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L'ottava meraviglia del mondo

30/03/2012

Il dibattito sulla costruzione della Tav in Val di Susa si è trasformato in un confronto ideologico che a volte nasconde quella che sembra l’essenza della questione che non si trova né in Val di Susa né a Torino, ma a Roma

Il dibattito sulla costruzione della TAV in Val di Susa si è trasformato in un confronto ideologico che a volte nasconde quella che a me sembra l’essenza della questione che non si trova né in Val di Susa né a Torino, ma, simbolicamente, a Roma; nel senso che l’impudenza e la prepotenza con cui sono state condotte le opere pubbliche negli ultimi decenni in questo paese ha generato una profonda sfiducia nella capacità delle classi dirigenti italiane di fare investimenti in cui l’interesse collettivo e la salvaguardia del comune patrimonio ambientali vengano tutelati alla pari della sostenibilità economica dell’opera (vedi “Area Enel e no Tav” , Arcipelago Milano 5 marzo 2012 e Tav e Notav una storia americana che insegna qualcosa da cui prendo una parte di queste note). Si cerca di contrastare questa sfiducia con l’ineluttabilità delle scelte tecniche: ma questa posizione è fonte di ulteriore irritazione, perché mostra la trama ideologica, la continua insistenza su una distinzione che sempre più si rivela astratta e fuorviante tra il mondo della politica, che sarebbe dominato dall’arbitrio e dalla approssimazione e il mondo della tecnica che sarebbe invece dominato dalla razionalità e l’esattezza.

Le grandi imprese tecniche sono eminentemente politiche, non solo nel senso ovvio che ciascuna di esse è alternativa ad altre opere e che queste scelte sono inevitabilmente e genuinamente “politiche”, ma nel senso che lo sono anche in un certo senso, geneticamente. Perché le grandi opere appartengono alla famiglia dei “macrosistemi”, come ricorda il sociologo francese Alain Gras, cioè insiemi complessi di aspetti tecnici, ma anche economici, organizzativi e culturali. Un buon esempio è la diffusione dell’elettricità che richiede un complesso macrosistema che parte dalle dighe e arriva alle lampadine: in forma letteraria, se ne legge una splendida ricostruzione nella storia dei primi impianti elettrici domestici nell’epoca vittoriana, in Electricity di Victoria Glendinning, (Arrow, Londra 1996). Ma certamente le ferrovie sono da sempre state associate con l’idea di progresso e di potenza: e con una forte simbologia culturale: dalla corsa tra il cavallo e la macchina, alla conquista del West, al Ballo Excelsior, al blindato di Trotskij. il treno, ha sempre proiettato una immagine di sé al tempo stesso affascinante e minacciosa; le metafore per il “drago di fuoco” si sprecano a decine. Questo elemento culturale non è un accessorio dello sviluppo tecnologico, ne è una componente essenziale: le ferrovie, come ogni altro grande “macrosystème” sono investimenti di grande portata e questi investimenti non si riescono a fare se non si possono basare su un largo consenso. Spesso le grandi opere si arenano o falliscono, non per colpa di oppositori neoromantici o luddisti, ma proprio per la labilità delle basi tecniche ed economiche su cui si reggono queste grandi opere, come per esempio la FEC, Florida East Coast Extension, nota un tempo come l’“ottava meraviglia del mondo”.

Le Florida Keys sono un arcipelago di 170 piccole o piccolissime isole piatte (keys o cays) che si stendono dalla punta Sudest della Florida fino a Key West, la maggiore, che chiude un arco che si protende come un indice arcuato ad invito verso Cuba, finendo esattamente all’altezza dell’Havana, da cui dista 169 km, 91 miglia nautiche, una distanza inferiore a quella tra Key West e Miami. È un’area dei Caraibi che ha una lunga e complicata storia di conquiste, riconquiste e passaggi, perfettamente adatta al contrabbando, alla pirateria e a ogni altra intrapresa in cui è utile avere a portata di mano un labirinto di acque infide e di passaggi noti solo a pochi esperti. Paesaggio splendido, ma non troppo raccomandabile, neppure dal punto di vista balneare se si vogliono evitare le temibili meduse filamentose Portuguese Man o’ War, i cui tentacoli possono essere mortali e comunque dolorosissimi, anche se secchi sulla spiaggia. Comunque posso dire per esperienza che niente, neppure le fastidiose mosche della sabbia, che peraltro non sono sempre attive, trattiene il gitante da buttarsi a mare in uno dei molti punti dove l’attrazione è irresistibile, come Bahia Honda State Beach.

La vicinanza con Cuba fa del porto di Key West un ottimo punto d’approdo per le merci dei Caraibi, ma poi, da Key West, per raggiungere il mercato americano, occorre percorrere un tragitto di almeno altre 100 e passa miglia nautiche in linea d’aria, in pratica una ulteriore giornata di navigazione, fino a Miami. Dobbiamo immaginare come fossero la Florida del Sud e le keys (il nome viene dallo spagnolo cayo, piccola isola, banco di sabbia): questo semi-atollo di coralli buttati lì come una manciata di ghiaia da qualche stralunata divinità. Un luogo totalmente inospitale, senz’acqua potabile, senza terreno da coltivare “con troppo mare per farci crescere qualcosa e troppo poco per poterci navigare” come l’aveva definita esasperato uno degli ingegneri che avevano avuto la ventura di lavorarci con alligatori, rattlesnakes e sharks dominatori della fauna locale, finché uno strano e straordinario esemplare di tycoon Henry Morrison Flagler che, di fatto, aveva inventato la Florida quale è oggi, decise a un certo punto di “collegare” Miami (città praticamente da lui stesso fondata ex novo ) con una ferrovia, a Key West, allora un popoloso centro portuale, Dobbiamo immaginarci queste isole sperdute nel mare allo stato naturale, alcune quasi sommerse, altre separate da un braccio di mare profondo, o lungo parecchie miglia, tutte esposte a ogni forma di intemperie, senz’acqua o riparo, che avevano però una caratteristica che aveva richiamato l’attenzione del grande tycoon: era l’unico luogo della Florida dove non gelava mai andando da circa 25”LatN a ca 21” Lat.N, zona subtropicale e, benché a noi sembri strano, le grandi gelate sono la piaga della Florida, come i grandi hurricanes tropicali.

Oltre allo sforzo per immaginare l’ambiente originario, richiede anche uno sforzo notevole, (per una cultura così tradizionalmente cinica e schematicamente ideologica come la nostra) immaginare un tipo di capitalista schumpeteriano come Flagler: con poche eccezioni i nostri tycoon sono “ricchi di stato”, hanno basato le loro ricchezze su accordi e manipolazioni politiche. Che non sono sicuramente mancate nel capitalismo americano (anzi!) il quale però – grazie anche alla straordinaria potenza di accumulazione originaria del capitale con le risorse agricole e minerarie, soprattutto il petrolio, in un paese immenso – come ha risposto una volta Jim Clark, il fondatore di Netscape a una mia domanda sulle differenze tra capitalismo Usa ed europeo, “has a certain degree of nuttiness”. Aggiungendo che in Netscape aveva investito metà del suo patrimonio personale. È quella sorta di follia di cui parla anche Steve Jobs. Quando Flagler esponeva quella che veniva chiamata “Flagler folly”, spiegava tranquillo come pensava di arrivare a Key West: “è semplicissimo. Costruite un arco di cemento, e poi un altro e ben presto vi troverete a Key West”. Ci volevano milioni, ma Flagler li aveva perché ne aveva fatti talmente tanti con David Rockefeller e la Standard Oil che non avrebbe potuto spenderli in tutta la vita nonostante le molte ville e le tre mogli. La storia di Flagler (verso la cui seconda moglie Elizabeth, ne Harkness, ho un debito postumo di gratitudine perché la fondazione della sua famiglia mi ha pagato 2 anni di studi e viaggi negli Stati Uniti) è troppo straordinaria perché possa anche solo azzardarmi a sintetizzarla qui. Dico solo poche cose, che mi auguro stimolino qualcuno ad approfondire questa saga alquanto singolare. John Morrison Flagler era figlio di un povero pastore protestante, in società con David D. Rockefeller la Standard Oil e anche quando ne uscì, o meglio uscì dalla gestione diretta, i dividendi delle sue azioni gli garantivano un reddito fantasmagorico. Si dice, ma poi ognuno è libero di credere o meno, che l’enorme ricchezza accumulata lo spingesse a occuparsi del bene altrui. Alla grande: cominciò una serie di investimenti per sviluppare la Florida, allora una quasi selvaggia regione a sud della “maniglia” (panhandle) che lega l’Alabama alla West Florida, intenzionato ma soprattutto mettendosi nell’impresa ferroviaria. Flagler appartiene al gruppo dei “Robber Barons” (Così definiti da Josephson nel famoso testo del ‘34 (Matthew Josephson, The Robber Barons: The Great American Capitalists, 1861–1901, New York: Harcourt, Brace and Company, 1934 e venne in particolare celebrato da David Leon Chandler, Henry Flagler: The Astonishing Life and Times of the Visionary Robber Baron Who Founded Florida (1986)) cioè imprenditori capitalisti che accumularono ricchezze favolose, oggi li definiremmo “billionaires”, “multimliardari” o “trillionaires” ormai gli zeri si sprecano e che poi cercarono di farsi ripulire, almeno un poco, le loro turbe morali finanziando colleges, balletti, e biblioteche pubbliche. Contrariamente a una leggenda diffusa da intellettuali italiani, che probabilmente non hanno mai visitato né le une né le altre le migliori biblioteche pubbliche si trovano negli Usa e non nella ex Urss, spesso finanziate con soldi dei baroni ladri: Andrew Carnegie, da solo, ha finanziato più di tremila edifici di biblioteche pubbliche, attirandosi gli strali di un umorista eccessivamente down-to-earth, che scrisse che i poveri ne avrebbero tratto più vantaggio se fosse stato loro permesso di mangiare e dormire in quelle biblioteche (cosa che peraltro gli studenti americani fanno regolarmente). Flagler aveva la passione dello sviluppo turistico e voleva trasformare la Florida in una “American Riviera”. Sviluppò prima West Palm Beach, ma anche lì venne colto da una ondata di gelo e si spinse sempre più a sud bonificando Miami che venne pianificata una città di canali, perché nel frattempo Flagler aveva accumulato una notevole competenza nella mescola dei cementi e, contemporaneamente aveva investito in varie ferrovie locali, unificandole in una rete che permetteva ai newyorkesi spendaccioni di trasferirsi in poche ore a Miami, usando anche le comode vetture lanciate da George Pulmann fin dal 1856. Ma Miami non era abbastanza al riparo dal gelo a Flagler cominciò a pensare a Key West e per un periodo assai lungo fece predisporre i piani necessari facendo studiare la zona dai suoi ingegneri ed esaminando tutte le possibilità, con la cautela e le risorse di un visionario ricchissimo.

Così nel 1904 si butta nell’impresa e il 22 gennaio 1912, ormai vecchio e mezzo cieco, compie il viaggio inaugurale a bordo della sua carrozza personale, Rambler, con ghiaccio e champagne e arriva a Key West con il primo treno. La storia dell’epica costruzione che durò otto anni e che incontrò anche l’opposizione dei pochi abitanti delle isole, i conch people, che temevano un disastro, che poi di fatto si verificò, è davvero il racconto di una moderna sfida ingegneristica agli dei: basti pensare che il cemento per la costruzione dei ponti e delle massicciate veniva importato direttamente dalla Germania e che mentre i lavori avanzavano tutto doveva essere portato per nave dalla terra ferma, a cominciare dall’acqua potabile; la mano d’opera, spesso reclutata nei bassifondi o nelle patrie galere era sottoposta a fatiche estenuanti, ma era alloggiata in buone condizioni in campi modello forniti di tutto, ma mancavano le prostitute e l’alcol che il rigido teetotaler Flagler aveva bandito, la costruzione procedeva a ritmi di maratona, tanto che Marathon divenne poi il nome della città che vi sorse e che divenne poi la seconda città delle Keys. Per i molti dettagli curiosi e affascinanti rinvio a Pat Paris, The Railroad that Died at Sea, Langley Press, Key West 1968 e ai vari siti, tutti molti ricchi, su Google, da uno dei quali traggo il racconto della conclusione. “Alla metà del 1935, circa cinquanta milioni di passeggeri avevano già percorso il viaggio di 156 miglia attraverso le Florida Keys. Il 2 settembre 1935, Labor Day, con un forte uragano diretto verso le Keys, a Miami una locomotiva e alcuni vagoni vennero assemblati per una gara contro il tempo per riuscire a salvare le centinaia di reduci di guerra che lavoravano alla costruzione dell’autostrada bloccati nel loro accampamento sull’isola di Islamorada, a circa un terzo di strada. A Homestead, l’ultima stazione sulla terraferma, il macchinista decise di spostare la locomotiva verso la parte posteriore del treno per potere poi sfuggire più velocemente dai flutti, ma perse un’ora di tempo. Le onde si stavano già rovesciando sui binari mentre il treno si avvicinava a Islamorada. Appena il treno si fermò, le famiglie cominciarono imbarco. La fermata a Homestead, tuttavia, si rivelò fatale. In pochi minuti, all’altezza dell’isolotto di Matecumbe (qualcosa che ha a che vedere con lo spagnolo “matar”) un subitaneo aumento del mare di oltre 17 piedi travolse il treno e le poche case, spazzandone via la maggior parte verso il mare. Nei giorni a seguire, più di cinquecento corpi sono stati trovati. Nessuno saprà mai il numero esatto di vittime in quel giorno. Dopo ventitré anni di servizio, le Ferrovie Henry Flagler sono morte in mare durante il grande uragano del 1935.” E questa è la versione ufficiale: una impresa titanica costata circa 50 milioni di dollari di allora, di tasca del tycoon che (questa è la voce) nella sua eredità di 100 milioni aveva anche messo da parte i soldi per rimediare a eventuali disastri atmosferici. Ma l’ironia della sorte volle che anche prima dell’uragano, la ferrovia era riuscita sì a “connettere” Key West con la terraferma, ma non riuscì mai a trasformare Key West nel grande porto che Flagler aveva sognato, al contrario la ferrovia favorì, oltre a un intenso turismo ludico (e alcolico) che permetteva di andare con pochi soldi fino a Cuba e ritornare con la valigia piena di rhum, anche una massiccia migrazione verso la terraferma. Anche questo uno sgarbo postumo al povero Flagler che era, come molti tycoons americani un puritano e un rigoroso antialcolista.

La ferrovia “che finiva nel mare” si trasformò in “ferrovia che morì nel mare” e fu sostituita in seguito da una splendida autostrada: la numero 1 del sistema autostradale americano interstate (http://www.us-highways.com/) che fa da controparte alla 101 che va da Olympia (nello stato di Washington) a Los Angeles. Chi volesse farsi una gita americana veramente emozionante può prendere un’auto a Miami e dirigersi a SudEst attraverso le Everglades per poi saltabeccare da isola a isola costeggiando a tratti i ruderi di una sorta di strano acquedotto romano, “arco dopo arco” da cui ogni giorno pencolano decine di canne da pesca in attesa dei bei pesci, e di qualche occasionale pescecane, che si vedono brulicare nell’acqua sottostante. Oggi Key West rimane solo una cittadina ex-coloniale abbastanza carina, nonostante la folla di turisti del rhum che vengono a sbronzarsi in onore di Hemingway. Del quale rimangono la casa (ore di coda) e, dicono, i gatti con sette dita, o meglio i loro discendenti, una cinquantina di polydactil. L’altra popolazione animale che popola significativamente Key West sono le centinaia e forse migliaia di lussureggianti galli rosso-bruno di taglia XL che con le loro famiglie sciamano liberamente dovunque, solo ogni tanto pigramente scacciati (sciò sciò) da qualche abitante infastidito dalle raspate nel proprio giardinetto di casa. Sono gli eredi dei galli da combattimento portati lì dai bucanieri caraibici per le lotte tra galli e appartengono a quella razza che durante la guerra chiamavamo Rodisland (Rhode Island) e che mia zia Gin era diventata bravissima a operare con forbici e ago da sarta sul tavolo da cucina, per liberarli dai calcoli nello stomaco che affliggono quella specie di pennuti. Mai nessuno era rimasto sotto (quei) ferri, ma certo nessuno è neppure poi morto di vecchiaia. Forse tra un barilotto di rhum, i gatti di Hemingway e i pollacchioni, che oggi devono essere stati rimpatriati (ai tempi della “aviaria” li avevano deportati fuori città con grande scandalo degli animalisti e dei locali) si troverà il tempo di andare a visitare il monumento dedicato dalla Contea di Monroe ai caduti della Flagler Eastern Extension (Florida East Coast Key West Extension) e di meditare su una delle più grandi saghe della storia delle ferrovie.

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