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La struttura che manca all’economia italiana
La rotta d'Italia. La via d’uscita dalla crisi proposta da Sbilanciamoci deve fare i conti con la debolezza della struttura produttiva italiana: è necessario investire nei settori emergenti
Da un lato si prospetta una linea di politica economica europea coerente con lo sviluppo dell’area euro, dall’altra si indicano delle policy tese ad aumentare la domanda e, in particolare, gli investimenti. Il punto che voglio trattare non è se le policy indicate nell’appello di sbilanciamoci sono corrette, piuttosto come queste policy possono impattare sul sistema economico e produttivo dell’Italia. In altri termini: l’Italia è attrezzata per soddisfare la domanda aggiuntiva che si manifesterebbe se l’Europa e il prossimo governo del Paese, auspicabilmente di centro sinistra, adottasse le linee suggerite?
Permettete un esercizio fondato sui se. Ipotizziamo che Europa 2020 diventi l’asse portante della policy europea: un aumento della spesa in ricerca e sviluppo al 3% del pil, una riduzione del 20% del livello d’inquinamento, un aumento del 20% della produzione di energia da fonti rinnovabili e un aumento del tasso di occupazione. Immaginiamo anche che il progetto 20-20-20 diventi l’asse portante delle politiche industriali e quindi degli investimenti europei. Sostanzialmente l’Europa si appresterebbe a costruire un nuovo paradigma tecno-economico (Schumpeter), cioè l’unica via per far aumentare la domanda effettiva. Coerentemente l’UE decide di dotarsi di proprie politiche pubbliche e di un proprio bilancio autonomo più o meno pari al 3-5% del pil europeo, di utilizzare gli eurobond o altri strumenti utili per stimolare gli investimenti europei per supplire alla carenza di domanda. Se l’UE facesse tutto questo, l’economia europea avrebbe davanti a se una “inedita” domanda aggiuntiva. Infatti, la combinazione di nuovi investimenti pubblici e gli obiettivi sottesi a “Europa 2020”, permetterebbe di applicare sia le teorie dell’innovazione di Schumpeter, sia politiche keynesiane. L’effetto sarebbe una crescita degli investimenti pari alle aspettative degli imprenditori, moltiplicati dallo sviluppo di un nuovo paradigma tecno economico. A livello europeo una politica economica di questo livello quali-quantitativo sarebbe una novità assoluta, ma comunque indispensabile per uscire dalla crisi.
A questo punto sono costretto a scomodare Pasinetti e Leon, tra i pochi economisti (viventi) che hanno studiato le dinamiche strutturali del capitalismo. Solo attraverso l’uso dei loro modelli è possibile comprendere l’impatto di siffatte politiche economiche sul sistema produttivo italiano. Non dobbiamo mai dimenticarci che un aumento della domanda effettiva non significa un aumento generalizzato della produzione di beni e servizi, piuttosto un aumento limitato a quei settori che più di altri sono interessati dall’aumento della domanda.
Oggi si abusa del termine flessibilità, ma per Pasinetti e Leon, a dire la verità anche Smith, utilizzano il termine flessibilità con un significato molto più coerente con il sistema economico capitalistico, cioè la possibilità di passare da un settore in declino a un settore più produttivo. In Europa il tessuto produttivo non è omogeneo. Quindi, l’aumento della domanda legata alle politiche sottese alle proposte di sbilanciamoci non ha ricadute immediate sulla domanda nazionale, ma proporzionale alla nostra specializzazione produttiva. Ricordandoci i suggerimenti di Andriani, Leon, Lucarelli e Romano [1], gli investimenti “non vanno” in tutti i luoghi. Il più delle volte si realizzano dove ci sono le competenze per implementarli. Ma queste competenze sono per lo più legate alla conoscenza. In altri termini, investire di più non significa crescere di più.
Dopo questa breve spiegazione delle implicazioni economiche che sottendono gli investimenti europei per uscire dalla crisi, possiamo valutare l’impatto sul sistema economico nazionale. La prima cosa che mi preme sottolineare è la seguente: non è vero che le imprese italiane non fanno investimenti. È un comodo alibi “sinistro” per giustificare la crisi italiana, ma che non aiuta a comprendere i nodi di struttura che dobbiamo affrontare. In realtà gli investimenti italiani sono i più alti a livello europeo in rapporto al pil. Per essere precisi, l’Italia è l’unico paese di area ocse che ha mantenuto costanti gli investimenti delle imprese in rapporto al pil, mentre in tutti gli altri paesi sono diminuiti. A questo punto dobbiamo domandarci perché il pil europeo è salito del 25%, mentre quello italiano dell’11%, con uno spread di quasi 11-12 punti di pil di minore crescita? Detto in parole più semplici: per avere un punto di pil l’Italia deve investire il doppio della media europea. Questo è il vero problema dell’Italia.
Proprio perché le risorse sono scarse, il Paese non può permettersi di trasformare gli investimenti da opportunità alla crescita in vincolo alla crescita. Al momento gli investimenti italiani sono un vincolo che rende la situazione economica dell’Italia più preoccupante di altri paesi. Se utilizzassi un criterio prudenziale dell’impatto economico dei nuovi investimenti europei, è possibile sostenere che le ricadute sul sistema produttivo nazionale sarebbero pari alla metà di quello medio europeo, ovvero l’Italia avrebbe meno crescita e occupazione di quella europea.
A questo punto occorre una breve storia dell’industria italiana (recente). Restando solo agli anni 2000-2010, l’Italia, tra tutti i grandi paesi, è l’unico ad avere una produzione industriale di segno negativo del meno 14 per cento. Ma l’aspetto più drammatico della complessiva diminuzione della produzione industriale è legato alla caduta verticale della produzione di beni strumentali, cioè l’equivalente degli investimenti delle imprese destinato a migliorare le performance delle proprie strutture produttive, pari a un meno 17%. In altre parole, ogni investimento delle imprese fatto per modernizzare la propria struttura produttiva si traduceva in importazioni dall’estero, oppure in perdita di quote di mercato internazionale. Solo in questo modo possiamo spiegare la mancata crescita del pil a parità di investimenti: la struttura produttiva italiana specializzata nei settori maturi poteva solo incorporare l’innovazione prodotta in altri paesi, con l’effetto di migliorare la posizione nel cosiddetto made in Italy, ma lasciando ad altri competitors le migliori performance dei settori avanzati legati ai beni strumentali.
Dobbiamo aver ben presente che l’accresciuta intensità tecnologica nella produzione di beni e servizi ha mutato la struttura dei mercati. I paesi che hanno saputo adeguare il target della propria struttura produttiva sono riusciti a conservare un certo “margine” di “contrattazione”, sia per i profitti e sia per i salari. Inoltre, l’allargamento del mercato riferibile alla concorrenza di beni e servizi a minore valore aggiunto ha delle forti implicazioni nella divisione internazionale del lavoro e nella possibilità di garantire dei salari adeguati per sostenere la domanda. Le strutture produttive a minore tasso d’innovazione sono anche intrinsecamente meno dinamiche.
Ma occorre fare un passo in vanti. Partiamo sempre dal presupposto che venga presa sul serio da parte dei paesi europei il progetto Europa 2020 e il pacchetto 20-20-20. Possiamo sostenere che l’indirizzo europeo di politica economica è quello di anticipare la domanda [2]. Se oggi guardiamo alla spesa in ricerca e sviluppo, osserviamo che ci sono alcuni settori che più di altri stanno trainando il sistema economico. La green economy è citata da tutti ma, in realtà, anche la farmaceutica ha registrato tassi di crescita molto alti. Nel corso di tutti questi anni ho cercato di capire come il settore industriale italiano si posiziona nel consesso internazionale, verificando se i brevetti crescono alla stessa velocità dei settori emergenti e in particolare della green economy. Quello che si evince dai dati raccolti è un quadro per certi aspetti drammatico. Tra il 2007 e il 2010 gli unici investimenti positivi a livello mondiale sono legati alla green economy, alla produzione di energia eolica, solare, termodinamica. Tutti i paesi che hanno fatto questi investimenti, che sono soprattutto investimenti pubblici, hanno avuto tassi di crescita significativi. A questo proposito basta prendere come esempio la Germania.
Ma se l’Italia dovesse adottare le policy sottese al programma 20-20-20, in ragione della propria specializzazione produttiva, dovremmo affrontare un paradosso di difficile soluzione: ogni euro di incentivo per la produzione di energia rinnovabile, l’installazione di pannelli solari, si traduce in “lavoro buono” per la Germania. Noi installiamo certi beni, ma proprio non conosciamola produzione. È buon lavoro per gli “idraulici” che installano i pannelli solari, ma il lavoro buono di chi produce i pannelli solari o le pale eoliche realizzano un valore aggiunto superiore è altrove.
La sfida è quella di utilizzare gli investimenti delle imprese e del soggetto pubblico non come strumento d’ importazione, ma come incubatore di nuove attività industriali capaci di anticipare la domanda; diversamente, se non saremo capaci di anticipare la domanda, la prospettiva di crescita dell’Italia è nulla. In altre parole, se Europa 2020 diventa veramente l’incubatore schumpeteriano europeo, in realtà è già oggi così, l’Italia è impreparata ad affrontare questa sfida. Utilizzando la bilancia commerciale dei beni e servizi legati alla green economy e la potenza installata di energia rinnovabile, si osserva che l’energia rinnovabile prodotta in Italia passi da 100 a 120, mentre la bilancia commerciale passa da 100 a 80. Quindi, il problema principale dell’Italia è legato al peso specifico della propria struttura produttiva. Di tutto il panorama-opportunità produttivo che la green economy rappresenta, l’Italia pesa per il 5,7%, ma quando dobbiamo usare le mani per installare la tecnologia di altri diventiamo un bel po’ più competitivi. Ad altri la crescita, lo sviluppo, i redditi sottesi; all’Italia il duro lavoro di manovalanza.
Ecco perché è importante affrontare il problema della struttura produttiva. Se non lavoriamo in questa direzione, oltre a non soddisfare la domanda legata ai settori emergenti, rischiamo di formare dei giovani molto preparati, ma “inutili” per la struttura produttiva italiana. Non possiamo permetterci di avere un “capitale umano” così qualitativamente format, ma con l’unica prospettiva di lavorare all’estero.
Ecco perché vale la pena approfondire le ipotesi suggerite da sbilanciamoci, ma servirebbe anche un bel impegno di ricerca. Il Libro Bianco per il Lavoro degli economisti della CGIL è un ottimo punto di partenza.
Quello che volevo proporre è questo: trovare forme e modi per unire le idee di libertà dal bisogno, libertà di fare, lavoro e reddito coerente con le aspettative di cambiamento di paradigma di struttura.
[1] Quaderni di Rassegna sindacale di gennaio-marzo 2013 di prossima pubblicazione.
[2] Sto parlando delle proposte comunitarie circa il rilancio dell’industria manifatturiera e la riorganizzazione del settore delle automotive. Quest’ultimo è un tema su cui sbilanciamoci ha scritto molto anche con il mio contributo.
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