Home / Newsletter / Newsletter n. 106 - 14 febbraio 2011 / L'armata Fox contro The Nation

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L'armata Fox contro The Nation

11/02/2011

L’attacco del Tea party alla libertà di opinione, la sua intolleranza può fare presa negli Stati uniti. Non da noi, dove è tutta un’altra storia…

Nell’inserto di RepubblicaD – del 5 febbraio scorso un articolo di Federico Rampini ha portato all’attenzione un importante “caso” nell’attuale contesto degli Stati uniti. Frances Fox Piven (docente della City University di New York, politologa di fama internazionale e, aggiungo, da moltissimi anni una cara amica) nelle scorse settimane è stata fatta oggetto di attacchi e pesanti minacce in seguito a una campagna promossa sulla rete televisiva Fox da Glenn Beck, importante figura mediatica. Dopo la pubblicazione nella rivista The Nation di un articolo sulle mobilitazioni in Grecia (e anche facendo riferimento ai suoi scritti degli anni settanta, e per le posizioni politiche che continua a elaborare e proporre) è stata definita “nemica della patria, sovversiva” ed è oggi al centro di confronti e scontri. Sul sito della rivista vengono registrati ogni giorno i commenti formulati sia da sostenitori di posizioni di destra (del “Tea Party” in particolare) sia da quelli (sono pochi, in realtà) che si schierano a difesa della libertà di opinione, e anche a tutela della privacy (dato che sono stati resi noti la sede universitaria e anche l’indirizzo e il numero di telefono di casa della persona in questione, e le arrivano minacce di violenze, anche di morte).

Si è parlato di questa vicenda come di una “campagna pesantemente personalizzata” nei confronti di una figura di intellettuale o, diremmo noi, di un’attivista politica: ed è il caso di riprenderli, alcuni riferimenti. Glenn Beck dice che questo tipo di persone “credono nel comunismo, vogliono che la gente faccia una rivoluzione“. Il fatto che Frances Piven, facendo riferimento a quanto stava succedendo in Grecia, legga le mobilitazioni e le lotte “di base” come possibili meccanismi di cambiamento sociale, viene visto come un pericoloso sostegno a movimenti che hanno provocato violenze e morti; e, ancora, come un auspicio che “questo succeda anche negli Usa”.

Da noi la cosa rischiava di rimanere del tutto ignorata (dagli Usa invece, nelle scorse settimane, sono arrivate preoccupate segnalazioni da molti colleghi e amici sociologi) e opportunamente nell’articolo si mette in luce come la situazione attuale sia segnata, in America, da un’opinione pubblica orientata pesantemente a destra. Pochi giorni dopo la pubblicazione del testo di Rampini, il 7 febbraio, è uscito su The Nation un editoriale che riaffermava le posizioni della rivista con riferimento al “diritto di parola” e a criteri di “giornalismo responsabile”. Val la pena di tornare su questa vicenda tanto più che sul sito della rivista continuano ad arrivare moltissimi commenti, e soprattutto attacchi.

Regulating the poor è il titolo del libro di Richard Cloward e Frances Piven nel quale si portava l’attenzione su processi in atto dell’America degli anni settanta, e indicavano possibili “svolte”. Era la voce di una “sinistra” che metteva al centro la classe operaia nelle fasi di rapido sviluppo del dopoguerra e, dopo, durante la pesante crisi economica degli anni sessanta/settanta: dunque le migrazioni verso le zone di sviluppo industriale, le masse di individui coinvolti nei processi dell’industralizzazione, la presenza della popolazione “nera”. La prospettiva di un welfare che si auspicava si potesse realizzare e le condizioni di disoccupazione e di povertà, le discriminazioni, la segregazione. Ma soprattutto veniva messa in luce la mancanza di organizzazione e di “voce” di milioni di “poveri”. Si delineavano possibili iniziative volte a rivendicare risposte, politiche adeguate, ascolto.

E invece negli anni successivi si è affermato il reaganismo.

Negli interventi pubblicati, giorno dopo giorno, nel sito di The Nation, ci sono voci che riecheggiano la domanda di giustizia sociale e sollecitano una presa di coscienza del problema, dunque mobilitazione, visibilità pubblica, campagne volte a forme di organizzazione degli esclusi, delle masse dei “poveri”. Ci sono iniziative di sostegno da parte di associazioni, si rivendica il diritto alla libertà di espressione. Nel nostro contesto, nella nostra “cultura” a molti – mi auguro – queste sollecitazioni appariranno condivisibili, legittime: le analisi, le denunce della gravità della situazione, e possibili forme di risposta appunto messe in moto “dal basso”.

Ma sono davvero tanti gli interventi, sul sito di The Nation, nei quali si dichiara che, quelli che sostengono queste posizioni, non possono essere tollerati. Vanno denunciati e combattuti; anzi, “fatti fuori”.

Una parte indubbiamente considerevole dell’elettorato e dell’opinione pubblica si schiera su questa posizione: nessun confronto di idee, nessuna analisi o riflessione in questi termini. E comunque inammissibile dare spazio a queste voci nel dibattito pubblico.

Coloro che sostengono idee come queste, appunto, meritano che “shoot them in the head” .

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