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L'incultura dominante e la parità dei saldi
"Cambiate quello che volete, ma lasciate invariati i saldi". Questo il messaggio di Monti al parlamento sulla legge di stabilità. Come se quel che si fa con i soldi non contasse niente. Una regola che ignora testi ed esiti storici della letteratura economica. Rileggiamoli
L'invocazione della parità dei saldi - che dovrebbe essere assicurata da quelle forze parlamentari che volessero introdurre modifiche alla legge di stabilità - è un altro segnale dell'incultura dominante. Si tratta di una indicazione già sperimentata dai governi quando invece che di “legge di stabilità” si parlava di “legge finanziaria”. Ma l’essere una regola vecchia, oggi condivisa dalle tecnocrazie internazionali, non ne fa una regola razionale e di buon senso.
Cosa si fa con i soldi sembra non importare
Infatti l’affermazione, da parte del governo, che il parlamento è libero di modificare il disegno di legge governativo ma che le variazioni di imposte o di spese volute dal parlamento devono compensarsi, sicché la variazione complessiva del saldo tra spese e entrate deve essere nulla, implica che il governo ritiene totalmente irrilevante, quanto agli effetti, la scelta di quali spese o entrate variare. Cosa si fa con le spese, su chi gravano le imposte, non conterebbe. Conterebbero solo i soldi, più esattamente il saldo dei soldi, non cosa si fa con i soldi.
Spendere per la salute, ovvero per la scuola, o per la ricerca, o per la messa in sicurezza del suolo, o per il ponte sullo Stretto di Messina, o per tutelare gli esodati, sarebbero tutte spese che lasciano il governo sostanzialmente indifferente. E’ sensato? Quali sono gli obbiettivi che si perseguono? E perché al governo, diversamente dal parlamento, non dovrebbe stare a cuore se una legge di stabilità salva vite umane, ovvero assicura una circolazione più veloce delle merci e delle persone, ovvero genera una maggiore crescita di qui a pochi anni, mentre starebbe a cuore solo il famigerato “saldo”?
Lerner: contano gli effetti, non gli impulsi
Pochi anni dopo la pubblicazione della Teoria Generale di Keynes, uno dei più straordinari economisti del secolo scorso, Abba Ptachya Lerner, nato in Bessarabia, macchinista, cappellaio e tant’altro a Londra, poi studente alla London School e, dal 1937, docente in varie università negli Stati Uniti, trasse le conseguenze logiche delle idee di Keynes per quanto riguarda le politiche di bilancio. Queste conseguenze apparivano, a dir poco, scandalose; tali in effetti apparvero allo stesso Keynes, che delle argomentazioni di Lerner arrivò a dire che erano impeccabili, ma “il cielo aiuti chiunque provi a comunicarle all'uomo della strada”, almeno allo stadio dell’evoluzione culturale dell’epoca. Quello stadio è purtroppo oggi più radicato che mai.
Quelle argomentazioni dicevano che il bilancio pubblico non aveva nessuna ragione razionalmente fondata per essere in pareggio, come un bilancio privato. Il bilancio pubblico avrebbe dovuto essere, secondo Lerner, in avanzo o in disavanzo a seconda degli obbiettivi perseguiti e dello stato del sistema economico (una finanza “funzionale”). Non si sarebbe dovuto aver riguardo alla “quantità di soldi” corrispondenti a ciascuna posta di bilancio (in entrata e in uscita). I soldi non sono altro che meri “impulsi” immessi nel sistema. Ciò che conta sono gli effetti di tali impulsi; una proposizione importante in quanto ciascuna di tali poste, ciascun impulso, può avere effetti diversi.
All’epoca e nel contesto della teoria keynesiana tali effetti diversi venivano riguardati come i valori di produzione e reddito (e indirettamente di occupazione) attivati da ciascuna spesa o neutralizzati da ciascuna imposta. Nel contesto keynesiano tali variazioni corrispondevano soprattutto a variazioni di quantità (e quindi di occupazione) e in misura trascurabile a variazioni dei prezzi. Il punto importante per Lerner era che ciascun euro speso o prelevato in poste di bilancio diverse dà luogo (se non per caso) a variazioni del reddito diverse.
In gergo si diceva che i “moltiplicatori” positivi di ciascun tipo di spesa o quelli negativi di ciascun tipo di imposta sono diversi. Nella breve stagione in cui le idee di Keynes, Lerner e di chi aveva fornito ad esse gambe operative (mi limito a ricordare Tinbergen) hanno influenzato politiche e tecnocrazie, tali moltiplicatori diversi venivano stimati econometricamente e resi pubblici da banche centrali e uffici del piano.
Le implicazioni per la condotta di bilancio
L’effetto complessivo di variazioni di bilancio, di conseguenza, lungi dal dipendere dal saldo tra variazioni di spesa e di prelievo, dipende dalla struttura delle poste soggette a variazioni; in altri termini un dato saldo potrà avere effetti diversi a seconda delle variazioni delle poste che lo determinano.
Prima di Keynes e Lerner si voleva il pareggio di bilancio (la parità tra impulsi positivi e negativi) perché si riteneva che il bilancio pubblico dovesse essere neutrale. Lerner argomenta che solo in certi casi, quando vi è piena occupazione, il bilancio deve essere neutrale. Ma per poter essere neutrale occorre che gli effetti siano neutrali, non che lo siano gli impulsi. In particolare il bilancio non dovrà essere in pareggio ma, con tutta probabilità, in avanzo (le entrate dovranno essere maggiori delle spese), perché i moltiplicatori delle entrate tendono ad essere minori di quelli delle spese, sicché occorrerà “esagerare” con le entrate per neutralizzare gli effetti delle spese. E’ proprio il fatto che le entrate debbano in certi casi essere superiori alle spese che fa capire perché il compito delle imposte non è quello di “coprire” le spese (come accade nei bilanci privati), ma solo quello di regolare la capacità di acquisto dei privati in modo da rendere compatibili le scelte private con quelle pubbliche, evitando effetti inflazionistici.
Quando vi è disoccupazione era invece opportuno, secondo Lerner, che il bilancio fosse in disavanzo, in modo da avere effetti espansivi. Se si fa produrre di più a chi è disoccupato questo non comporta nessuno spiazzamento delle spese private; di conseguenza la maggiore produzione pubblica e privata stimolata dal bilancio espansivo aggiunge beni senza sottrarne; non costa cioè nulla alla collettività in termini di minor prodotto.
La sfiducia nelle politiche keynesiane non travolge le argomentazioni di Lerner
Oggi probabilmente i moltiplicatori continuano a venire stimati, ma non se ne dà pubblicità e della composizione del bilancio tecnocrati e politici sembrano disinteressarsi del tutto. E’ certo vero che le idee keynesiane non sono più di moda, ma le critiche a Keynes sembravano esaurirsi nel fatto che politiche espansive keynesiane avrebbero determinato solo variazioni dei prezzi –più in generale effetti inflazionistici- insieme ad effetti reali nulli od effimeri.
Ebbene, questo tipo di critica alle teorie keynesiane non tocca le argomentazioni di Lerner, che si basano sul fatto che i moltiplicatori diversi delle poste monetarie di bilancio danno luogo ad effetti monetari diversi sulla produzione misurata in moneta.
Di conseguenza, anche ammettendo che non vi siano effetti reali ma solo effetti di prezzo, sarebbe comunque utile conoscere quali composizioni delle variazioni di bilancio siano maggiormente inflazionistiche. E anche in questo caso richiedere semplicemente la “parità dei saldi” costituisce un atteggiamento incolto.
Peraltro ritenere oggi che i problemi maggiori siano di inflazione fa sorridere.
I soldi e il senso delle cose
Oggi adotterei le idee di Lerner in una accezione ancora più avanzata. Compito dello stato è quello di effettuare azioni da cui conseguano effetti positivi rispetto ai bisogni e i desideri dei cittadini (quali interpretati dai soggetti politici di governo). In gioco non sono mai i soldi di per sé ma specifiche operazioni reali; i soldi non sono altro che uno dei tanti effetti, delle tante implicazioni, delle azioni che sono state decise. Lerner, adottando l’ottica keynesiana di breve periodo, considerava solo gli effetti su produzione e reddito monetario. Oggi andrebbero considerati effetti che vanno oltre: le conseguenze dell’agire pubblico sulla cultura, sulla formazione, sulla ricerca, sulla dignità umana, sulla effettiva libertà dei soggetti, sulla democrazia e la qualità di essa, sull’ambiente e la sua conservazione, sulla sicurezza.
Il problema è: esistono presso i ministeri, le tecnocrazie, i partiti, i media, le conoscenze adeguate ad una valutazione delle decisioni pubbliche in merito a questi tipi di effetti? O quanto meno, se non valutazioni (parola spesso abusata), la possibilità e la volontà di aprire discussioni attente, prudenti, lungimiranti, serene sui possibili e probabili effetti? Oppure l’attenzione, l’esagerata enfasi, che viene posta sui saldi tra i soldi sono solo un mezzo per allontanare l’attenzione da tali (ed altre) formidabili carenze culturali?
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