 mila consumatori, 400 commercianti e 30 imprese, con l’idea di diffondere il marchio “pizzo free” tra i produttori di beni di consumo. Dall’emergenza terremoto a Pescomaggiore nasce Eva, Eco-villaggio autocostruito, che ripopola un paese abbandonato costruendo case fatte di paglia – semplici ma sicure, provvisorie ma sostenibili – usando le competenze di architetti ed esperti, il lavoro di volontari e di chi ci abiterà, ricostruendo una vera comunità.
Storie belle, incoraggianti, esemplari. Fragili, perché sostenute soprattutto dalla determinazione dei protagonisti. E sempre minacciate da una logica di mercato che soffoca le nuove esperienze e usa a proprio vantaggio innovazioni sociali e motivazioni etiche. Le capacità del mercato di neutralizzare i tentativi di fare impresa in modo diverso hanno ormai una lunga storia. È successo qualcosa di simile al movimento cooperativo sviluppatosi nel dopoguerra: le cooperative di produzione e lavoro, tipiche dell’agroalimentare e delle costruzioni, ora si distinguono sempre meno dalle altre imprese. La cooperazione sociale, cresciuta negli anni '80 con l’esternalizzazione dei servizi pubblici, è ora vittima dei tagli di spesa, perde autonomia rispetto ai politici, deve usare sempre più lavoro precario e a bassi salari. L’espansione del commercio equo e della finanza etica negli anni ’90 si è ora arrestata, con grandi imprese e banche che propongono i loro prodotti e servizi “etici”. L’idea della condivisione gratuita dei contenuti disponibili nella rete – open source, wiki, peer to peer – ha fatto strada, ma è sempre minacciata da proprietà intellettuale e e-business.
Sembra una corsa a inseguimento, con la società che inventa e sperimenta nuovi modi di vivere e lavorare al riparo (almeno un po’) dalla mercificazione, e il mercato che insegue, ingloba e reimpone le sue regole.
Sono tutte storie – queste dell’economia del noi – in cui manca la politica. È anche quest’assenza che permette al mercato di soffocare facilmente esperienze come queste. Molti dei protagonisti vedono il loro impegno come il modo per realizzare – in piccolo, in concreto – quei cambiamenti a cui la politica – anche della sinistra – ha rinunciato. Altri affiancano queste pratiche alle campagne dei movimenti che chiedono alla politica di tutelare i diritti, il welfare, l’ambiente. Una società capace di auto-organizzarsi – conclude l’autrice – sarà anche più capace di mettere la politica di fronte alle sue responsabilità: assicurare ai cittadini beni e servizi pubblici, casa e lavoro.
Proprio il nodo della politica è al centro della discussione su questo libro, con gli interventi di Emilio Carnevali su Micromega on line e Roberto Tesi sul manifesto (“Il mutuo soccorso si fa società”, 21 giugno), che sottolineano l’esigenza di ricomporre la divaricazione tra comportamenti individuali – piccole pratiche concrete con effetti limitati – e il progetto politico – universalista ed egualitario, ma rimasto astratto e irrealizzato – della sinistra.
La via d’uscita potrebbe essere la politica del noi, fondata non sulla delega del cittadino a un welfare paternalista e burocratico, ma sulla partecipazione di tutti alle decisioni e alla loro realizzazione. Si potrebbe iniziare dalle città che da un mese hanno un nuovo sindaco di centrosinistra: sarebbe bello vedere Pisapia, Fassino, De Magistris, Merola e Zedda usare l’economia del noi come una guida per riconoscere le risorse del cambiamento nelle loro città e disegnare su di esse una nuova generazione di politiche del bene comune. Anche questa sarebbe una bella storia, un impegno faticoso, ma inevitabile per provare a cambiare come si vive e si lavora.
Questo articolo è apparso sul manifesto del 2 luglio 2011
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