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Riconquistare l'economia, passo dopo passo
Il 28 marzo si è svolta a Roma una conferenza promossa dalla Scuola del Sociale della Provincia di Roma, sul tema "Oltre la crisi. Quale economia, quale società". Tra gli ospiti c'era anche la sociologa ed economista Saskia Sassen, di cui pubblichiamo parte dell'intervento: un vademecum per "cominciare a fare nostra l'economia".
Cominciamo con la situazione attuale: viviamo in un brutale capitalismo sempre più dominato da una logica finanziaria che va ben oltre i dati convenzionali dell'accumulazione capitalistica. Il risultato è un’enorme frattura fra i settori che producono profitti, da un lato, e la gigantesca - e non soddisfatta - domanda di abitazioni, cibo, cure mediche, spazi verdi, e molto altro ancora, che in questo modello economico non si traduce in una quantificabile domanda di mercato. È questo un tipo di capitalismo incapace di sviluppare mercati tesi a soddisfare la domanda di beni e servizi di cui c'è bisogno, fattore che consentirebbe di produrre centinaia di milioni di posti di lavoro, espandendo così i consumi. Il capitalismo contemporaneo è infatti dominato da una logica che si discosta da una reale attività economica e che dirotta un numero sempre maggiore di risorse verso il sistema finanziario, che non è gestito per fare semplici profitti, ma super-profitti.
Qui mi limito a parlare solo di alcuni aspetti dell'economia, e in particolare di come possiamo cominciare a fare nostra l'economia. Mi concentro sugli Stati Uniti soprattutto perché si tratta di un caso estremo, dove dunque tutto si vede più chiaramente ed è più facile da capire. Gli Usa sono un paese il cui progetto di base passa storicamente attraverso il mercato e mezzi di produzione incardinati sulla proprietà privata. Il capitalismo statunitense, ma questo vale anche per molte altre realtà nazionali, ha però perso la capacità di trasformare quello di cui la gente ha bisogno in fonte di profitto. Di conseguenza ci sono tantissime persone che non riescono mai a entrare nel circuito economico o ne vengono espulse. Una logica negativa, va da sé, ma che può costituire tuttavia una opportunità per sviluppare un'economia alternativa in grado di fornire beni e servizi per persone e luoghi oggi abbandonati a se stessi.
Mobile e multicentrica
Essenziale è che la nostra economia si sposti verso una condizione multicentrica e meglio distribuita. Una volta acquisita questa «multicentricità» occorre fare un passo successivo, all'interno di un percorso che comincia con il capitalismo brutale dei nostri tempi e che poi si diriga verso un nuovo socialismo. Qui, però, mi limito solo a parlare della prima fase, che dovrebbe dare origine a un meccanismo capace di mobilitare uomini e donne intorno a una serie di tematiche, dal disastro ambientale alla ridefinizione delle forme della politica e della democrazia. La mia è solo una visione parziale, che richiede ulteriori interventi e mobilitazioni. Negli Stati Uniti, a livello di pubblica opinione, è però più facile persuadere la gente su questioni pratiche che possono andare nel senso di un'economia più socializzata piuttosto che dire «dobbiamo combattere per il socialismo», anche se di fatto è questo che ho in mente. In altri termini, è più facile ottenere una risposta positiva alla proposte di cambiamento, se chi le propone le accompagna con progetti che risolvano problemi come l'eliminazione di malattie che colpiscono milioni di persone; o che tendano a produrre abbastanza cibo per soddisfare i bisogni alimentari di tutti. Tutto questo è molto più efficace che non gridare: «Abbasso l'agrobusiness e le industrie farmaceutiche». E sarebbero proposte ancor più convincenti se spieghiamo che «se non eliminiamo quelle malattie e quelle carenze alimentare, gli effetti colpiranno tutti come un boomerang». C'è molto da fare: dobbiamo produrre abitazioni e cure mediche, realizzare nuovi parchi e sviluppare l'agricoltura urbana, ripulire le acque, costruire edifici che siano a emissioni zero - e la lista potrebbe continuare a lungo. Fare tutto questo assorbirebbe la disoccupazione esistente e costringerebbe a modificare il modo di funzionare delle imprese, migliorando anche le condizioni di chi lavora. Chi possiede una specializzazione avrebbe un ruolo centrale; chi non ce l'ha potrebbe acquisirla. In breve, saremmo tutti occupati: la maggior parte sarebbe pagata, ma verrebbero coinvolti anche quelli che non hanno bisogno di soldi, ma cercano solo di dare un senso «morale» alla loro vita.
In questo modo, l'impronta economica di una nazione si espanderebbe enormemente, soprattutto a favore delle persone svantaggiate: queste attività economiche invaderebbero, alla lettera, i luoghi più negletti e emarginati, dalle cittadine che ovunque si vanno spopolando ai ghetti delle metropoli agli spazi abbandonati dove vivono i senzatetto. E riuscirebbero a penetrare in quegli spazi - centri commerciali, grattacieli direzionali, ma anche miniere e fabbriche inquinanti - attualmente piantonati da guardie private e comunque chiusi all'esterno.
Il realismo del cambiamento
Il carattere diffuso di questa esperienza potrebbe cominciare a far pensare che non abbiamo più a che fare con «la» economia, ma con la «nostra» economia. Si svilupperebbe così un nuovo senso di collettività e di partecipazione, che a sua volta potrebbe generare un senso maggiore di sicurezza esistenziale e la consapevolezza che non si è soli davanti al mercato. Tutto ciò coinvolgerebbe anche chi è refrattario alla nozione di solidarietà di classe. La ragione per cui avviare questo progetto a lungo termine è che oggi è più realistico di quanto non sia stato negli ultimi cinquant'anni. A conferma di questo nuovo «realismo» basta ricordare che il governo americano è disposto a pompare denaro nell'economia. Peccato, però, che finora lo abbia fatto per salvare «banche zombie». Una seconda questione importante è come spostare il denaro verso quegli ambiti lavorativi che cadono oggi al di fuori delle logiche dominanti di profitto. In un'economia capitalistica il governo deve effettivamente creare canali che consentano di utilizzare il denaro dei contribuenti su reali necessità alle quali non si può rispondere attraverso meccanismi di mercato. Crisi finanziaria e crisi ambientale hanno inconsapevolmente cooperato alla creazione di un'opportunità per i governi di intervenire nell'economia. Riparazione e sviluppo delle infrastrutture ed ecocompatibilità della nostra economia sono infatti diventati due meccanismi chiave per convogliare il denaro a migliaia di località finora rimaste ai margini dei flussi economici, o a piccole e medie imprese di dimensioni. Simili opere richiedono la partecipazione di una vasta gamma di settori economici, creando così un effetto moltiplicatore potenzialmente significativo anche per i settori non direttamente impegnati da tali attività. Ecco un esempio di quello che si potrebbe fare con alcuni miliardi di dollari, e cioè assai meno rispetto alle migliaia di miliardi di dollari che i nostri governi ora passano alle banche. Nel caso degli Stati Uniti la «American Society of Civil Engineers» ha stimato che nelle infrastrutture statunitensi dovrebbero investire una media di trecento miliardi l'anno per i prossimi cinque anni. Una cifra ben minore rispetto agli 8000 miliardi dei contribuenti versati alle banche dal governo. Ed è la testimonianza, fra l'altro, della cattiva qualità delle infrastrutture americane. Si tratta naturalmente di un solo esempio, che può variare a seconda dei paesi, ma che mette in evidenza come il denaro elargito alle banche superi perfino di venti volte quello che dovrebbe essere destinato a opere socialmente necessarie.
Solari e sostenibili
Sarebbe fondamentale per tutto questo che le infrastrutture fossero costruite in maniera ecologicamente sostenibile. Da parte dei governi la sostenibilità ambientale è ormai un meccanismo consueto per trasferire denaro all'economia. Pensiamo ad esempio alla scelta di incrementare l'uso di energia solare: è evidente che dovremo produrre e installare milioni di pannelli solari e che così facendo useremo in modo capillare tipi molto diversi di lavoro. Allo stesso modo, una prevenzione sostenibile delle inondazioni farebbe sì che aree coperte oggi dal cemento ritornerebbero al loro stato originale di terre umide. Questo a sua volta comporterebbe che terre umide oggi sul punto di morire fossero riportate in vita (penso alle wetlands della zona di New Orleans, attraversate da oleodotti, che hanno messo a gravissimo rischio anche le wetlands che regolavano i livelli delle acque del Mississippi). La ricostruzione e riparazione delle zone umide è un lavoro duro e impegnativo che richiede una manodopera molto diversa rispetto, per esempio, a quello della costruzione di un argine. L'adeguamento delle abitazioni alle norme termiche è un buon esempio di un'iniziativa che coinvolge famiglie e aziende locali, con l'ulteriore effetto di mobilitare le persone in un'azione comune. Ad Austin, in Texas, un simile programma per alloggi a basso reddito ha concesso sovvenzioni alle famiglie a patto che il lavoro venisse affidato alle imprese locali. In questo modo c'è stato un forte risparmio, si sono creati posti di lavoro e c'è stato un sostegno alle imprese locali, avendo come salutare effetto collaterale un aumento del verde cittadino.
Un ultimo elemento da affrontare è come possiamo cominciare a fare nostro quella che oggi è la funzione delle banche in una economia capitalistica. Io faccio una differenza tra finanza e sistema bancario. Per semplificare, il sistema bancario è vendere i soldi che hai, mentre nella finanza si vendono soldi che non hai. Abbiamo bisogno di un sistema bancario diffuso a livello locale.
Municipalismo bancario
La maggior parte delle esigenze di famiglie, imprese, fondi pensione e amministrazioni locali possono essere soddisfatte attraverso banche di piccole dimensioni. Costruire una diga (non una buona idea, comunque!) o una nuova acciaieria richiede una notevole quantità di denaro che in un'economia capitalistica potrà essere finanziato solo dal governo o da un gruppo di grandi banche. Ma la maggior parte delle piccole imprese, le famiglie e gli enti locali possono ottenere i prestiti di cui hanno bisogno da banche di piccole dimensioni. Sappiamo che le banche di piccole dimensioni tendono a puntare sull'economia locale e ad avere come clienti le piccole e medie imprese e le famiglie a basso e medio reddito, in parte perché conoscono la situazione locale e possono valutare meglio la solidità di coloro che chiedono un prestito. Ma con la «deregulation» degli anni '80, le grandi banche si sono prese la maggior parte della quota di mercato anche in questi settori. Inoltre, i fondi pensione dei lavoratori hanno maggiori probabilità di controllare il modo in cui la banca gestisce i loro fondi e per garantire migliori investimenti per i propri lavoratori rispetto a quanto avviene con le grandi banche. Gli Stati Uniti hanno più di 7.000 banche di piccole dimensioni, con meno di un miliardo di capitalizzazione. E metà di queste banche hanno meno di mezzo milione, una cifra modestissima nel contesto attuale. Queste banche hanno bisogno di piccole imprese e di famiglie a basso-medio reddito. È un rapporto molto diverso strutturalmente rispetto a quello delle grandi banche e rafforza ulteriormente l'articolazione strutturale di questi istituti bancari con la località dove hanno sede. Anche i proprietari della banca, per quanto avidi e per nulla interessati al benessere della loro comunità, sono strutturalmente dipendenti da quella stessa comunità. Questa è la chiave del discorso.
Il futuro nelle nostre mani
Anche qui il mio punto di vista, pragmatico più che utopico, vede in questo sistema diffuso di piccole banche una piattaforma potenziale per un capitalismo meglio distribuito. Sì, certo, è ancora capitalismo. Ma comincia a muoversi in un'altra direzione. Se ci mobilitiamo attorno a questi problemi, cominciamo ad avere un coinvolgimento individuale e collettivo almeno con una parte del sistema bancario. E cominciamo a costruire il ruolo delle banche, anziché dare i nostri conti bancari e le nostre carte di credito aziendali alle grandi banche.
Questo testo è già stato pubblicato nell'edizione del 28 marzo del manifesto
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