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Etica della ricchezza
Nel dibattito che ha accompagnato la vertenza di Mirafiori si è più volte fatto riferimento alla retribuzione percepita da Marchionne. L’opinione pubblica è venuta, così, a conoscenza del fatto che il suo stipendio è pari a oltre 400 volte quello medio di un operaio della Fiat e questo già alto rapporto raggiungerebbe valori strabilianti se si tenesse conto anche di quella forma di retribuzione particolare che sono le stock options. Lo stipendio di Marchionne offre l’opportunità di fare qualche riflessione sul fenomeno dei super-ricchi che pone molti rilevanti quesiti nell’area di confine tra etica ed economia, quindi nella nostra area.
Iniziamo considerando alcuni dati. Restando nel mondo degli amministratori delegati e dei consigli di amministrazione, traiamo utili informazioni dall’analisi di Casanova e Roncoroni, pubblicata su lavoce.info nello scorso novembre e condotta sui dati di bilancio di 20 tra le più grandi società italiane quotate in Borsa. Da questa analisi risulta che i consigli di amministrazione delle 20 società hanno un costo annuo che oscilla tra i 600 mila (una bazzecola) e i 15 milioni di euro, con un valore mediano di circa 4 milioni. L’incidenza di questo costo sul valore di Borsa della società raggiunge quasi il 3%. In media l’amministratore delegato, da solo, percepisce circa la metà di queste somme, tuttavia in alcuni casi i suoi emolumenti assorbono oltre l’80% delle risorse destinate ai consigli di amministrazione.
Dai dati in esame risulta che le retribuzioni spesso sono davvero elevate. Tuttavia, se si proietta lo sguardo sullo scenario internazionale, si rileva che altrove i valori sono ancora più alti. Secondo un’indagine recentemente condotta dalla Dasein Executive Search (con riferimento a società basate nelle capitali dei vari paesi) e di cui dà conto l’Economist del 29 gennaio scorso, il paese che assicura le più alte retribuzioni agli amministratori delegati sembra essere il Brasile. Seguono gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e Singapore. Questo esito, probabilmente sorprendente, potrebbe trovare una spiegazione nel fatto che un paese in crescita come il Brasile sperimenta una forte scarsità di offerta di top managers. Prima di accettare questa spiegazione bisognerebbe, però, assicurarsi che la domanda e l’offerta siano davvero decisive nel determinare queste retribuzioni, cioè che vi sia un mercato per i top managers che funzioni come quello descritto nei manuali di economia. Ma, come vedremo,questa interpretazione solleva più di un dubbio.
I percettori di redditi elevatissimi non sono, naturalmente, soltanto gli amministratori delegati. Di questo club piuttosto ristretto fanno parte numerosi altri soggetti, molti dei quali derivano – come gli amministratori delegati – il proprio reddito non dal capitale ma dal loro lavoro, per quanto speciale questo lavoro possa essere. Tra i super-ricchi ci sono le cosiddette superstar del mondo dello sport e dello spettacolo, alcuni grandi professionisti e forse – ma sempre meno - anche qualche grandcommis dello stato.
Il fatto che tra i super-ricchi sia piuttosto consistente – e in crescita – il drappello di coloro che sono tali grazie non al capitale di cui sono proprietari ma, piuttosto, alle prestazioni lavorative che offrono, costituisce sicuramente un elemento di importante novità, maturato negli ultimi decenni, le cui implicazioni sono estese e profonde. Si consideri, ad esempio, che se il lavoro consente di diventare super-ricchi, il possesso del capitale cessa di essere quel discrimine, quasi insuperabile, tra chi ha moltissimo e chi ha poco o pochissimo, che esso è stato per molto tempo. E questo non è senza conseguenze per la base sociale dei diversi schieramenti politici.
Questi “lavoratori” sono, dunque, una componente sempre più importante del club dei super-ricchi, che negli ultimi decenni, si è notevolmente rafforzato, in numerosi paesi tra i quali il nostro, in termini di quota di reddito nazionale di cui si appropria. Numerosi studi lo documentano. La crescente concentrazione del reddito nelle mani del ristretto gruppo dei super-ricchi ha anche contribuito a determinare quel marcato ampliamento nelle disuguaglianze che, come è noto, si è avuto nella quasi totalità dei paesi avanzati.
Lo straordinario privilegio di cui godono alcuni appare ancora più straordinario se invece dei redditi si considerano i patrimoni accumulati. Guardiamo i dati che Forbes ha pubblicato sugli italiani con i più consistenti patrimoni, evitando il capogiro che provocherebbe l’esame dei dati relativi ai più ricchi al mondo. In Italia, nel 2010, il patrimonio personale più elevato è risultato essere quello di Michele Ferrero & famiglia stimato a 17 miliardi di dollari. Questa ingente ricchezza non è, però, sufficiente a salire oltre il 28° posto a livello mondiale. Il secondo italiano più ricco è Leonardo Del Vecchio con un patrimonio di 10,5 miliardi. Al terzo posto c’è Sivio Berlusconi & famiglia con un patrimonio di 9 miliardi, il 74° al mondo.
E’ interessante osservare, in primo luogo, che in tutti questi casi (ma anche per molti di quelli che li seguono nella graduatoria) il patrimonio risulta in sensibilissima crescita tra il 2009 e il 2010: quello di Ferrero è passato dai 9,5 miliardi del 2009 ai 17 miliardi del 2010 (quindi è quasi raddoppiato) e quello di Berlusconi è salito da 6,5 a 9 miliardi (quindi un aumento del 50% circa). Non sembra che la crisi abbia avuto modo di “occuparsi” di questi patrimoni.
E’ inoltre utile fare un piccolo calcolo. Supponiamo che un patrimonio di 10 miliardi di dollari frutti un modesto rendimento del 2,5% netto all’anno. Questo vuol dire che da quel patrimonio si potrà derivare un reddito di circa 700.000 dollari al giorno (sì, al giorno), cioè circa mezzo milione di euro (sempre al giorno). Pertanto, quando un super-ricco di questo livello generosamente dona 10.000 euro sta sacrificando più o meno la stessa quota di reddito alla quale rinuncia un cittadino medio quando lascia al cameriere che lo ha servito in pizzeria una lauta mancia da 1 euro. Nel valutare la generosità dei ricchi – di cui hanno parlato, in questi giorni, alcune giovani signore riferendosi al nostro Presidente del consiglio – sarebbe bene tenere presenti questi rapporti.
Di fronte a questi dati, non è facile evitare di porsi alcune fondamentali domande: cosa consente di remunerare con le somme elevatissime prima ricordate alcune prestazioni lavorative, anche se altamente qualificate? Qual è il processo di generazione delle super-ricchezze e che giudizio possiamo darne? C’è del merito in tutto questo? E’ bene dire subito che non disponiamo di risposte approfondite e interamente convincenti a queste domande. E’ molto più facile che queste domande incontrino un malcelato fastidio piuttosto che una ragionevole argomentazione la quale, partendo dalla individuazione del processo che genera queste ricchezze, ne mostri l’accettabilità e il collegamento con una qualche idea di merito.
Un campione interessante ed esemplare di giudizi o pre-giudizi su queste tematiche l’ho trovato sul sito del Giornale (il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti) in relazione proprio alle retribuzioni di Marchionne. Come ora si usa fare (sia detto en passant: per creare sempre più audience che è valore economico e che come tale spesso contribuisce a creare super-ricchi) i lettori sono stati invitati a esprimersi a favore o contro, e a motivare la loro presa di posizione. In questo campione credo che siano rappresentate, assieme ad altre, le idee principali che alcuni economisti, certo esprimendole in modo più raffinato, utilizzerebbero per giustificare quelle stratosferiche retribuzioni.
La più importante tra di esse è questa: se a decidere le retribuzioni è il libero mercato, non vi è altro di cui discutere. Anzi, se si provasse a decurtare quelle retribuzioni, il mercato si vendicherebbe e il paese che avesse tentato quella strada perderebbe il top manager o la superstar di turno, con un danno che viene considerato – senza dimostrazione, peraltro – di proporzione tali da non consentire nemmeno di prendere in esame questa ipotesi.
Questo ragionamento viene normalmente rafforzato sostenendo che le remunerazioni immeritate sono quelle dei politici che si sottraggono, appunto, al mercato. Sul sito del Giornale qualcuno ha espresso questa idea in un modo assai colorito: “…e se poi pensiamo ai 9 milioni e fischia (18 miliardi) che ci è costata la carriera di Fini che si trova nei palazzi romani da 30 anni e politicanti vari che sono lì anche da oltre 50 che sono costati ancora di più e hanno procurato pure danni, beh quelli di Marchionne sono pure pochi!!!!”. Un pignolo economista potrebbe dire che qui si comparano redditi annuali e redditi trentennali, ma è evidente che non è questo il problema.
Viene da chiedersi – limitandosi a una battuta su una questione che meriterebbe ben altri approfondimenti – come funzioni un mercato che permette redditi così elevati e così fortemente differenziati malgrado le differenze nelle abilità (e in altri titoli di merito) dei singoli non sembrino davvero in grado di spiegare quelle distanze. E non è a prova di logica desumere, come pure spesso si fa, la presenza del talento e del merito dalla altezza delle retribuzioni. Non è propriamente una buona spiegazione quella che attribuisce al mercato virtù tali da poter desumere l’esistenza del merito e del talento dalle retribuzioni che il mercato determina. Un piccola conferma: dall’analisi prima ricordata di Casanova e Roncoroni, emerge che tra performance aziendali e retribuzioni del consiglio di amministrazione non sembra esservi un chiaro nesso, cosicchè le elevate retribuzioni non possono essere attribuite a meriti elevati, anche nel ristretto senso di meriti aziendali.
In realtà le presunte virtù del mercato devono essere provate e deve essere provato che esse tengono del debito conto il “valore sociale” del contributo lavorativo di ciascuno. E’ forse opportuno ricordare che la legittimazione del mercato a svolgere il ruolo di istituzione principe nell’economia e nella società deriva largamente dal lavoro che gli economisti hanno fatto per dimostrare che esso è in grado di commisurare le remunerazioni al “valore sociale” che ciascuno contribuisce a creare, con le proprie abilità e il proprio impegno. E resta da provare che sia questo lo stesso mercato che assegna le stratosferiche retribuzioni di cui abbiamo parlato, così come è da provare che non siano all’opera, almeno in alcuni casi, le forze sottili del potere che – come è ben noto – dovrebbero essere del tutto assenti in un mercato ben funzionante. Insomma, vi è materia su cui riflettere e si tratta di materia che non è priva di implicazioni per una rinnovata analisi dei rapporti tra etica e mercato.
In questo contesto, ma da una prospettiva assai diversa, sarebbe utile chiedersi anche quale sia la ricaduta sociale della ricchezza. La tesi a favore della ricchezza più citata è quella racchiusa nel famoso effetto trickle down: i ricchi, in vari modi, trasmetteranno al resto della società – e, in particolare, ai più poveri – parte della loro ricchezza cosicchè essi sarebbero i veicoli di un generalizzato aumento di benessere. Molti elementi, tra cui il persistere delle povertà, porterebbero a contestare la generale validità di questa tesi. Più di frequente i ricchi generano altri ricchi alimentando un circuito chiuso della ricchezza che definisce una società fortemente segmentata, ben lontana da quella “aperta”, implicata dalla tesi del trickle-down. E quando i ricchi trasferiscono reddito in modo consistente ai più poveri rischiano di farlo anche creando una dipendenza personale di tipo non certo migliore di quella dipendenza alla quale, secondo una critica piuttosto diffusa, darebbe origine il welfare state assistenzialista. Volendo, si potrebbe provare ad applicare questo ragionamento alle vicende di cui (sembra che si) è reso protagonista nella sua vita privata il nostro premier. Vicende che, per dire una cosa banale, sarebbero più difficilmente immaginabili se tra Berlusconi e le ragazze le disuguaglianze di reddito fossero state qualche migliaia di volte inferiori.
Da questi ragionamenti appena abbozzati si può, dunque, trarre una conclusione, anche se provvisoria. La (grande) ricchezza – e non soltanto la povertà – può essere un problema sociale. E può esserlo per almeno due motivi: perché prova che il mercato non funziona come dovrebbe per avere piena legittimazione sociale e perché essa altera e distorce i rapporti sociali in un insieme di modi ben più numeroso di quelli a cui qui si è fatto cenno. Porre rimedio alle conseguenze negative della ricchezza eccessiva non è affatto facile. Sia perché si tratta di un problema di per sé molto delicato, sia perché la ricchezza genera anche potere e questo non facilita davvero la ricerca e l’attuazione di soluzioni ragionevoli. Per chi si muove al confine tra l’etica e l’economia non è una bella notizia. Ma la strada dell’approfondimento e della conoscenza resta l’unica percorribile.